Illegalità dell'uso delle armi al DU, note dell'Avv. T. Trevisson (4 marzo)

Dal 24 marzo al 10 giugno 1999, la North Atlantic Treaty Organization (NATO) ha combattuto una guerra aerea contro la Repubblica federale di Jugoslavia (RFJ), il cui nome in codice era Operation Allied Force .

Il conflitto nei Balcani, per come condotto, è stato senz’altro una guerra di tipo nuovo (incidentalmente, va sottolineato che le guerre, in realtà, sono state due: l’una del forte contro il debole, quella della  NATO contro la RFJ, l’altra del debole contro il più debole, ossia della Serbia contro i Kosovari; da una parte, una guerra sofisticata, elettronica, tecnologica; dall’altra, massacri, deportazioni di massa, violenze ed esecuzioni sommarie), paradigma, ad un tempo, delle debolezze europee e delle idiosincrasie americane. Sollecitata dalla propria opinione pubblica e dal desiderio di evitare i contraccolpi della crisi balcanica, l’Unione europea, a torto o a ragione, ha sentito l’obbligo d’intervenire, pur non avendone i mezzi: le sue industrie di difesa sono strettamente nazionali, dunque poco adatte ad affrontare l’insieme di sfide delle nuove tecnologie; le sue spese militari, se rapportate al suo prodotto interno lordo, ammontano a due terzi delle spese americane; la sua logistica e la sua intelligence dipendono quasi esclusivamente dalle basi, dagli aerei e dai satelliti americani. Gli americani, naturalmente, hanno combattuto nel solo modo in cui intendono combattere dopo la fine della guerra fredda: con soldati in ‹‹camice bianco››, seduti di fronte allo schermo di un computer, a distanza di sicurezza dalle armi dell’avversario; gli europei hanno combattuto con i soli mezzi di cui dispongono: il loro territorio a disposizione degli americani, qualche aereo ed una buona manovalanza militare.

Imperativo categorico ispirante la condotta della guerra da parte del generale Wesley Clark, comandante supremo della NATO, era ‹‹nessun morto››: avrebbe, insomma, dovuto trattarsi d’una guerra d’intelligenze e tecnologie a confronto, quasi un videogioco.

Dopo la guerra combattuta in Kosovo, le certezze ereditate dalla guerra fredda s’incrinano, lasciando il posto a nuove dottrine militari. Il sistema delle comunicazioni, attraverso il quale circola l’informazione, si fa paradigma organizzativo. Nella loro analisi di questa mutazione, gli strateghi americani sono impazienti di vedere gli Stati Uniti prepararsi alla ‹‹ciberguerra››, dove, per soggiogare l’avversario, sarebbe sufficiente perturbare le sue strutture di comando, d’informazione e di pensiero, piuttosto che intraprenderne la distruzione fisica. Due ricercatori americani molto vicini agli apparati militari ed ai servizi d’Intelligence, specialisti di conflitti nell’era informatica (J. Arqilla e D. Ronfeldt, The Emergence of noopolitik: Toward an American Information Strategy, Santa Monica, California, 1999), hanno elaborato una serie di concetti espressi attraverso formule originali: cyberwar, netwar, noopolitik (v. H.I.Schiller, La communication, une affaire d’Etat pour Washington, in Manière de voire, n. 46: Révolution dans la communication, juillet-août 1999); l’idea di fondo, che la rivoluzione dell’informazione modifica la natura dei conflitti ed offre nuovi moduli operativi sia agli apparati militari, sia al terrorismo, sia alla criminalità, corrisponde alle previsioni dei futurologi Alvin ed Heidi Toffler (Guerre et contreguerre, Paris, 1996), circa lo svilupparsi di nuove interazioni fra la guerra e la società in rapida evoluzione.

I fatti, tuttavia, si sono incaricati d’evidenziare una contraddizione brutale: dopo due mesi di bombardamenti a fronte di oltre venticinquemila missioni aeree, neppure un militare dell’Alleanza aveva trovato la morte in azioni di guerra e due soli velivoli erano andati perduti, a conferma del progetto  del generale Clark di fare una guerra senza perdite d’aerei (cfr. Herald Tribune, 18 maggio 1999); di contro, le distruzioni materiali subite dalla Jugoslavia sono state considerevoli: infrastrutture militari e industriali, fra le quali centrali elettriche, sono state gravemente danneggiate o rese inutilizzabili; tutti i sistemi elettronici sono stati bruciati e le comunicazioni telefoniche ascoltate in permanenza; a causa d’errori di tiro, forse centinaia d’innocenti sono stati ammazzati e di qui  il rammarico, il dolore, la costernazione, i rimorsi, il profondersi in scuse ed in richieste di perdono da parte dell’Alleanza.

I bilanci dettagliati forniti dal governo della RFJ valutano le perdite civili tra i 400 e 600 morti. La NATO non ha comunicato stime ufficiali di civili o di combattenti della RFJ uccisi. Ingenti i danni ambientali: la guerra in Jugoslavia, come tutte le guerre, è stata, in sé, una catastrofe ecologica: distruzione di raffinerie con liberazione di nubi tossiche; bombardamenti d’industrie chimiche, con conseguente inquinamento dei corsi d’acqua e uccisione della fauna; lancio di bombe alla grafite, le quali liberano sostanze cancerogene; abbandono di bombe all’uranio impoverito radioattive; uso di bombe a frammentazione, le quali seminano centinaia di pezzi assimilabili a mine antiuomo (gli Stati Uniti hanno rifiutato di sottoscrivere il trattato di Ottawa che ne interdice l’uso); scaricamento nell’Adriatico di bombe attivate che minacciano i pescatori

Se Henry Kissinger, a proposito di questa guerra, si è chiesto: ‹‹Che razza di umanesimo s’esprime attraverso il rifiuto di subire delle perdite militari e la devastazione dell’economia civile dell’avversario, per decenni a venire?›› (Newsweek, 31 maggio 1999), già il filosofo americano Michael Walzer aveva sottolineato che ‹‹ Il tiro al piccione non è scontro fra combattenti. Quando il mondo si trova irrimediabilmente diviso tra chi lancia le bombe e chi le riceve, la situazione diviene moralmente problematica ›› (v. la Préface di Guerres justes et injustes, Paris, 1999).

Amnesty International  e Human Rights Watch , hanno esaminato vari aspetti della campagna, inclusi nove attacchi specifici nel corso dei quali sono stati uccisi dei civili e il diritto della guerra potrebbe essere stato violato: ad avviso di queste due organizzazioni umanitarie, le quali hanno formulato le loro riserve sulla base degli elementi disponibili, principalmente le dichiarazioni pubbliche della NATO, anche per bocca di propri alti ufficiali, sembra che l’Alleanza non abbia sempre rispettato gli obblighi legali nella scelta dei bersagli e dei metodi e mezzi di combattimento, bombardando, in un caso, un obiettivo civile, ossia i locali della Radio-Televisione serba a Belgrado; nel corso di altri attacchi, come quello contro i ponti di Grdelica, non sospendendo i bombardamenti, anche se era evidente che dei civili erano stati colpiti; in altri casi ancora, inclusi quelli degli attacchi contro le popolazioni trasferite a Djacovica e Korisa, mostrando che le precauzioni prese non sono state sufficienti a minimizzare le perdite civili, le quali avrebbero potuto essere significativamente ridotte se le forze dell’Alleanza avessero pienamente rispettato il diritto della guerra.

Da parte sua, la NATO si è limitata a sostenere che la campagna aerea contro la RFY sarebbe stata la più precisa della storia e che mai si sarebbero adottate altrettante precauzioni per proteggere i civili,  senza, tuttavia, fornire risposte convincenti alle domanda poste da  Amnesty International, su eventi precisi e, soprattutto, senza indicare se fossero in corso inchieste tese a fugare ogni dubbio sulle operazioni controverse. In particolare, la NATO non ha mai fornito alcuna indicazione circa le regole alle quali si conformarono i combattimenti ed alle direttive eventualmente impartite, passaggio indispensabile al fine di verificare la conformità della campagna di bombardamenti al diritto internazionale umanitario.

I membri dell'Alleanza, infatti, non hanno sottoscritto gli stessi trattati. Gli Stati Uniti, i cui aerei hanno realizzato l'80% dei bombardamenti (cfr. Military Readiness Subcommittee of House Armed Services Committee, Hearing on the Readiness Impact of Operations in Kosovo, Washington, 25 ottobre 1999), non hanno ratificato il I° protocollo addizionale, allegato alle convezioni di Ginevra del 1949; non lo hanno fatto neppure la Francia e la Turchia. Il portavoce della NATO, Jamie Shea, ha ripetuto per tutta la durata del conflitto che mai come allora le leggi della guerra erano state altrettanto rispettate, ma non ha mai fatto esplicito riferimento al protocollo I. I rappresentanti della NATO incontrati a Bruxelles hanno insistito sul fatto che solo gli Stati membri, a titolo individuale, dovevano rispettare gli obblighi legali. La NATO non ha meccanismi capaci di imporre il rispetto di un insieme comune di norme né di assicurarne l'interpretazione comune. Questo resta compito di ogni singolo stato membro, e comporta di conseguenza oscillazioni nell'applicazione delle regole. I rappresentanti della NATO hanno spiegato che durante l'operazione, l'Alleanza indicava i bersagli agli stati membri e questi ultimi potevano rifiutarli se, per esempio, dal loro punto di vista l'attacco violava il diritto internazionale oppure le proprie leggi nazionali. Nel caso in cui un bersaglio fosse stato rifiutato come illegale dal paese designato, l'informazione non sarebbe stata trasmessa a un altro paese, hanno affermato i portavoce dell'Alleanza. Ma non è chiaro se davvero sia avvenuto così. In almeno un caso, quello dell'attacco contro l'edificio della Radio televisione serba, sembra che l'operazione sia stata mantenuta malgrado il disaccordo tra i membri della NATO sulla legalità dell'azione (cfr. Amnesty International, nel rapporto NATO/Federal Republic of Yugoslavia, «Collateral damage» or unlawful killings? Violations of the Laws of War by NATO during Operation Allied Force, Londra, EUR 70/18/2000: nato all.pdf.).

Il 13 giugno 2000, l'ufficio del procuratore presso il Tribunale incaricato di perseguire i presunti responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, commesse sul territorio della ex Jugoslavia successivamente al 1991 (TpiJ), ha reso publico il rapporto di una Commissione interna sui bombardamenti Nato. In quel rapporto, mentre per un verso si riferisce che, interrogata su «questioni specifiche a proposito di incidenti specifici, la Nato ha formulato la risposta in termini generici e senza riferimenti agli incidenti specifici», e si sottolinea che «la commissione non ha parlato con le persone coinvolte nella direzione o nell'esecuzione della campagna di bombardamenti», per l’altro non si spiega quali siano state le difficoltà incontrate dall'ufficio del procuratore nella raccolta di prove contro personalità ufficiali della Nato o di uno Stato membro.

Non ci si può esimere dallo stigmatizzare l’intollerabile gravità del fatto che la Nato non abbia offerto adeguata collaborazione all’ufficio del procuratore presso il TpiJ – circostanza che ha contribuito alla mancanza di informazioni, riconosciuta dalla stessa Commissione nel suo rapporto, il che fa il paio col fatto non meno grave che, in nome dell’ingerenza umanitaria, considerata ormai moralmente superiore a tutto, la nato non aveva esitato ad infrangere il principio di sovranità degli Stati e ad agire in assenza di ogni risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che autorizzasse esplicitamente i bombardamento contro la Serbia.

Ho già avuto modo di evidenziare (v. il nostro Nuove frontiere della tutela dei diritti umani, cit.) come, per la prima volta, con la guerra del Kosovo, si sia assistito all’emarginazione, in un affare di simile gravità, delle Nazioni unite, unica sede internazionale per la risoluzione dei conflitti ed il mantenimento della pace: i bombardamenti contro la Jugoslavia vennero decisi dalla Nato in assenza di ogni risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che li autorizzasse esplicitamente. Intravvidi in questo «l’ultimo, almeno temporalmente, ma inequivocabile indicatore dell’insofferenza degli Stati Uniti, già manifestatasi a partire dall’inizio degli anni ’90, verso le Nazioni unite». Ho avuto anche occasione di sottolineare come i primi, nella loro attuale situazione d’egemonia, non accettino più d’essere imbrigliati dalle procedure legaliste dell’ONU. Ho scritto e lo ribadisco con convinzione, alla luce dell’atteggiamento niente affatto collaborativo della Nato, che: « La guerra alla Serbia, … si è incaricata di dimostrare come l’esistenza di questa istituzione nel corso di tutto il secolo XX – dapprima sotto la forma della Società delle Nazioni – non fosse dovuta, come si può essere creduto, ad un avanzamento della civiltà, ma all’esistenza simultanea di potenze della medesima importanza, delle quali nessuna in grado, almeno militarmente, d’imporsi sulle altre. Un tale equilibrio si è rotto con la scomparsa dell’Unione sovietica e, per la prima volta dopo due secoli, un’iperpotenza, gli Stati Uniti, domina il mondo in modo opprimente, nelle cinque sfere essenziali del potere: politica, economica, militare, tecnologica e culturale. Questa iperpotenza non vede perché dovrebbe condividere o limitare la sua egemonia quando la può esercitare pienamente senza che nessuno, neanche le Nazioni Unite, possa contestargliela».

La Commissione non ha preso, nel suo rapporto, posizione sulla delicatissima questione della legittimità della guerra e il procuratore presso il TPIJ è stato categorico sul punto: ‹‹Non toccava e non tocca a noi stabilire se la Nato avesse o no un legittimo mandato internazionale a intervenire contro la Jugoslavia››. Nulla da obiettare: la giurisdizione del TipJ, a norma di Statuto e di Regolamento di procedura e prova, è circoscritta alle infrazioni gravi alle Convenzioni di Ginevra del 1949, alla violazione delle leggi e dei costumi di guerra, al genocidio, ai crimini contro l’umanità; esula, dunque, dalla sua giurisdizione la legittimità internazionale di un conflitto, il quale ha chiuso un decennio d’incertezze, di disordini, di tentennamenti in materia di politica internazionale e segnato i tratti di un nuovo quadro per il secolo che comincia.

Preoccupa, piuttosto, l’atteggiamento remissivo del procuratore, il quale non ha tenuto in alcun conto né le raccomandazioni di Amnesty International né quelle di Human Rights Watch, induce a riflettere sulla soluzione data al problema della relazione del pubblico ministero con la legge adottata dallo Statuto istitutivo del TpiJ  e dal relativo Regolamento di procedura e prova: il procuratore ha fatto proprie le conclusioni del rapporto, nonostante l’isufficienza conoscitiva da cui venivamo fatte dichiaratamente discendere, decidendo di non «esercitare l’azione penale» per le denunce – le quali andavano dal genocidio (per la morte di almeno cinquecento civili sotto i bombardamenti), ai disastri ambientali (conseguenza dei bombardamenti di raffinerie, d’un uso indiscriminato di bombe a frammentazione, o d’uranio impoverito per il potenziamento dei proiettili anticarro), agli attacchi ad un treno nella gola di Grdelica, ad un convoglio di profughi albanesi, alla televisione serba, all’ambasciata cinese, alla caserma di polizia di Korisa, al cui interno erano ammassati centinaia di rifugiati albanesi – contro i capi dell’Alleanza atlantica, i quali guidarono la guerra aerea contro il Kossovo, asserendo che «O la legge non è sufficientemente chiara, oppure le inchieste hanno poche possibilità di acquisire prove sufficienti a incriminare personalità di alto rango o persone più modeste, accusate di crimini particolarmente gravi».
Tutto ciò induce a riflettere sull’inadeguatezza della soluzione data al problema della relazione tra pubblico ministero e legge, adottata nello Statuto istitutivo del TpiJ  e nel relativo Regolamento di procedura e prova, là dove non è assicurata l’effettiva indipendenza della funzione d’accusa.

Tiziana Trevisson Lupacchini
Avvocato in Roma

  Per rilievi d’ordine più generale, al riguardo, si rinvia al nostro Nuove frontiere della tutela dei diritti umani (in Filosofia dei Diritti Umani- Philosophy of Human Rights, Fasc. 3, Sett. – Dic. 1999, 53-66).

  Amnesty International, nel rapporto NATO/Federal Republic of Yugoslavia, «Collateral damage» or unlawful killings? Violations of the Laws of War by NATO during Operation Allied Force, Londra, EUR 70/18/2000: nato all.pdf.

  Human Rights Watch, Civilian Deaths in the Nato Air Campaign, febbraio 2000,  http://www.hrw.org/reports/2000/nato