Il Resto del Carlino, 3 febbraio
«Io, avvelenata dal Kosovo»
http://ilrestodelcarlino.monrif.net/chan/2/6:1781231:/2001/02/03

BRESCIA — Prima li hanno lasciati andare allo sbaraglio, senza informazioni sui rischi ambientali a cui andavano incontro, perché nei Balcani non c'era soltanto il pericolo dell'uranio impoverito. Poi li hanno dimenticati, come denuncia indignato Giovanni Caselli, responsabile della missione Arcobaleno per il Kosovo: «Nessuno sembra essersi preso concretamente a cuore la salute dei 20 mila volontari che hanno operato nelle organizzazioni umanitarie mentre era in corso la guerra».

Nessun esame per i civili

«Ho scritto a tutti — spiega ancora Caselli — , dalla Presidenza del Consiglio al sottosegretario Minniti, ma nessuno si è mai degnato di rispondermi». Ieri, intanto, è "saltato" anche il decreto legge che stanziava 400 miliardi per la ricostruzione e il monitoraggio ambientale nei Balcani.

Se per i soldati che hanno prestato servizio nella ex Jugoslavia è stato predisposto un articolato protocollo di esami che avrà durata quadriennale (ma non risulta siano stati allacciati contatti con gli ospedali delle città che ospitano le brigate impegnate nei Balcani, come Pisa, Novara, Cagliari e Caserta, che forse avrebbero dati importanti da offrire), sui civili non è stata ancora presa alcuna decisione ufficiale.

E magari sarà capitato anche a tante donne come la volontaria 30enne bresciana Cristina Palamini, di sentirsi dire, mentre era in Kosovo, da un medico militare, en passant, «di evitare la gravidanza nei sei mesi successivi al rientro in patria dalla missione».  Il rischio dei metalli pesanti, dunque, esiste eccome, intanto il laboratorio svizzero di Spiez, che trovò tracce di plutonio nel DU dei proiettili della Nato, ha recentemente isolato anche l'uranio 232, un altro isotopo che non esiste in natura.

Allarmata, al rientro in Italia, Cristina è andata al Centro di medicina nucleare di Brescia per una serie di esami che hanno evidenziato livelli di piombo (?) nel suo sangue, più alti della norma.

Partita per il Kosovo nell' agosto '99, la giovane donna è rimasta un anno in terra straniera per aiutare le popolazioni colpite dal conflitto. Spiega: «A differenza dei militari che vennero informati sul pericolo uranio, nel novembre del '99, a noi civili — ricorda — non ha detto nulla nessuno. I nostri soldati erano molto più tutelati di noi, a cominciare dal cibo, che per loro arrivava dall'Italia.  Noi, invece mangiavamo la stessa frutta, verdura, carne, latte e acqua della popolazione civile kosovara».

La situazione non è cambiata nemmeno quando l'allarme uranio ha focalizzato l'attenzione sulle gravi ripercussioni ambientali e sul rischio che i veleni della guerra potessero finire negli alimenti.  «Ho fatto sei mesi a Pristina, con l'Aibi — prosegue la volontaria — ed altrettanti a Mitrovica con le Nazioni Unite. Quando si seppe dell'uranio chiesi personalmente al Capo della sicurezza delle Nazioni Unite della città delucidazioni, dovendo operare sul territorio, soprattutto sulle zone maggiormente colpite. La sua risposta fu lapidaria: «non sono tenuto a darle questo tipo di informazioni».

Cibo e visite mancate

Tuttavia la sorpresa maggiore, rammenta, l'ebbe all'ospedale francese di Mitrovica dove si recò per curare una forma di allergia.  «Quando l' ufficiale medico della Kfor mi fece quel discorso sulla gravidanza e sui fattori ambientali che potevano incidere molto gravemente, mi è caduto il mondo addosso. All'inizio della missione, quando mi sottoposi al check-in medico presso la struttura delle Nazioni Unite, nessuno mi aveva detto nulla. Perché?».

Nella foto: militari italiani in uniforme protettiva misurano il grado di radioattività alla base Nato a Sarajevo

dall'inviato Lorenzo Sani



Commento: siamo tutti spendibili, qualcuno potremmo cominciare a spenderlo subito.