16° CAPITOLO - La presenza in carcere dell'ispettorato provinciale del lavoro

Per non negare l'accesso al Mondo del lavoro ai detenuti, sarebbe ora che gli uffici preposti la smettessero di trincerarsi dietro all'antica scusa che già esiste tanra dissoccupazione fuori, e perciò, figuriamoci se riusciamo a trovare lavoro per i detenuti che, tra l'altro, hanno già dimostrato di non avere voglia di lavorare. Troppo facilistico e comodo questo concetto. E' solo una scusante che viene tenuta "sempre alta" per giustificare la latitanza ed il disimpegno delle istituzioni preposte che esistono, ma solo sulla carta.

Non sarebbe impossibile, per nostri legislatori, approntare una semplice normativa che sia capace di incentivare il Mondo del lavoro ad assumere detenuti, nelle condizioni di accedere alle pene alternative, o ex detenuti. Per es. con degli sgravi fiscali, a favore di quelle imprese che li assumerebbero; credo che la forma dello sgravio fiscale, verrebbe a costare molto meno della retta giornaliera che è di lire quattrocentocinquantamila procapite .

Un contatto diretto tra carcere ed ispettorato provinciale del lavoro, anche se si dovranno superare non poche barriere, soprattutto dovute alle prevaricazioni di una mentalità fossilizzata nel tempo, per quel che è l'immagine del carcere, o meglio, l'immagine che si è sempre voluta che fosse. Un impegno costante per avvicinare il detenuto al Mondo del lavoro, credo che possa anche essere uno dei fattori positivi per sdemonizzare la brutta immagine del carcere e del carcerato; potrebbe anche, forse, sortire l'effetto di riavvicinare, o meglio, avvicinare il detenuto alla società, come quel vecchio detto che dice: se la montagna non va a Maometto, Maometto va alla montagna.

Il problema dell'ispettorato provinciale del lavoro, l'ho citato per l'importanza che ho dato ad una mia personale esperienza.

ESPERIENZA DI VALENZA

ARTICOLO DEL QUOTIDIANO DI ALESSANDRIA --



"IL PICCOLO"      sabato 20 febbraio 1993
LA PROPOSTA DI UN EX DETENUTO
"Ecco cosa si può fare per chi esce di galera"

ALESSANDRIA - Volontari, assemblee interne, uno spazio da riservare dentro le carceri per i rapporti esterni dei detenuti, centri di coordinamento che servissero come punti di riferimento per chi esce di galera e torna a vivere, o forse sarebbe meglio dire a sopravvivere, dopo essere stato a lungo dietro le sbarre. Queste alcune delle proposte di Antonio Santoiemma, 42 anni, dodici dei quali trascorsi in cella per spaccio di droga, furto e ricettazione. Una vita che si è lasciato alle spalle da circa un anno, da quando cioè vive alla periferia di Bassignana con uno dei suoi figli. L'altro è rimasto con la moglie, dalla quale si è separato.

Ex detenuti e reinserimento. Questo è il problema che le parole e i convegni non sanno quasi mai risolvere. Santoiemma, che ha girato molte carceri italiane (Volterra, Brescia, Torino, San Vittore, Como, Lecco Treviso, Padova e Bergamo) l'ha potuto constatare sulla propria pelle. Qualche lavoro saltuario, qualche risparmio fuso troppo presto. La speranza di aprire un'attività in proprio subito tramontata ("Ero iscritto al Registro Esercenti del Commercio, ma quando hanno saputo che volevo aprire un negozio i carabinieri rni hanno creato dei problemi") e ora la coda agli sportelli del collocamento per un posto qualunque. "La mia - dice Santoiemma - non vuole essere una pubblicità: nei farei volentieri a meno, in un centro così piccolo con un figlio di 15 anni. Quando si esce dal carcere ci vogliono sostegni e strutture. Altrimenti si rischia di tornare presto. "

R.G.



Carcere: accordo per gli agenti

ALESSANDRlA - Il percorso non è stato facile ma finalmente si è arrivati alla firma dell'accordo tra le organizzazioni sindacali di categoria e il direttore del carcere di San Michele. Un accordo chc interessa tutti gli agenti di polizia penitenziaria e che è entrato, di fatto in vigore lunedì. Per i sindacati questa intesa "è in grado di offrire strumenti concreti a lavoratori che sono chiamati ad operare in una realtà difficile come è quella carceraria". E, in effetti, quello degli agenti è un lavoro 'pesante', che necessiterebbe di una attenzione maggiore di quella che, normalmente, gli viene tributata, oltre che di incentivazioni alla professionalità che, oggi, sono considerate "non più rinviabili'. Da tempo venivano ribadite le richieste - più che legittime - del soddisfacimento di diritti quali quello al riposo settirnanale, ad almeno una domenica libera al mese e la possibilità di conoscere l'orario almeno quindicinale, meglio ancora mensile. "Diritti elementari, troppo spesso però disattesi, con il rischio cosi - fanno notare i sindacati - di aggravare ulteriormente una situazione già di per sé complessa e tutt'altro che priva di pericoli". Con l'accordo entrato in vigore ad inizio settimana questi diritti vengono garantiti, oltre all'obiettivo di migliorare la condizione generale degli agenti, nel breve ma anche nel medio periodo "perché ci rendiamo ben conto che non siamo certo in presenza di un'intesa di facile applicazione. Si deve anzitutto procedere ad una 'scomposizione ' del carcere in blocchi, per permettere una gestione più semplice di tutto il personale (con una trentina di agenti assegnati pcr ogni blocco). E poi devono essere assicurati a tutti i diritti rinsaldando al tempo stesso - così spiegano i sindacati - un rapporto di collaborazione. Altri elementi importanti perché l'accordo possa produrre tutti i suoi effetti sono anche una maggiore professionalità del personale e un trattamento più equo, garantito con l'attuazione della mobilità tra blocchi".

Fondamentale sarà, inoltre, il pieno coinvolgimento di tutto il personale, "perché la partecipazione è condizione indispensabile per risolvere i problemi dei lavoratori del carcere".

Supplemento ordinario alla GAZZETTA UFFICIALE - Serie generale n. 51

1. La commissione circoscrizionale per l'impiego, su richiesta delle direzioni degli istituti penitenziari esistenti nell'ambito della circoscrizione, stabilisce le modalità cui la seziorne circoscrizionale deve attenersi per promuovere l'offerta di adeguati posti di lavoro da parte di imprese che, in possesso dei requisiti indicati dalle direzioni stesse, appaiono idonee a collaborare al trattamento penitenziario dei detenuti e degli internati da ammettere, a norma delle leggi vigenti, al lavoro extrapenitenziario.

2. I detenuti e gli internati hanno facoltà di iscriversi nelle liste di collocamento e, finché permane lo stato di detenzione o di internamento, sono esonerati dalla conferma dello stato di disoccupazione. Su richiesta del detenuto o dell'internato, la direzione dell'istituto penitenziario provvede a segnalare periodicamente lo stato di detenzione o di internamento.

3. Lo stato di detenzione o di internamento non costituisce causa di decadenza dal diritto all'indennità di disoccupazione ordinaria o speciale.

4. Quando vicne svolta un'attività lavorativa remunerata all'interno o all'esterno degli istituti penitenziari, l'indennità di cui al comma 3 non è cumulabile con la retribuzione fino a concorrenza dell'ammontare della retribuzione medesima.

5. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, su proposta della commissione centtale per l'impiego, determina i criteri di computo dell'anzianità figurativa che deve essere riconosciuta agli ex detenuti o internati che si iscrivono alle liste di collocamento entro 15 giorni dalla scarcerazione, in relazione alla durata del periodo di carcerazione.

6. Quando il lavoro a domicilio si svolge all'interno degli istituti penitenziari, il datore di lavoro versa alla direzione dell'istituto medesimo le somme dovute al lavoratore al netto delle ritenute previste dalle leggi vigenti, dimostrando ad essa l'adempimento degli obblighi relativi alla tutela assicurativa, previdenziale ed infortunistica.

7. Per il lavoro a domicilio svolto all'interno dell'istituto penitenziario, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni della legge sull'ordinamento penitenziario in materia di svolgimento di attività artigianali, intellettuali o artistiche per proprio conto.



Nel mese di gennaio 1993, dopo vari ed inutili tentativi d'inserimento lavorativo oltre ai cinque mesi d'impiegatizio c/o la Coop. Banda Lenti, in qualità di responsabile dell'ufficio vendite imm.re, mi recai presso l'ufficio di collocamento di Valenza, dove m'iscrissi con la qualifica di manovale e che in seguito fui assunto come necroforo dal Comune di Valenza con un contratto a termine di sessanta giorni, informatomi subito se era possibile essere assunto di ruolo, fui subito informato che era impossibile perché avevo superato i 42 anni, così prevede la legge. Informatomi all'ufficio di collocamento se esistesse in questo caso una legge favorevole agli ex detenuti, mi fu risposto che l'unico articolo riguardante i detenuti era l'articolo sopra riportato. Chiesto se non fosse troppo poco, mi fu risposto che effettivamente era una beffa alla tanto decantata legge Gozzini. Comunque, non penso che negli istituti di pena, i detenuti siano a conoscenza di tale legge.


Varii articoli di giornale.

LA VISITA ALL'INTERNO DELLA STRUTTURA
Quando si varca quel cancello
Da una "sala regìa" è possibile controllare tutti i settori

ALESSANDRIA - C'è un cancello che divide il reclusorio dal mondo esterno. Un cancello che non tutti possono varcare. Dietro quella recinzione c'è il nuovo carcere di San Michele. Una struttura verde pastello ben visibile dagli automobilisti che percorrono la Statale che porta a Casale. E la curiosità, spesso porta a rallentare l'andatura per vedere cosa c'è all'interno. Cosa racchiudono quelle mura? Com'è strutturata l'attività nel carcere? Tutte domande che oggi hanno una risposta. Dalla strada si vede sulla destra la sezione di semilibertà, la caserma femminile, la zona mense, gli uffici, spostati sulla sinistra ci sono gli alloggi di servizio. Ecco cosa accade quando ci avviciniamo a quel cancello. Intanto severi controlli: e questo ancora prima di varcare l'ingresso. Una volta forniti i propri documenti agli addetti, è possibile raggiungere l'istituto. Di fronte al cancello c'è la zona colloqui. I familiari dei detenuti vengono accompagnati in quest'area e prima dell'incontro si procede alle azioni, divenute ormai di rito. Le persone entrano attraverso una speciale porta dotata di sensori magnetici in grado di evidenziare la presenza di oggetti di metallo. Lo stesso procedimento viene adottato per le borse delle donne o altri contenitori. Questi ultimi, infatti, vengono fatti passare in un apposito rullo collegato ad un monitor dove l'agente può controllare gli effetti personali. Una volta espletate tutte le verifiche si passa nella zona colloqui, da una parte il settore riservato ai parenti, dall'altro quello agli avvocati e ai magistrati. Da quei locali si passa in un'area adibita al passaggio dei mezzi che trasportano i detenuti od il materiale che deve raggiungere il carcere vero e proprio. Un portone carraio, sbarre di ferro di colore grigio e giallo, fanno da intercapedine e dividono la parte esterna dal monoblocco. Prima di oltrepassare quella porticina blindata, si sale al prlmo piano si accede alla sala regia. E' proprio lì, che una guardia controlla tutto ciò che accade all'interno del carcere. Una serie di monitor, di collegamenti radio, di telecamere permettono di sapere costantemente tutto quello che avviene nella struttura. "Le telecamere fissate in ogni punto del carcere ci permettono di vedere tutti i movimenti che avvengono nei vari settori - spiega la guardia - su alcuni video possiamo anche fissare l'immagine delle zone particolarmente a rischio. In quella sala è collocato il sistema d'allarme e i collegamenti radio con Carabinieri, Questura e tutte le strutture atte alla sicurezza dei cittadini. Il reparto è attivo 24 ore su 24. Usciamo dalla "sala regìa", scendiamo le scale e ci avviamo verso la porta blindata. Si apre il cancello carraio e passiamo nella parte interna della struttura dove è stato costruito il blocco monocellulare. Il monoblocco comprende la zona colloqui, la cucina, la lavanderia, il campo sportivo e la sezione femminile. Di fronte al campo di calcio è stata predisposta un'area verde che verrà utilizzata per il corso di botanica. Vicino al campo di calcio si trovano la cucina e la lavanderia. La cucina è decisamente funzionale: all'interno oltre al personale addetto lavorano anche alcuni detenuti. Alle pareti sono collocate alcune tabelle che delineano il prospetto dell'alimentazione dei vari reclusi. Sono previste infatti tabelle normali, quelle per i diabetici, per i nuovi carcerati e quella dietetica. Percorriamo un breve tratto di strada asfaltata e raggiungiamo la sezione femminile. Il portone è chiuso, un piccolo spioncino permette agli addetti di vedere chi c'è oltre quella porta. Qualche secondo, lo scatto di una chiave e la porta si apre.

Entriamo. Un altro piccolo cortile ci divide dal blocco dove sono rinchiuse le donne. Si apre un'altra porta (tutte sono protette da sbarre in ferro di colore giallo fluorescente) di fronte abbiamo un lungo corridoio. Gli agenti aprono un'altra porta di ferro, saliamo una rampa di scale e siamo nella sezione femminile. E' difficile orientarsi tra i corridoi. Percorriamo qualche metro, una guardia ci apre l'enneslma porta di ferro e siamo nella zona degli agenti. Da una parte e dall'altra le sbarre di ferro separano quell'"anticamera" dalle zone dove ci sono le celle. La prima è aperta, sulla porta ci sono quattro detenute. Una è nota agli alessandrini: soprattutto agli abitanti della Fraschetta. E' Renata Lipsova, la vedova di Giovanni Mariotti. La donna è al quarto mese di gravidanza. La cella è piccola, satura di fumo, ma personalizzata. Alle pareti sono appesi poster di attori e attrici famose, uno dei letti a castello è coperto da una trapunta scura a fiori. Ovviamente le occupanti di quella cella hanno cercato di rendere meno pesante le ore e i giorni di reclusione. Quello che si nota immediatamente visitando il carcere è rappresentato dal colore giallo intenso delle finestre della struttura. Quelle tonalità, particolarmente riposanti, sono state studiate appositamente da esperti del Ministero.

Monica Gasparini



IL PICCOLO
DENTRO IL CARCERE -
IN PRIMO PIANO UN COMPLESSO ALL'AVANGUARDIA MA ANCORA POCO CONOSCIUTA
Come si vive dietro le sbarre
Questo è San Michele: una serie di servizi e foto esclusive

Con questo numero, iniziamo la pubblicazione di una serie di inchieste sul carcere di San Michele, cercando di comprenderne il funzionamento e i problemi. Tutto questo visto dall'interno, dalla parte dei detenuti, degli agenti di pdizia Penitenziana e di coloro i quali mandano avanti un impianto moderno e tanto discusso ma che pochi conoscnono. E che "Il Piccolo" cercherà di far conoscere di più e, si spera, meglio.

ALESSANDRIA -Il primo detenuto è arrivato nel gennaio scorso, ma il carcere di San Michele era già finito nell'ottobre del '90: "Una struttura moderna, che sarebbe stata invidiabile se la situazione attuale, il contingente, non ci avesse costretto a comprometterne la funzionalità". Le parole sono del dottor Enrico Cotilli, direttore degli istituti di pena alessandrini, il funzionario che da pochi mesi dirige il moderno carcere che sorge alla periferia della città. Una casa circondariale che dovrà ospitare anche i detenuti che devono scontare lunghe pene e i cosiddetti pentiti, fino a quando non si saranno conclusi i lavori di ampliamento del penitenziario di piazza Don Soria, non prima di due anni. San Michele è un impianto all'avanguardia. Un labirinto di corridoi con centinaia di porte che si chiudono e scale che portano alle sezioni. Con misure di sicurezza invidiabili (in quei quasi due anni di attesa sono stati costruiti il magazzino e ammodernati i sistemi antincendio) e una sala controllo sofisticata. Non ci sono agenti di ronda, sostituiti dai video. C'è, o almeno dovrebbe esserci, spazio per le attività ricreative. Di certo c'è posto e spazio per i corsi di formazione professionale e per la scuola, una vecchia tradizione dell'istituzione carceraria alessandrina. Dentro, oltre quei muri che la gente vede dalla strada che porta a Casale, vivono 411 detenuti, più del doppio del previsto. Le porte delle celle sono aperte e i reclusi, per fortuna, possono passeggiare per i corridoi. Lasciarli rinchiusi nelle stanze concepite per una sola persona e costrette a tenerne anche quattro sarebbe stato quasi impossibile. Si rischiava di ingigantire problemi e contrasti. Comprimere, dietro le sbarre, è sbagliato. Si rischia di far esplodere tensioni improvvise. Emblematico e sincero il commento del direttore Cotilli prima di congedarci dalla nostra prima visita: "Quando, a fine giornata - ha spiegato - si fa la conta e tutto è regolare; nel senso che non è successo nulla di panicolarmente grave, salvo qualche bisticcio o qualche piccolo episodio di intolleranza, c 'è motivo per essere felici".

San Michele è costituto da blocchi. All'esterno subito dopo la guardiola dell'ingresso, ci sono gli uffici e gli alloggi del personale. All'interno, dopo la zona di smistamento, composta dall'ufficio matricola e dall'accettazione, ci sono le tre sezioni circondariali e le tre penali da cui è composto il carcere. Poi altri complessi autonomi: la zona colloqui, riservata a parenti, avvocati e mazistrati. Il cinema, il teatro. Nella parte posteriore ci sono la cucina, la lavanderia e le aule scolastiche. Alessandria sta cominciando ad avvicinarsi al suo nuovo carcere. E' una realtà cbe non si può fingere di ignorare, non è un corpo estraneo alla città. E' un complesso a cinque minuti d'auto dal centro, in cui vivono uomini e donne e in cui lavorano oltre duecento persone tra agenti di polizia penitenziaria e impiegati civili.

"Stiamo facendo molti sforzi per creare collegamenti tra la città e il carcere - spiega il dottor Cotilli - e cerchiamo di aumentare le iniziative a favore dei detenuti. In collaborazione con la Regione Piemonte abbiamo varato un corso per impiantisti a cui attualmente partecipano una quarantina di persone. Si tratta di una sperimentazione positiva, avviata da circa 5 anni. A questa si devono aggiungere i normali corsi tenuti dal Provveditorato agli Studi, le 150 ore alla sezione femminile e il diploma di geometra. Co sono contatti per iniziare lezioni di botanica, di giardinaggio e di coltivazione. Il mio obiettivo? Creare un raccordo carcere-territorio" .

Sembra sia passata una vita dalla riforma carceraria ad oggi. Le prigioni banno adesso il problema dei tossicomani, che sono una categoria di detenuti in costante aumento. Ma le strutture sono cambiate ed è cambiato indubbiamente, il rapporto tra amministrazione e carcerato. Nei rapporti con chi deve scontare una pena ci sono tre attività importanti: il trattamento, l'osservazione e la prevenzione sociale. Il primo è un obbligo costituzionale ("Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"), la seconda attività è svolta da operatori specializzati mentre la prevenzione sociale consiste nel far rispettare gli ordini restrittivi e far scontare le pene stabilite dai giudici. San Michele è diviso in cinque aree, "non luoghi fisici- spiega Cotilli - ma momenti operativi": segretezza, contabilità, trattamento, sanitaria e sicurezza. La popolazione carceraria si diceva, è estremamente eterogenea: si va dai semiliberi (una dozzina) alloggiati in una palazzina esterna, ai pentiti, che vivono in una zona asettica dell'istituto e che hanno contatti con l'esterno praticamente limitati al disbrigo dei problemi personali. Oggi, ad Alessandria, i pentiti sono rimasti soltanto una decina. Non vi sono più personaggi di spicco e non ci sono più i capi storici del terrorismo che avevano finito per rendere "famoso" il penitenziario di piazza Don Soria, in cui sono rimasti rinchiusi per anni, fino a pochi mesi prima della chiusura dell'estate scorsa. Ma ci sono anche i detenuti ammessi al lavoro, circa il 25% e quelli della sezione giudiziaria, per la quale era stata concepita e costruita la struttura. II direttore si alza dall'ufficio e la nostra visita può dunque cominciare.

Roberto Gilardengo



UN PROBLEMA COMUNE AD OGNI RECLUSORIO
Il televisore in cella? Fa parte della prevenzione

ALESSANDRIA -- La caratteristica di piazza Don Soria, come di altri famosi e vecchi penitenziari, era il cupolone centrale da cui partivano, a raggiera, i bracci laterali. San Michele è un carcere monocellulare, di nuova concezione. Sezioni staccate, blocchi, il televisore per ogni cella. I detenuti hanno meno punti di contatto tra loro. Il vecchio refettorio, con in fondo la TV, è stato "sgomberato" dalla riforma carceraria e dalle nuove concezioni di sicurezza "La televisione in cella -spiega il direttore del nuovo carcere alessandrino - è un indubbio comfort per gli ospiti della struttura e limita anche gli assembramenti, come quelli dei detenuti che affollavano il refettorio per assistere alle trasmissioni televisive. Concentrazioni che potevano rappresentare un elemento di pericolo. Le tensioni sono sempre latenti dietro le sbarre. Il punto critico di ogni reclusorio è il settore femminile: "La donna - spiega il dottor Cotilli - in carcere si porta molti dei suoi problemi personali. Il fatto di dover abbandonare i figli; di dover lasciare dall'altra parte delle mura il proprio nucleo familiare, genera spesso eccessiva reattività, a volte addirittura isterismo. E' l'utenza più difficile". Ad Alessandria sono una trentina le donne carcerate. E anche qui, molte di loro sono tossicomani. Ma la riforma del 1975 non ha soltanto portato la tv in ogni cella. Ha messo un buon gruppo di laureati in sociologia e psicologia, gli educatori, a diretto contatto con quella popolazione difficile, chiusa tra quattro mura per scontare una pena. Ad Alessandria lavorano affiancati da esperti psicologi. Con la differenza che gli educatori (nove) fanno parte della pianta organica del carcere, gli altri hanno un rapporto funzionale ma non gerarchico con l'amministrazione. Nell'area del trattamento è stata di recente introdotta la figura del volontario, molto presente anche nelle attività interne: "C'è il rischio - spiega il responsabile del carcere alessandrino - della deprivazione sensoriale, di perdere la dimensione e il senso del colore. E quindi della compressione dei problemi". Per questo vengono anche organizzati corsi di animazione corporea e aerobica. Come in passato, è stata mantenuta la figura del detenuto-lavorante. Ci sono carcerati scrivani, giardinieri e cucinieri.Vengono pagati a mercede, come da contratto nazionale collettivo. Suppliscono alla carenza di inservienti e di personale civile e collaborano al funzionamento di una struttura la cui gestione costa allo Stato qualche decina di miliardi all'anno.

R.G.



(mia esperienza all'ufficio provinciale del lavoro)

Nel Gennaio del '93, accompagnai un'amica all'ufficio provinciale del lavoro di Valenza Pò ( AL ) . Per dei chiarimenti tra la mia amica e la direttrice dell 'ufficio, mi trovai a parlarci insieme anch'io. Terminato l'argomento che interessava la mia amica, approffittai per fare una domanda alla direttrice, e cioè; le chiesi se esistevano delle leggi che facilitavano in qualche modo l' assunzione, tramite l'ufficio provinciale, dei detenuti che potevano beneficiare di pene alternative, o di ex detenuti. Mi rispose, con aria cortese ma anche di delusione:" Guardi, l'unico articolo in materia, l'art.12 della legge che regola l'ufficio provinciale del lavoro, è quello che permette ai detenuti di iscriversi alle graduatorie presso gli uffici provinciali; ma poi, tra le difficoltà di comunicazione e le trafile burocratiche, di fatto, lo stato di detenzione stesso, rende tutto molto più difficile.

Aggiunse, è vero che si rarla tanto di reinserimento del detenuto, ma in realtà si fa molto poco o quasi nulla. Ponendole la mia, domanda, non le avevo fatto intendere chi fossi e a quale scopo gliela avessi posta. Dopo una quindicina di giorni tornai all'ufficio provinciale del lavoro, per iscrivermi nella graduatoria in qualità di muratore, piastrellista, manovale o altro; mi dissero allo sportello che vi era un bando per l'assunzione di un necroforo presso il cimitero di Valenza, con contratto a termine di Novanta giorni, accettai. Pochi giorni dopo ricevetti l'avviso di presentarmi all 'ufficio provinciale per la selezione, mi presentai puntuale e mi misi in fondo alla fila di circa dieci persone; all'orario stabilito uscì dal suo ufficio, la direttrice con in mano la lista dei convocati (quando ero andato ad iscrivermi, lei non mi aveva visto; cominciò a fare l'elenco dei presenti e giunta al mio nome, vedendomi, fu presa da imbarazzo ed arrossì. Mi disse: ma è lei? Io, con fare sorridente, per toglierla dall'imbarazzo, le dissi: perché, forse non vado bene per fare il becchino? Mi rispose: sì, sì...ma sa, l'altro giorno, quando abbiamo parlato di quell'argomento...non avevo capito che poteva trattarsi di lei, vero? Sì, le dissi, in effetti m 'interressva personalmente, ma anche perché sto facendo un mio servizio da fare pubblicare sul quotidiano "Il Piccolo" di Alessandria, in merito a dei servizi che già sono stati pubblicati circa un mese fa. Mi disse di presentarmi subito all 'ufficio dipendenti del Comune per l'assunzione, lei mi avrebbe rreceduta con una telefonata.

Mi presentai, con fare gentile mi dissero che l'indomani mattina dovevo presentarmi al cimitero per la prova d'arte. Lo feci, superai la prova che consisteva nel murare un loculo ed intonacarlo; mi fu comunicato subito, dal geometra che era presente, che avevo sul-erato la prova e che potevo ritenermi assunto. Infatti, fui assunto e vi lavorai per due mesi. Dopo due mesi dovetti lasciare il posto di lavoro e darmi alla latitanza a causa di una misura di sicurezza che mi inseguiva dal 1984, e poi per l'emissione a Settembre dell'ordinanza di custodia cautelare, emessa dalla Procura di Bologna.

Credo che la direttrice, quando telefonò a]l'ufficio dipendenti del Comune, espresse una sua buona opinione in merito alla mia persona. Concludo affermando che, anch'io apprezzai il suo fare discreto e gentile. Forse anche un po' interessata a vedere una migliore legge a favore dei detenuti ed ex detenuti. La ricordo con stima.

Con questo capitolo, termino questa mia analisi-denuncia che è voluta essere anche un messaggio all'opinione pubblica ed alle istituzioni tutte, tendente ad attirare quella giusta attenzione che ogni comunità indifesa merita; ed il carcere, certamente lo è.

Come già detto, ai primi di Marzo del 92 andai ad abitare a Bassignana, un Comune di 750 anime, in provincia di Alessandria. Mi era stata offerta la possibilità di un lavoro in qualità di responsabile dell'ufficio vendite presso una Coop. Edilizia che aveva costruito un palazzo di venti appartamenti e sei ville. Mi offrì un appartamento nello stesso palazzo (pagavo l'affitto), e ciò mi parve vantaggioso poiché, l'appartamento era situato al terzo piano e l'ufficio al primo piano. Il vantaggio consisteva nel fatto che potevo badare anche a mio figlio Donato di quindici anni, a me affidato dal Tribunale per i minori di Napoli nel 1990; mi affidarono anche l'altro figlio, Antonio di sedici anni ( due anni più grande di Donato). Ad entrambi ero riuscito a far conseguire la licenza della terza media inferiore, presso la scuola di Castel Volturno (CE), dove vi avevo abitato con una donna, anch'essa con una figlia minore a carico giacché vedova; il marito gli era morto in un incidente sul lavoro.

Ci lasciammo perché per una serie di ripicche da parte dei nostri figli, si venne a creare una situazione insopportabile; solo in seguito ho capito perché. I miei figli erano "pilotati" dalla madre che non si è mai rassegnata al fatto che il nostro rapporto era finito; sono riusciti a frantumare un bel rapporto che si era creato e che mai avrei dovuto interrompere. Infatti interromperlo non è servito a nulla, se non a crearmi il rimorso di aver lasciato ingiustamente una donna invidiabile ed una figlia che ero orgoglioso di chiamare figlia.

Quando decidemmo di lasciarci con la mia donna, lo facemmo per il solo scopo di non arrivare al punto di doverci lasciare con rancore. Al di là dei motivi, prima di tutto, ognuno di noi aveva l'obbligo di tenersi i propri figli, anche a costo di rinunciare all 'amor proprio. Così facemmo. Lei rimase con la figlia a Castel Volturno, io rimandai mio figlio Antonio dalla Madre a Castellammare di Stabia (NA) perché non ne voleva sapere di seguirmi a Milano o ad Alessandria. Con mio figlio Donato ci trasferimmo a Bassignana. Appena giuntovi mi preoccupai di arredare l'appartamento in modo discreto, ma decoroso. Cominciai contemporaneamente a lavorare e, riuscito a convincere mio figlio a riprendere gli studi, lo iscrissi al Liceo Scientifico di Valenza Pò; il mio sogno era quello di farlo studiare, in seguito, in giurisprudenza per farne un avvocato con la A maiuscola. In attesa della riapertura dell'anno scolastico 92/93, Donato spontaneamente mi disse che gli sarebbe piaciuto lavorare un paio di mesi nello stesso cantiere Edile, dove si stavano ultimando le sei ville di fronte al palazzo dove abitavamo, che così gli sarebbe stato possibile guadagnarsi un po' di soldi per le ferie estive. Lavorò due mesi e, dei soldi guadagnati, cinquecento mila lire gliele depositai in banca aprendogli un libretto di risparmi, il rimanente glieli lasciai per le sue spese estive, infatti lo mandai a Castellammare dai suoi nonni materni per due mesi. Tornò a fine luglio perché me lo aveva promesso, per festeggiare insieme il mio compleanno che Cadeva il Sedici Agosto; lo festeggiammo in discoteca in compagnia dei suoi amici che già erano numerosi e bravi; io, ormai ero anche il loro chauffeur. Il diciotto Agosto, mi recai presso la caserma dei carabinieri di Bassignana per denunciare la scomparsa della mia carta d'identità. Inoltrai la denuncia ed il pomeriggio, in compagnia di Donato, partimmo alla volta di Pinetamare (CE) per trascorrere una decina di giorni di ferie. Giunti all'autogrill di Modena Nord, sull'autostrada, mi fermai per fare benzina e dissi a Donato di andare a comperare del caffè per me e da bere per lui. Gli dissi anche di comperare il giornale di Modena, non lo so perché lo dissi, forse per abitudine, ma lo feci. Aperto il giornale, nella cronaca di Modena vidi la foto di un mio amico calabrese abitante a Vignola, il titolo diceva che pochi giorni prima era stato ammazzato per un traffico di droga, era stata arrestata anche una sua amica straniera cui le era stata trovata in casa oltre tre chili di droga. Una amica di questa, anch 'essa straniera. Comunque, risultano essere agli arresti domiciliari già da molto tempo. Io, quest'amico, erano almeno sei o sette mesi che non lo sentivo o vedevo, ma letta la notizia, intuii subito che avrei passato dei guai per la frequentazione, poiché avevo dei precedenti penali per droga e sapevo che sarebbe bastato solo nominare il mio nome per vedermi coinvolto. Non già perché vi avessi partecipato, ma solo per i miei precedenti penali.

A fine Agosto del 92, interruppi il rapporto di lavoro con la cooperativa Edilizia poiché vi fu un comportamento professionale scorretto, nei miei confronti, da parte del Presidente che credevo mi fosse amico. Invece, era un essere indefinibile, capace di togliere la pelle ad una pulce e che, allo stesso tempo, pensava di ridurmi alla sua mercè giacchè sapeva che ero fermamente deciso a vivere solo del mio onesto lavoro. Cominciai ai primi di Settembre, ad interessarmi a cercare, per mio conto, lavori di restauro di rustici e cascine; ma a causa della grave crisi economica già in atto, mi resi conto ben presto che stavo sprecando del tempo prezioso. Intanto, mio figlio aveva iniziato la frequenza del primo anno al Liceo e si era anche inserito bene nella società di calcio del Valenza Pò. Sia a scuola, dove però, nonostante il suo ammirevole impegno, non riusciva ad entrare nel ritmo delle lezioni, e sia nella società di calcio, si era creato una cerchia di amici veramente invidiabile se si tiene conto che erano solo pochi mesi che era giunto in quel posto. Io avevo iniziato a fare del volontariato presso il ricovero per anziani di Bassignana, facendo loro gratuitamente, soprattutto la Domenica mattina, un servizio di barberia che apprezzavano in particolar modo. Questo anche perché a Bassignana non c'era un barbiere. Mi ero anche prorosto come autista volontario per il servizio notturno dell'ambulanza dell 'A.V.I .S. poiché ero in possesso della patente di guida della categoria "D".

Al Sindaco di Bassignana, dopo avergli parlato del mio passato e quindi fattogli capire che non intendevo più ripiegare sul passato, gli chiesi di rilasciarmi una licenza per aprire una spaghetteria. Infatti avrei potuto aprirla in un locale vuoto, sottostante la mia abitazione. Mi disse di inoltrare la domanda, ricordo che eravamo sotto le feste natalizie quando gli avevo parlato; il due Gennaio 93 presentai la domanda protocollo del Comune. Intanto avevo già chiesto il trasferimento del R.E.C. (iscrizione nel registro esercenti) da Milano ad Alessandria, ma mi risposero che la mia richiesta non poteva essere accolta. r)erchè non ero in possesso dei requisiti morali, quindi altra doccia fredda ai miei affanni. Prima di proporre ricorso, feci delle informazioni e seppi che era prossima la disposizione di appiopparmi un anno di libertà vigilata quale misura di sicurezza (pena accessoria) inflittami in una sentenza del 1984, la delibera la stava facendo il Tribunale di sorveglianza di Milano.

Il rigetto da parte della camera di commercio, intanto, aveva bloccato l'iter procedurale della domanda per la licenza della spaghetteria. Pur rendendomi conto che tutto andava per il peggio, non volevo mollare, non volevo sprecare tutto quello che avevo tentato di fare, ma certamente ero "scarico". Verso la fine di gennaio 1993, iniziai a lavorare presso il cimitero di Valenza Pò. Alla fine del primo giorno di lavoro ebbi un'altra brutta sorpresa; tornato a casa, fui avvisato dai carabinieri di presentarmi a loro appena possibile, non cenai neanche, ci andai subito. Mi notificarono un decreto di sospensione della patente di guida, emesso dalla Prefettura di Milano, perché non mi ero sottoposto ad una revisione che doveva accertarne i requisiti psicofisici. In verità, quando un paio di anni prima avevo ricevuto l'avviso, mi recai allo sportello dell'A.C.I. di Pinetamare (CE) per informarmi su cosa dovevo fare; l'impiegato osservò la patente e mi disse: ma a Milano sono matti? Questa patente è convalidata regolarmente già due volte; lei - rivolto a me - ha per caso fatto qualche incidente grave?

Risposi di no e l'impiegato mi disse di lasciar perdere, anche perché non c'era una procedura specifica per il mio caso, per poter iniziare la pratica, per la revisione. Logicamente mi sentii confortato e non me ne preoccupai più. Dopo la sospensione della patente, il giorno dopo, telefonai alla scuola guida dove avevo conseguito regolarmente la patente e gli dissi di recarsi alla Prefettura e alla motorizzazione per capire lui, e riferire a me, cosa realmente c'era che non andava in merito alla mia patente. Dopo qualche giorno mi disse che la mia patente, inspiegabilmente, non risultava essere mai stata rilasciata; l'avevo conseguita nel 1980, invece, risultava ancora la patente B che avevo conseguito nel 1972. Per cui era logico che la prefettura ne avesse ordinato la revisione, ma intanto ero appiedato.

Fino alla metà di marzo, io e mio figlio ci siamo recati a Valenza Pò in corriera, ma intanto mi andavo rendendo conto che in quel paese non ci poteva essere più un futuro normale, anche perché avevo saputo da una persona del posto, che il maresciallo dei carabinieri di Bassignana lo aveva diffidato verbalmente dal camminare con me e gli disse anche che potevo scordarmelo di aprire una attività pubblica a Bassignana.

Verso il Venti Marzo 1993, ritenendo che non potevo continuare, o che non sopportavo più quella situazione che, a mio parere, sembrava dovesse sempre peggiorare ulteriormente, decisi di piantare tutto. Ne parlai con tutta franchezza con mio figlio. Anche lui, pur apprezzando un mio precedente tentativo di sostenerlo negli studi con il mio impegno e con delle lezioni private, mi disse che era meglio lasciar perdere il liceo e anzi di non voler perdere tempo ad inserirsi presso qualche scuola professionale dove poteva qualificarsi in un qualsiasi mestiere che non richiedesse grossi studi.

Questo era anche quello che mi aveva suggerito l'insegnante di sostegno.

Di comune accordo decidemmo che lui sarebbe tornato presso la madre a Castellammare di Stabia (NA), e che io mi sarei trasferito nuovamente a Milano, dove avevo maggiori speranze di trovare dei lavori per conto proprio. Una volta sistematomi con lavoro ed abitazione, avrei potuto farlo venire anche lui a Milano. Se le cose fossero andate in questo modo, potevo anche definire la pendenza della misura di sicurezza in modo del tutto normale.

A Settembre 1993, seppi che era scattato un blitz a Bologna, precisamente " il blitz del Pilastro "; seppi anche che era stata emessa una ordinanza di custodia cautelare nei miei confronti. Mi misi subito in contatto con il mio legale di fiducia di Milano nominandolo anche con una raccomandata che feci pervenire alla Procura della Repubblica di Bologna e precisamente al sostituto procuratore della D.D.A., dott. Giovanni Spinosa; ma intanto mi tenevo latitante. Questo consisteva nel continuare a lavorare, abitare in una casa non intestata a me evitando di frequentare locali pubblici di ogni genere e di girare la sera tardi. Questa era la mia latitanza; infatti, quando mi arrestarono, gli agenti della Criminalpol ci rimasero un po' male nell 'accertare che circolavo con i miei documenti originali. Mi dissero: "Ma questi documenti sono i suoi!?" Ed io gli risposi, ma perché, non state forse cercando me?

Il suddetto " blitz del Pilastro " è frutto di una inchiesta condotta dal P.M. Giovanni Spinosa per combattere la V° mafia, che, a suo dire, si era ramificata a Bologna. Il P.M. Giovanni Spinosa è lo stesso Magistrato che condusse le indagini relative all 'aberrante eccidio dei tre giovani carabinieri, avvenuto a Gennaio 1991. Per quest'eccidio vennero arrestate subito quattro persone ed incriminate del terribile e barbaro misfatto, questi sono: Marco Medda, Massimiliano Motta e i due fratelli Peter e William Santagata.

Queste quattro persone hanno visssuto per quattro anni in carcere, con lo spettro dell'ergastolo, finché, fortunatamente (se così si può dire), le indagini delle Procure di Pesaro e Rimini hanno permesso l'arresto dei fratelli Savi. Detti fratelli erano appartenenti alla Polizia di Stato e, sino al momento dell 'arresto, erano in servizio effettivo e godevano della fama di buoni poliziotti. Confessarono subito di essere gli esecutori materiali dell'eccidio dei carabinieri, ma anche di diverse rapine ed omicidi che, sino ad allora, avevano provocato l'arresto di molte altre persone tutte condannate con pesantissime condanne.

Per effetto delle confessioni dei Savi, quasi tutte le persone sono state scarcerate per i reati a loro ascritti, qualcuno sta ancora espiando delle condanne de£initive per reati che non erano compresi nell'inchiesta relativa alla "banda delle coop" o dei carabinieri uccisi; salvo William Santagata. Egli è ancora imputato per il blitz del Pilastro, relativo però, ai soli reati di mafia (la V° mafia che il P.M. si sforza di sostenere al dibattimento, già quasi alla sua conclusione, e che si prevede si risolva in un'altra pioggia di assoluzioni). Ora tutte queste persone sembrano essere uscite da un pericoloso tunnel, dal quale sembrava non poterne mai più uscire; questo è potuto accadere solo grazie all'arresto dei Savi, ma se ciò non fosse accaduto, chi li avrebbe potuti salvare? Nessuno! !

Chi avrebbe mai creduto che erano detenuti innocenti? Nessuno! !

Nel blitz del Pilastro, vennero coinvolte circa duecento persone, tra cui io. Siamo stati quasi tutti rinviati a giudizio, più o meno con gli stessi reati gravi, e cioè, relativi alla V° mafia, finalizzati al traffico di droga. Io non conosco la realtà della città di Bologna in merito ad un radicamento o meno della mafia o di bande che si possano equiparare allo stampo mafioso, così come siamo abituati a vedere nei film o tramite la stampa quotidiana; certamente, guardandomi, non io né molti degli imputati in questo blitz, che ho modo di vedere nella mia sezione differenziata; mi convinco semrre più che il P.M. dott.Giovanni Spinosa, ha creato una grossa "BUFALA", e quel che è peggio, è il fatto che persevera a sostenerla a tutti i costi nei vari processi che si stanno svolgendo nelle varie aule.

L'otto febbraio 1995, ebbe inizio davanti alla Corte D'Assise di Modena il dibattimento, ma alla quarta udienza, per un cavillo processuale, ne fu deciso il rinvio. Sino ad oggi, ventotto ottobre, ancora non conosco la data di fissazione del processo, né presso quale Tribunale avrà luogo. Intanto però, molti miei coimputati sono usciti per decorrenza dei termini previsti dalla legge sulla custodia cautelare, e molti sono agli arresti domiciliari. Io ed altri pochi miei coimputati, nonostante siamo in carcere, io da diciotto mesi, ed altri da oltre due anni, viviamo con la speranza di ottenere almeno gli arresti domiciliari. O quantomeno speriamo in un processo a breve termine.

Intanto però stiamo vivendo il carcere, ma se un giorno il processo stabilirà l'innocenza di qualcuno di noi, in quale modo potremo essere risarciti, e in quale modo e misura pagheranno i giudici responsabili?

Se pagheranno. E' anche per questo che ho sollecitato la segreteria del Comune di Bologna per orgsnizzare, anche all'interno della Dozza, 18 raccolta di firme per sostenere i referendum promossi dal Club Pannella; mi è stato risposto con una lettera, che la segreteria è disponibile e che attende l'autorizzazione della direzione del carcere. Questa, credo, si adopererà senz'altro in merito.



"UN TRATTAMENTO SPECIALE"
( 17 giorni presso la casa circondariale di Modena )

Sono le ore 23 del 23.02.95; innanzi tutto ringrazio il signore per avermi concesso la grazia di avere superato questi diciassette giorni, trascorsi nel carcere di Modena, in compagnia di altri dodici miei coimputati (2-3 per cella) relegati al piano terra del reparto infermeria, in una sezione d'isolamento approntata per noi.

Giunti a Modena per un processo fissato in data 08.02.95 e che si prevedeva durasse tre o quattro mesi, per fortuna è stato annullato per incompetenza territoriale e quindi non dovremo più ritornarvi.

Domani mattina, forse, farò ritorno a Bologna e il mio consueto tran-tran, che consiste nel corso di ragioneria, nello studio del Vangelo e nei contatti epistolari regolari, nel senso che chi mi scrive, saprà dove mi trovo.

Nelle prime righe ho voluto ringraziare il signore per avermi dato la forza necessaria per non cedere alle provocazioni riservateci; stavo per chiedermi perché sopportare tali umiliazioni, invece ho preferito fermare il mio pensiero e ricordarmi che il signore non dà mai una croce più pesante di quella che si possa portare.

L'ho ringraziato e ho pensato che, d'altronde, se tutto filasse liscio, non avrebbe neanche senso che io mi trovi sempre impegnato in prima fila per tentare di risolvere le mille vertenze che, giorno per giorno, ci "obbligano" a dialogare con le dirigenze del carcere.

Ho appena finito di consegnare tutte le mie cose personali (tenendo presso di me solo il pigiama, lo spazzolino, il pettine e le ciabatte) dentro dei sacchi di plastica dopo che tutto era stato sottoposto a minuziosa perquisizione, al corpo di guardia per essere pronti domattina presto per la partenza.

Non conosco la destinazione, non so se tornerò a Bologna e chiederlo non serve a nulla; abbiamo potuto intuire che ci saranno dei cambi di destinazione dal fatto che, appena giunti in quest'istituto, sembravamo degli ospiti indesiderati. Invece, sono trascorsi circa dieci giorni dalla sospensione del processo e siamo ancora qui senza un giustificato motivo. Alle nostre insistenti richieste di far ritorno alle carceri di provenienza, ci viene sempre risposto che è stato richiesto al Ministero il nostro trasferimento, ma che nulla sanno in merito alle destinazioni.

Ho deciso di raccontarli questi diciasette giorni, perché sono stati ricchi di particolari che sono in grado di dare un'idea abbastanza netta di quel che è una giornata in carcere; certo, non è un trattameno generalizzato e costante, ma comunque fatti simili sono all'ordine del giorno e, in alcuni istituti, sono la regola.

La nostra esperienza nel carcere di Modena è stata voluta dal Ministero di G. e G.; ma, non essendovi motivi particolari, personali o di esigenze d'istituto, ci è apparso chiaro che è stata sollecitata da qualcuno che voleva farci vivere male, francamente, visto l'eccessivo allarme creato in città e rivelato dalle disposizioni di sicurezza per lo svolgimento del processo (strade chiuse, cordoni di uomini e mezzi, eccessivi controlli per entrare in tribunale, abbiamo concluso che, pur di creare un polverone atto a dare corposità al processo (giustizia-spettacolo), non ci si è preoccupati affatto dei disagi creati a noi, al carcere ed alla Città.

Per amore della verità sono contento però di sottolineare che, a dispetto di chi aveva voluto tali gratuite sevizie psicologiche che possono provocare anche danni psico-fisici che scaturiscono in ribellioni (frutto dell'esasperazione) e conseguenti denunce di oltraggio e lesioni " preconfezionate " devo ammettere che agenti, sottufficiali e comandante hanno adempiuto a tali disposizioni con rammarico.

Sono sicuro che hanno saputo usare la massima professionalità nel saper dosare le loro azioni e nel farci comprendere che, purtroppo, erano costretti a farlo; per me è stata una conferma in più che bisogna credere nell'uomo, anche quando si presenta nelle vesti del proprio aguzzino. Quando sono partito da Bologna, il sette Febbraio 1995, sono uscito dalla mia cella alle sette del mattino, avevo tutta la mia roba in due sacchi di plastica (quelli usati dalle portinaie per l'immondizia), ho dovuto percorrere almeno duecento metri per raggiungere l'Uff. matricola; giuntovi, sono stato messo in una cella vuota fino alle otto ad attendere i carabinieri di scorta.

Appena giunti, hanno ricevuto dagli agenti dell'uff. matricola il mio fascicolo e la busta valori, cioè i miei soldi ed eventuali oggetti di valore; i carabinieri mi hanno riferito la cifra ed io ho fatto notare che mancavano circa settantamilalire. Siccome questo tipo di contestazione (succede spesso) crea un conflitto di responsabilità, i carabinieri mi chiesero cosa intendevo fare; volevo fare chiarezza subito, ma, siccome mancava il personale della ragioneria e i carabinieri erano già in ritardo con un altro detenuto che dovevano tradurre in causa, non volli creare problemi alla scorta e quindi accettai di partire.

Altro inconveniente di quella, mattina fu che mi mancavano una serie di documenti personali di cui, una settimana prima, avevo chiesto alla direzione di fare delle fotocopie che mi servivano per esibirle al processo; gli agenti dell 'uff. matricola, mi dissero che non sapevano dove reperirli a quell'ora, e quindi dovetti rinunciare anche ai documenti, ma pregai l'ufficio di trasmetterli al carcere di Modena, non appena li avessero rintracciati.

Il giorno dopo, all'apertura dell 'udienza, non potei esibire quei documenti, né per molti giorni ne ebbi notizia; eppure avevo chiesto all'agente dell'uff. matricola di Modena di informarsi presso la C.C. di Bologna se li avessero spediti, ma neanche da questi ottenni risposta. Alle otto in punto partimmo per Modena a bordo di un furgone, vi giungemmo alle otto e trenta; dopo avere eseguito le registrazioni di rito, foto-segnaletiche, ecc., fui messo fino alle sedici e trenta, in attesa di essere smistato, in una cella in cui vi era solo una sedia.

A quell'ora fui spostato nella sala perquisizioni, prima di me vi erano già stati altri tre miei coimputati; c'erano tre o quattro agenti che si capiva non essere pratici, ma che erano molto responsabilizzati (nel senso che erano preoccupati di sbagliare).

Perquisirono minuziosamente tutta la mia roba, sfogliarono la posta, i fascicoli processuali, ecc . come se stessi arrivando da chissà dove, eppure arrivavo da un altro carcere che avevo lasciato appena mezz'ora prima. Il particolare che più mi fece innervosire fu il fatto che non volevano che tenessi con me i venti pacchetti di sigarette comperati il giorno prima al carcere di Bologna. Dissi all'agente che non ero disposto ad accettare quell'assurda regola e quindi di farmi parlare subito con un sottuff. di servizio.

Mi disse di aspettare un attimo che sarebba andato a sentire come si doveva comportare, tornò da lì a poco e mi disse che il sottuff. gli aveva detto che potevo tenerne dieci pacchetti, anzichè cinque, come mi aveva detto lui prima. Gli ribadii che volevo parlare io con il sottuff. per capire l'assurdità dell'ordine, ma nel frattempo giunse un graduato, chiese di capire di cosa discutevamo io e l'agente e concluse che potevo tenere con me tutte le sigarette.

Dopo aver perquisito tutta la mia roba, mi toccò spogliarmi nudo come un verme, eseguire tre flessioni, e, asnettando che perquisissero i vestiti, scarpe, slip e calze, man mano mi rivestii.

Raccolta nuovamente tutta la mia roba nei sacchi, fui accomnagnato seguendo un percorco vizoso di corridoi e scale (in seguito scoprii che si trattava di cento metri in linea d'aria e per giunta allo stesso piano) alla sezione a noi coimputati assegnata, che era il piano terra dell'infermeria adibita a sezione d'isolamento; erano le ore diciotto, praticamente erano undici ore che ero partito da Bologna. C'è da aggiungere che in questo arco di undici ore non mi era stato possibile mangiare nè bere un caffè; durante questi transiti, nessuno si preoccupa di somministrare alcun genere di conforto, anche se è previsto dal Ministero di fornire il vitto che spetta giornalmente; ma l'assurdo è che avevo nei sscchi l'occorrente per prepararmi il caffè, ma mi era proibito tenere l'occorrente all'interno della cella di attesa.

Giunto nella sezione assegnata, vidi che già molti dei miei coimputati erano sistemati in altre celle (quasi tutti in tre per ogni cella), nonostante siano predisposte per una persona sola; la mia cella era vuota; quando vi entrai e vidi quanto facesse schifo per la sporcizia, guardai in faccia l'agente che a sua volta provò imbarazzo. Era un agente del carcere di Bologna, mandato in missione a Modena in occasione del nostro processo insieme ad altri colleghi suoi, mi conosceva già e mi disse: Santoiemma, abbi pazienza, ora ti faccio dare l'occorrente per pulirla (compreso un paio di guanti) e vedi di sistemarti.

Gli dissi: scusa, sapendo che dovevamo arrivare, non potevate almeno farle pulire?

Mi rispose: Il fatto è che il vostro trasferimento è stato deciso a sorpresa, anzi, ti aggiungo che anche per il carcere è stato un rompicapo predisporre d 'urgenza questa sistemazione.

Eppure, che si sarebbe dovuto celebrare il processo a Modena si sapeva già dal quattordici luglio novantaquattro.

Nelle celle non c'erano altro che tre brande pesanti (al posto della rete vi è una piastra di ferro bucherellata). I buchi dovrebbero servire a far respirare il materasso che consiste in un rettangolo di gommapiuma ignifuga, che comunque è sempre umido; una branda è fissata ad un angolo, le altre due a castello, sono tutte fissate a terra con bulloni.

Erano fissate ad una certa distanza dalla finestra e impedivano di aprirla completamente, tra l'altro la maniglia era rotta e ciò impediva anche di chiuderla bene, perciò per tutta la notte mi sono congelato, anche perché non mi era stata consegnata una coperta. Nel trambusto della perquisizione, infatti, mi era sfuggito di farmela consegnare e, quando me n'ero accorto, era ormai tardi per poterne prendere una in magazzino; l'arredamento consisteva in un tavolo! Appena finito di pulire la cella, giunse un altro mio coimputato che proveniva dalla Calabria. Era stanchissimo perché era partito alle quattro del mattino a bordo del blindato che consiste in un camioncino con all'interno due cellette di due posti ciascuna, vi sono delle panchette di legno da sembrare tutt'una che obbligano a stare a braccetto e in posizione retta. Inoltre, la porta di ferro scorrevole che chiude la cella, è posta frontale alla persona, è del tipo mille buchi, guardando fuori dal mezzo provoca un effetto ottico che disturba lo stomaco e da seguito (spesso) a vere e proprie crisi di cefalee; non è raro che detenuti vengano ricoverati d'urgenza per questo tipo di malessere.

Aiutai il mio coimputato a farsi il letto e a tentare di sistemare le sue cose, mangiammo quello che ci mandò un altro nostro amico e andammo a letto stanchissimi; fu un impresa dormire a causa del freddo per via della finestra che non si chiudeva bene.

Alle sei del mattino seguente ci svegliarono, dicendoci di essere pronti per le sette e trenta, invece i carabinieri giunsero alle otto.

Uscimmo dalle celle e trovammo un gruppo di agenti penitenziari che ci perquisì minuziosamente con il metal detector e con le mani; poi, a gruppi di quattro, fummo ammanettati con un unica catena (spesso corta per farci muovere malamente) e avviati ad un furgone da quattro posti: vi erano tre furgoni e molte macchine e motociclette che guidavano la colonna di automezzi; era molto "spettacolare" l'andare per la Città in quel modo, proprio non si riusciva a concepire il perché di tutta quella "sceneggiata"; lo facevamo notare ai carabinieri che ci scortavano, a loro volta ne ridevano poiché sapevano che in effetti non era il caso di usare quell'esagerato spiegamento di mezzi.

Giunti in tribunale e scesi dai mezzi, fummo bombardati dai fotografi e cineoperatori, arrivammo nell'aula della corte d'assise e fummo sistemati in tre celle ( gabbie ) appositamente costruite per ospitarci e pagate dal Comune di Modena (fu fatto notare dai giornali). Stando nelle gabbie, parlammo con i nostri legali sgomitandoci a vicenda e ci si salutava anche con i parenti al di là delle transenne. Alle dieci entrò la corte e si ritirò alle tredici, disponendo la ripresa alle ore quindici, per cui fummo riportati al carcere per mangiare; alle quattordici e trenta ritornammo in tribunale rifacendo la stessa "sceneggiata" con i mezzi per poi ritornare al carcere dopo circa un'ora.

Trovai due agenti nella cella che stavano sistemando degli armadietti, sgabelli e tivù; la mattina dopo dovetti insistere ad alta voce con un brigadiere addetto alla manutenzione per far smontare una branda a castello che impediva di aprire e chiudere la finestra; non la voleva smontare, sosteneva che dovevano arrivare altri coimputati e che quindi la branda serviva, io gli dissi che intanto la smontasse, che quando fosse arrivata altra gente, era da vedere se io sarei stato disposto a stare in tre in quella minuscola cella, si arrabbiò moltissimo, ma intanto ottenni un mio "normalissimo" diritto.

La TV che ci mise in cella era a colori ma tolse il modulo del colore, gli chiesi perché e mi rispose che non era giusto che noi la tenessimo a colori ed altri no, praticamente ci disse che, poiché non ne avevano a disposizione sufficientemente per istallarle in tutte le celle del carcere, era giusto non istallare affatto quelli che avevano. Veramente encomiabile "quel" senso di giustizia !

Per un rinvio deciso dalla Corte, dal nove al dodici compreso non vi furono udienze; quindi il nove furono attrezzate le celle e cercammo di organizzarci sistemando ognuno le sue cose, attrezzando la cucina per prepararci da mangiare decentemente (a spese nostre ) e presentando quasi tutti le domandine per telefonare ai familiari.

Il dieci mattino, alle sette e trenta, nonostante fossimo giunti da appena tre giorni, ci fu la perquisizione generale che consiste nello spogliarsi nudi davanti al compagno stesso e nel perquisire minuziosamente ogni oggetto, abito, lenzuola, ecc .; alle nove e trenta ci fu concesso di andare all'aria fino alle undici e trenta in un cortile che poteva essere dodici metri per sette, l'unica cosa che si riusciva a vedere era il cielo; se pioveva, ed è successo quasi sempre, o si passeggiava sotto l'acqua o si rinunciava.

Dalle dodici e trenta alle tredici e trenta ci era permesso fare socialità tra noi, ciò consisteva nello stare in quattro in una cella per consumare il pasto; ma all'improvviso ci veniva comunicato che quel giorno la socialità veniva concesso di poterla fare di sera anzichè di giorno, e allora...alè, spegni i fornelli e ripiega, su qualcosaltro !

Vi era una sala docce con tre docce, ma chissà perché, pur essendo disponibile solo un'ora ( dalle diciassette alle diciotto) ci mandavano uno per volta, obbligandoci a fare delle speedy docce e impedendoci di lavarci la roba comodamente, costringendoci a farlo in cella, dove c'erano dei lavandini ridottissimi dove era scomodo persino lavarsi la faccia.

L'undici trascorse "normalmente" con la sola eccezione che tutti noi si sollecitava l'autorizzazione a telefonare alle famiglie; avevamo tutti il nulla osta del giudice e della Corte D'Assise di Modena, ma per i primi tre o quattro giorni non fu sollevato tale problema, si limitavano solo a dirci che le domandine erano alla firma del direttore, l'undici ci dissero che mancava il nulla osta della Corte D'Assise, riferimmo che esisteva già e allora ci dissero che occorreva richiederne un altro che fosse comunicato direttamente al carcere di Modena.

Il tredici, alla riapertura del dibattimento, richiedemmo il nulla osta ed il Presidente ci confermò che avrebbe provveduto immediatamente, arrivò il quindici, ma nel frattempo io e altri due iniziammo uno sciopero della fame per contestare quella lungaggine.

Lo sciopero degli altri due fu dichiarato, mentre il mio no, forse perché avevano saputo che era pronta una denuncia per abuso di potere (l'allego) e quindi era meglio (secondo loro) apparire disinteressati alla mia protesta. La sera del terzo giorno seppi da uno dei due scioperanti che il mio nome non era stato segnalato all'ufficio medico quale scioperante, allora chiesi di dichiarare sull'apposito registro che stavo effettuando lo sciopero e chiesi udienza con il Giudice di sorveglianza per sporgere denuncia, inoltre chiesi l'immediato intervento del medico per misurarmi la pressione arteriosa giacchè avvertivo la pressione alta.

Sapevo che questo era dovuto alle contrarietà quotidiane, ma non mangiando da tre giorni, mi preoccupava che l'avessi alta. Dopo pochi minuti venne in cella un infermiere e me la misurò, risultò: 145/1OO; per me che di solito non aveva mai superato 125/70 era alta. L'indomani mattina mi chiamò il comandante e mi disse che non dovevo prenderla così poiché non era intenzione loro crearci problemi, ma che osservavano scrupolosamente il regolamento; ma sanno bena che "osservare" scrupolosamente il regolamento a "senso unico", vuol dire far vivere male il detenuto; allora gli dissi che non mettevo in dubbio che loro erano in buona fede e siccome io non ero disposto a subire oltre, sollecitassero il giudice di sorveglianza perché potessi esporre le mie lagnanze e quindi capire chi ringraziare di quel "vivere male" predispostoci; mi fu detto di stare attento a quel che dicevo, ma augurai anche a loro di aver osservato il regolamento; cambiò atteggiamento e mi disse che senz'altro il giorno dopo avrei telefonato giacchè il nulla osta era arrivato.

All'origine dello sciopero della fame vi era stato anche il fatto che da quattro giorni avevo ricevuto un pacco postale e che ancora non mi veniva consegnato. Il quinto giorno, il comandante davanti a me disse all'agente addetto: "oggi stesso consegna il pacco a Santoiemma", invece potei averlo solo il giorno seguente al colloquio con il comandante, lo stesso giorno potei anche telefonare, previa rinuncia allo sciopero della fame, ma con ciò gli confermai che volevo lo stesso il colloquio con il giudice di sorveglianza per esporre quanto accaduto, mi dissero sì..sì; ma dopo due giorni feci ritorno a Bologna e quindi l'avventura Modena è finita lì.

Con ciò so bene che, se avessi esposto i fatti al giudice di sorv. o sporto denuncia alla Procura de] la Repubblica, non avrei ottenuto grandi risultati, di solito tutto viene insabbiato; ma serve più che altro a crearsi una testimonianza valida nel caso che in seguito a violenze che possano scaturire da reiterata esasperazione ci si debba venire a trovare nella condizione d'imputato per oltraggio o altro. Per questi casi sono migliaia gli anni di carcere che annualmente vengono somministrati gratuitamente; a volte basta solo alzare la voce per permettere agli agenti di denunciare un detenuto per oltraggio, minacce, o altro, e in quasi tutti i casi si è condannati.

E doveroso da parte mia dire che, la sera prima di partire, un appuntato che aveva seguito in prima persona tutte le vicende accadute, si avvicinò alla mia cella, con circospezione, per dirmi che gli aveva fatto piacere conoscermi, che ammirava il modo in cui sapevo far valere i miei diritti e che era un peccato che la maggior parte dei detenuti non lo sapesse fare; mi chiese se poteva salutarmi con una stretta di mano e mi fece gli auguri affinché risolvessi al più presto i miei guai con la giustizia.



PROCURA DELLA REPUBBLICA
(presso il tribunale penale di Modena)

Oggetto: DENUNCIA PER ABUSO DI POTERE--

Il sottoscritto Antonio Santoiemma, nato a Taranto il I6.08.50, attualmente detenuto presso la casa circondariale di Modena;

         DENUNCIA

1°) Che giunto presso la casa circondariale, proveniente dalla c.c. di Bologna per presenziare all'udienza, del 8 c.m., avanti la Corte D 'Assise I° sez. di Modena; inoltrava domandina per telefonare alla sorella in Milano ma, gli veniva comunicato verbalmente che non era possibile perché mancava il N.O. dell 'autorità competente; egli faceva notare che era strano, poiché presso la c.c. di Bologna aveva già beneficiato di colloqui e telefonate; il 13 c .m . avanzava ulteriore richiesta, di N.O. direttamente al sig. Presidente della Corte D'Assise, che subito provvide a comunicargli personalmente di aver soddisfatto la richiesta. Tornato in carcere avanzava ulteriore domandina, che fino alla data odierna non è stata soddisfatta, né gli è stata data alcuna spiegazione plausibile.

2°) In data 14 c.m. gli veniva recapitato un avviso di ricevimento di un pacco postale già spedito alla c.c. di Bologna e che per la rispedizione era assoggettato al pagamento di lire 7600; alla stessa data, avanzava regolare domandina "di prassi" per il ritiro, ma fino alla data odierna non gli veniva consegnato (privandolo di fatto, di un beneficio previsto all'ordinamento penitenziario che dà diritto ad un pacco settimanale ), senza tenere conto che, se conteneva alimenti deteriorabili, oltre l'abuso, il sottoscritto doveva subire anche il danno materiale che, allo stato attuale non è possibile quantificare perché non se ne conosce il contenuto.

Deferente Ossequia                          in fede

          (denuncia poi non presentata)

C.C. MODENA I9.02.95



(cronistoria di diciotto mesi di detenzione)

Arrestato a Milano il diciotto aprile 1993, fui tradotto lo stesso giorno a S.vittore. Fui assegnato in una cella con altre quattro persone, uno della mia età e tre giovani. Vi erano quattro brande a castello per due; uno, il più giovane, quando era sera, per dormire sistemava un pezzo di gomma piuma per terra con delle coperte sopra. La finestra era tenuta sempre aperta, non poteva essere altrimenti anche se io, già da alcuni giorni, soffrivo di una bronchite acuta. Posso assicurare che, dal 1970, data in cui misi piede per la prirna volta a S.Vittore, non l'avevo mai visto così affollato e in uno stato di promisquità e squallore come lo vidi nel 1993. Forse, per avere una misura di quello che dico, basterebbe solo il numero dei suicidi avvenuti, a S.Vittore, negli ultimi tre anni.

Il quarto giorno venni interrogato alla presenza del mio legale di fiducia, dal G.I.P. (Giudice delle Indagini Preliminari), che aveva avuto la delega per farlo, dal P.M. Giovanni Spinosa, della procura, titolare dell'inchiesta, che era Bologna. Mi contestò sommariamente di cosa e da chi ero accusato (due pentiti), ma alla mia richiesta di approfondimento delle accuse, mi rispose: mi dispiace, la capisco, ma purtroppo, la Procura di Bologna mi ha spedito solo una parte del carteggio che la riguarda e quindi non sono in grado di darle dei chiarimenti. Di fatto, era stato compiuto un interrogatorio "puramente formale", senza darmi alcuna possibilità di difenderrni, nonostante lo volessi fare; quecto modo di condurre le inchieste e i relativi interrogatori che sono previsti dalla legge per la ricerca dei riscontri, non credo di esagerare se dico che è stata la prassi di una parte della magistratura italiana, portata avanti con inaudita arroganza, prepotenza e ingiustizia. Terminato l'interrogatorio, mi disse il mio legale: non ti preoccuppare, appena arrivi a Bologna, dove presto sarai trasferito per competenza, impugna l'ordinanza di custodia cautelare al tribunale del riesame e vedrai che in un paio di mesi al massimo si sarà tutto risolto; è inaudito che vengano emessi certi provvedimenti così assurdi, senza un minimo di prove, ma di una gravità tale. Inoltre non dare neanche la possibilità di difendersi, diceva l'avvocato alla presenza del giudice che si limitava ad aprire le braccia, con rassegna,zione e assenso; concluse l'avvocato: ché diamine, se continua così arresteranno anche noi avvocati! Io gli dissi: Sì, avverrà anche questo!

Il ventisette marzo partii alla volta di Bologna e vi giunsi alle ore tredici e trenta. Fui schedato dall'ufficio matricola e appoggiato in una di quelle schifose celle dette di "transito". Verso le diciotto, terminarono di visitarmi e di fare il colloquio previsto con lo psicologo e mi comunicarono che, la sera stessa o al massimo l'indomani, sarei stato assegnato e avviato alla sezione B/A.S. (alta sorveglianza).

A queste sezioni sono assegnati tutti quei detenuti che sono incriminati di reati associativi per traffico di droga, di stampo mafioso e relativi a tangentopoli. In verità però, visto come hanno applicato in modo indiscriminato tale titolo associativo, in queste sezioni, oltre all'isolamento, si potrebbero benissimo definire padiglioni di lunga degenza per ammalati immaginari, oppure, dei semplici magazzini di carne umana da fare avariare per sovraccarico da stress.

Il cinque Maggio andai al tribunale del riesame a discutere l'impugnazione dell'ordinanza di custodia cautelare, così come mi aveva consigliato l'avv. di Milano. Per l'occasione avevo nominato un'avvocatessa di Bologna, prevedendo che lui non sarebbe venuto per la distanza; così fù. Servì solo a farmi sapere che agli atti esisteva un'altra telefonata che l'accusa usava a mio carico, ma la discussione in camera di consiglio non servì certo ad approfondire la mia difesa. Infatti, il ricorso fu rigettato. Riproposi il ricorso, mettendo in discussione la forma con cui era stato effettuato il primo interrogatorio; venne discusso dallo stesso Presidente, sig.Antonacci, e mi parve dalle prime battute della discussione e dalla superficialità con cui affrontava la discussione, che desse per scontato che io avessi torto già in partenza. Dopo che il Presidente ebbe relazionato la mia posizione ed i miei motivi ai giudici che componevano il collegio, gli chiesi se mi lasciava spiegare personalmente il perché della mia convinzione che mi lasciava ravvisare l'abuso od il difetto nel condurre il primo interrogatorio. Lo spiegai in modo chiaro, citando anche l'articolo del codice di procedura penale che, a mio parere, era stato violato. Lui stesso mi sembrò che si fosse convinto, ancor di più mi parve che lo fossero i giudici a latere, anche per il fatto che, rivolti a me ed al Presidente, confermavano la fondatezza dei miei motivi.

Invece, dopo pochi giorni mi arrivò un ennesimo rigetto. Lo impugnai e sostenni con una lunga motivazione che proposi alla Corte Suprema di Cassazione, ma egli lo dichiarò innammissibile e mi comminò cinquecentomila lire di ammenda più circa cinquantamila lire di spese processuali che, più avanti vi spiegherò quale altra trafila interna ho dovuto vivere per pagarla, i fraintesi nati con l'ufficio conti correnti e quante domandine ho dovuto fare per riavere delle leggittime ricevute.