Il padre di fronte al Municipio. E’ incatenato sotto un sole cocente nella piazza di Trapani. E’ stretto con le catene ai polsi per il figlio Crispino o Rino come lui preferisce essere chiamato. E’ disposto a tutto pur di ottenere una giustizia che stenta ad arrivare. A fianco la moglie che ieri notte è tornata a dormire accanto al marito. Chiedono una cosa: assistenza per il figlio malato che ha contratto il “linfoma non Hodking a grandi cellule B” ovvero tumore alle ghiandole linfatiche durante il periodo di servizio di leva. Rino era a bordo della Perseo quando ha cominciato a sentire i primi malori. «Aveva giurato fedeltà allo Stato questo mio figlio», continua Giuseppe, ed era partito in missione per l’Albania. Dieci giorni a bordo della fregata insieme a francesi, tedeschi, americani, inglesi, a caricare i lanciamissili e a sparare di notte nel vuoto. «E’ andato a servire lo Stato - continua -. Questo stesso Stato che me lo ha riconsegnato malato e che ora non mi dà modo di curarlo perché io lavoro solo quattro mesi l’anno e mia moglie è disoccupata. Io voglio che Rino abbia una vita normale come tutti. Voglio che gli venga riconosciuta subito la causa di servizio e non tra cinque o venti anni. Voglio che il suo dolore sia lenito dalla speranza di una vita migliore». E’ stanco e affranto Giuseppe, ma quella rabbia che nasce dal dolore non l’ha persa. E la storia di Rino ha il sapore amaro e forte della vita, di chi non ha più nulla da perdere. «Dopo il ritorno a Taranto - ricorda lui stesso - avevo mal di testa e vomitavo continuamente. Per tutta risposta i sanitari dell’ospedale militare mi dicono che ho la gastrite e che non voglio fare il servizio militare. Così mi rispediscono per qualche giorno a casa e poi mi trasferiscono a Messina. Sto male, sempre più male, il mio male non mi dà tregua. Così mi fanno altri accertamenti e mi dichiarano idoneo. Mi rispediscono da Messina a Pantelleria presso il centro Mariradar, era un posto bellissimo dal quale vedevo un panorama che sogno anche oggi». «Me lo mandano su una torre alta 50 metri, mio figlio - ricorda il padre - a controllare gli apparecchi radar. Una torre maledetta dove ci sono impianti e antenne paraboliche, apparati per le telecomunicazioni», insomma un posticino suggestivo, un pullulare di radiazioni elettromagnetiche. «Lo fanno stare lì giornate intere. Montava la mattina alle 9 e smontava alle 16 e trenta del giorno dopo», e la rabbia monta, non dà tregua. «E’ tornato malato». Il congedo Rino lo consegue il 23 aprile 2000. A Pasqua, durante una gita con amici al luna park, urta il ginocchio destro contro un pezzo di ferro e il dolore non lo abbandona più. Basta un’analisi per confermare i risultati: tumore. E da allora comincia un calvario che non è ancora terminato. Rino ha venti anni. Tra non molto sarà riconosciuto invalido civile al 100% ed è iniziata quella lunga e penosa richiesta per il riconoscimento della causa di servizio che non si è ancora conclusa. E mentre Rino è in casa, con le sue stampelle, in preda ai suoi mal di testa, al vomito e alla febbre, circondato dall’affetto dei suoi cari, suo padre è lì incatenato in piazza a chiedere e pretendere una giustizia che si spera arrivi. «Mio figlio ha bisogno di affrontare la speranza di una vita migliore - dice la mamma Vincenza - e noi non gliela possiamo garantire perché non abbiamo soldi per farlo. Non possiamo più aspettare che lo Stato si decida a risarcirlo. Di soldi abbiamo bisogno subito e non tra venti anni. Io sono disoccupata. Mio marito lavora solo 4 mesi l’anno. Non vogliamo carità. Chiediamo solo che lo Stato garantisca i diritti di tutti, che pensi ai suoi figli, soprattutto a quelli più deboli che hanno più bisogno di altri», e le lacrime smorzano il discorso.
Castalda Musacchio