ROMA - Questa sera il pm Giovanni Salvi sarà ascoltato in seduta segreta dalla Commissione stragi sui possibili collegamenti tra il caso Gladio e il sequestro Moro e sugli ultimi sviluppi delle indagini della Procura di Roma sull’assassinio dello statista dc. Mentre una relazione del giudice Bonfigli, depositata ieri, mette nuovamente in luce il ruolo del direttore d’orchestra russo Igor Markevitch. L’ex direttore del Servizio segreto militare, ammiraglio Fulvio Martini, rivela al Corriere un episodio assolutamente inedito di quei terribili 55 giorni. E fornisce per la prima volta una testimonianza diretta di un possibile legame tra Gladio e il caso Moro. Durante il sequestro dello statista, Martini, incaricato dal governo di stabilire se Moro era a conoscenza di segreti vitali per la sicurezza dello Stato, si accorse che nella cassaforte del ministro della Difesa non c’era un documento riguardante Gladio.
E’ possibile che quelle carte, uscite dalla cassaforte di Palazzo Baracchini, siano finite nelle mani delle Brigate rosse come possibile «merce di scambio» con lo statista prigioniero? Sono quelle carte «l’altro ostaggio» ipotizzato dal presidente della Commissione, Giovanni Pellegrino, che apparati dello Stato cercarono di recuperare mentre era in corso la trattativa per la salvezza del presidente della Dc?
Ammiraglio, ci spieghi come andò.
«In pratica ero il numero due del Sismi, diretto dal generale Santovito, ed ero anche caporeparto operativo per l’estero. Era l’aprile del 1978, durante il sequestro di Aldo Moro, ero stato incaricato dal governo di fare un’inchiesta per cercare di capire se Moro, sotto interrogatorio da parte delle Brigate Rosse, potesse essere in grado di svelare segreti di Stato relativi alla politica estera o alla sicurezza militare. Ebbi un’assicurazione scritta dalla Farnesina e dal ministero della Difesa che Moro non era a conoscenza di grandi segreti e quindi, anche se avesse parlato, non avrebbe potuto portare gravi danni. Nel corso di questa stessa inchiesta (siamo nella primavera del ’78) mi dissero che Moro non era mai stato "indottrinato" sull’esistenza di Stay Behind (che era uno degli argomenti specifici che io dovevo appurare), cioè che non era stato mai informato ufficialmente della presenza in Italia della struttura segreta della Nato».
E allora come mai nel memoriale di Moro c’è un’indicazione abbastanza precisa su Gladio?
«Quando, nell’autunno ’90, furono ritrovate le carte del covo di via Montenevoso, il pm di Roma Franco Ionta mi fece vedere una delle carte di Moro trovate a Milano in cui accennava ad un’organizzazione segreta della Nato che avrebbe potuto essere identificata con Stay Behind, e mi chiese se, secondo me, Moro si riferiva alla Gladio. Risposi che probabilmente poteva essere così, perché, forse, ne era stato informato da qualcuno del suo partito».
Il ministro della Difesa dell’epoca, Attilio Ruffini, sapeva di Stay Behind?
«Certamente. Ma quando feci l’indagine, nel ’78, riscontrai che il documento di passaggio delle consegne tra lui e il suo precedessore, il ministro Lattanzio, in relazione all’organizzazione Gladio non era nella sua cassaforte».
E cosa avvenne allora?
«In una riunione al Viminale, presente il ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, e altri 6-7 testimoni, riferii quello che risultava sulle conoscenze di Moro e consegnai le dichiarazioni del segretario generale della Farnesina, Malfatti, e del Capo di Stato Maggiore della Difesa, Viglione. Feci anche notare a Ruffini che nella sua cassaforte mancava il documento di passaggio di consegne sulla Gladio. Era un particolare che non era irrilevante, ma che non c’entrava niente con gli accertamenti in relazione a Moro».
Forse questa valutazione poteva valere all’epoca, ma non dopo le scoperte di Montenevoso. Come doveva essere questo documento? Un foglio, venticinque fogli?
«Non lo so perché non l’ho visto. So solo che doveva trattare l’argomento Stay Behind».
Lei pochi mesi dopo quell’episodio, in agosto, lasciò il Sismi.
«Sì, avevo avuto quello scontro con il ministro e poi c’erano stati altri episodi che mi indussero a cambiare aria. Giurai a me stesso che non avrei più rimesso piede nel Servizio. Non fu così perché venni nominato direttore del Sismi nell’84, ma andarmene allora fu una scelta saggia: mi mise al riparo da un certo numero di problemi che di lì a poco coinvolsero il servizio».
M. Antonietta Calabrò
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