La Stampa
UNA RISPOSTA A CERONETTI
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NON È L'ISLAM
di Khaled Fouad Allam

Interrogarsi sulla violenza nelle società umane, sulla crudeltà degli uomini non può far prescindere dalla storia e dal contesto in cui viviamo. Certo, questo non giustifica e non dovrebbe mai giustificare la distruzione, l’odio, la morte in nome di un Dio.

Anch’io sto male, malissimo, ogni qual volta sento o leggo titoli come «Attentato islamico», «Bomba islamica» ecc. Gli occhi si arrossano, i battiti del cuore accelerano, esco di casa e oltre la porta un clima di sospetto mi accompagna, le mie parole divengono anemiche, il silenzio mi travolge fino all’oblio.

Ma io non voglio dimenticare, voglio gridare che l’Islam non è un mostro anche se ne stiamo creando uno. No, musulmano non può significare vivere con la morte appiccicata addosso, sognare la distruzione o la ribellione; il secolo che si apre mi riempie di inquietudine: tutto si radicalizza, l’Oriente diviene il contrario dell’Occidente, l’Islam l’altro nome della tirannia.

La violenza uccide le nostre parole. Ma, caro Ceronetti, esiste anche una violenza della violenza, ed è al centro del dibattito nelle nostre società, alla quale fanno eco tante altre; l’immigrazione, l’Europa, il Mediterraneo.

Questa violenza sta nel continuare ad affermare: «L’Islam è...». E per me questo vale sia per i talebani, le derive algerine ecc., sia per il discorso occidentale sull’Islam. In realtà ci rifiutiamo ancora di conoscere il reale significato dei nostri orizzonti culturali; viviamo sulla superficie delle cose credendo che sia la sostanza; ed è questa crosta che ci acceca completamente. Vale per voi, ma soprattutto per noi musulmani.

Caro Ceronetti, quando nel 1592 fu arrestato Giordano Bruno per poi esser bruciato a Roma otto anni più tardi, in India un sultano musulmano, Al Akbar, scriveva un trattato sulla tolleranza, e nominava ministro un induista.

Tutto questo è oggi dimenticato. Certo, noi nell’Islam sunnita non abbiamo né chiesa né clero; ognuno di noi è depositario dell’Islam. Ma per me coloro che negli ultimi anni in Algeria hanno gridato la parola «libertà» e sono stati assassinati, come lo scrittore Tahar Djaout, il regista Alloula o come una mia amica d’infanzia, suicida perché non poteva più vivere in quel clima di violenza, valgono quanto le parole di un imam o di altri esponenti dell’Islam. Quelle morti sono la ribellione di fronte alla violenza, di fronte a un Islam che non è Islam ma la follia degli uomini.

Abbiamo un dovere, tutti noi: segnalare le carenze, gli occultamenti, le deviazioni, i controsensi, le ignoranze, le false coscienze, le apologie difensive o offensive, le manipolazioni della storia, le controversie gratuite; svelare tutto ciò che le società nascondono a se stesse, perché in esse forze antagoniste si affrontano da sempre.

Questo significa compiere un dovere intellettuale positivo, aiutare e rendere possibili prese di coscienza indispensabili; infine, significa prendere parte ad azioni liberatrici.

In ciò la questione di Israele è la nostra metafora. Israele ci interroga anche e proprio su questo, sulla religione liberata dalla storia, da entrambe le parti: questo voglio gridare, anche se oggi il mondo sembra intrappolato in una serie di vicoli ciechi.

(7 gennaio 2001)



Commento: certo è che se continuano a sparare uranio in paesi a maggioranza islamica (Bosnia, Kuwait, Iraq, Kosovo), a qualcuno prima o poi gli cominceranno a girare le balle. O non se n'era accorto nessuno?