7° CAPITOLO

  (l'assistente sociale)

La figura dell'assistente sociale e pressochè inesistente. L'assistente sociale dovrebbe essere presente per svolgere appunto quella che è la sua professione: conoscere i problemi del detenuto e della sua famiglia, ricercare le cause del suo disadattamento e cercare di ovviare ad esse per costruire le premesse per un reinserimento sicuro.

Sostenere moralmente e materialmente il detenuto ma ancor più la famiglia del detenuto, specialmente quando questi ha dei figli minori. Preocuparsi che i bambini frequentino regolarmente la scuola e del loro sostentamento. Agevolare i rapporti affettivi tra il detenuto ed i familiari.

Tutto ciò non avviene perché veramente l'assistenza sociale non esiste.

        (il patronato)

Su richiesta del detenuto si può essere messi in contatto con il patronato per tutto ciò che concerne la loro opera: disbrigo di pratiche presso enti pubblici, richieste di certificati o avvio di pratiche pensionistiche.

Spesso ci si rivolge al patronato con richieste di sussidi che di solito consistono in trentamilalire al mese, oppure in donazioni di capi di biancheria o abbigliamento.

Il servizio funziona a seconda del carcere, cioè a seconda del gradimento da parte delle direzioni dell'opera del patronato nel carcere, ma dipende anche da come è organizzato il patronato per prestare la sua opera nel carcere. Tuttavia c'è da dire che è sempre augurabile non averne bisogno poiché, prima di ricevere un aiuto concreto (e forse non arriva mai) si fa in tempo ad essere schiacciati dai problemi. Questa del patronato non è un'eccezione, è una istituzione pubblica che funziona come tutte le sue sorelle in Italia.

        (gli assistenti volontari)

Grazie a Dio, nelle carceri come all'esterno, negli ultimi anni si è venuto a creare un esercito di persone che si adoperano per i bisogni altrui, gli assistenti volontari, così si chiamano quelli che entrano nelle carceri. Credo che all'esterno l'assistente volontario operi molto meglio e più concretamente di come riesca a fare in carcere. Purtroppo in carcere è imbrigliato dai regolamenti interni, dalla prassi e dalla poco benvista loro presenza poiché sono sempre degli estranei. A causa dell'assenza degli assistenti sociali e dello scarsissimo interesse del patronato, si ripiega molto sull'opera dell'assistente volontario che, purtroppo però più di tanto non può fare. Nell'ordinamento Penitenziario, esistono moltissime direttive affinchè si abbia cura che il detenuto riceva l'assistenza materiale e morale che ne garantiscano la dignità, il recupero ed il reinserimento, ma in realtà regna (quasi) l'abbandono a sè stessi. Il paradosso è che negli ultimi anni, il Ministero di G. e G. ha sfornato molte direttive perché si evitassero assoggettamenti dei detenuti da parte di altri detenuti, o discriminazioni di vario genere, ma non si prende atto che l'abbandono da parte delle istituzioni porta proprio a questo assoggettamento.


       " REINSERIMENTO"
 
REINSERIMENTO,...CHE BELLA " PAROLA ",
QUANDO SI USA QUESTA PAROLA GIA' TI SENTI A CASA
D'ALTRONDE LA " GOZZINI " COSA DICE?
FAR " REINSERIRE IL REO " !
 
SPESSO L'ISTANZA VIENE ACCOLTA E IL DETENUTO DICE...
EVVIVA LA GOZZINI;
ANCHE IL MAGISTRATO PENSA, NE STO REISERENDO UN ALTRO...
MA ALTRO NON PUO' FARE...E IL REO SI TROVA FUORI!
 
LA SOCIETA' LO ACCETTA?
MA CHI DEI DUE SBAGLIA, E CHI E' FALSO CON L'ALTRO?
MA IO TI DICO REO, SALVATI DA SOLO,
MOLLA IL " GRIMALDELLO " E PRENDI LA TUA CHIAVE;
 
QUELLA DELLA VITA CHE OGNUNO HA CON SE',
LA TUA NON E' FALSA, DOVRAI SOLO LIMARLA...
NON CON L'IPOCRISIA, MA CON LA VOLONTA' !


Spesso gli assistenti volontari portano biancheria, scarpe, abbigliamento; a seconda del carcere dove operano devono adeguarsi per la consegna, certi permettono che la si distribuisca direttamente al detenuto, certi lo accettano in magazzino e lo distribuiscono secondo un loro criterio sia per quanto concerne la quantità, sia di chi lo chiede, quindi si arrogano quella discrezionalità che non ha ragione di essere. Alla Dozza posso assicurare che, specialmente d'inverno, se non si ha abbigliamento, si può benissimo restare in mezze maniche, tanto nessuno se ne preoccupa; mi hanno detto che ciò avviene per un conflitto di competenze (o il troppo impegno di lavoro) degli agenti addetti al magazzino.

        (l' educatore)
 
E' colui (dipendente del Ministero di G. e G.) che è preposto all'osservazione del detenuto, alla promozione di manifestazioni culturali, artistiche, sportive ed al controllo (insieme alla commissione dei detenuti) del vitto, a relazionare l'osservazione del detenuto per tutti i benefici previsti dall'Ordinamento Penitenziario: permessi premio, semilibertà, affidamento in prova al servizio sociale, liberazione anticipata, liberazione condizionale, ecc.

Come in tutte le categorie, ci sono quelli che lavorano credendo in quello che fanno, quelli che lavorano bene, quelli che non hanno voglia di lavorare in genere e quelli che odiano il lavoro che fanno; se nella società libera capita di avere a che fare con uno di questi ultimi, o nasce un'accesa discussione, o si ovvia rivolgendosi alla scrivania di fianco oppure ci si rivolge più in alto.

In carcere, quello che è l'addetto, è quello a cui ti devi affidare, certo è che se esiste un contrasto (solo perché si chiede che la propria pratica venga sbrigata in tempi ragionevoli) allora il detenuto può veder compromesso tutto ciò che gli spetta. Sempreché non sia abbastanza abile da far valere i suoi diritti rivolgendosi adeguatamente presso il direttore del carcere o il magistrato di sorveglianza, ma in sostanza avrà ugualmente visto allungare i tempi per la definizione della sua pratica; però, se non sarà stato capace di controllarsi nell'esporre le sue rimostranze (pericolo sempre latente), allora avrà rischiato un rapporto disciplinare o denuncia penale che equivalgono ad un addio ai benefici per almeno due anni.

      (lo psicologo ed il criminologo)

Lo psicologo ed il criminologo sono elementi dell'equipe di osservazione, insieme all'educatore, il direttore, il cappellano ed il medico sanitario. Entrambi sono preposti all'osservazione scientifica del detenuto per tutta la durata della detenzione (così prevede l'ordinamento Penitenziario), in realtà, finchè il detenuto non rientra nei termini per accedere ai benefici anzidetti, ma ciò avviene solo quando la condanna è definitiva e quindi vuol dire dopo l'aver scontato già da uno a sei anni di carcere giudiziario, fino a quel momento il detenuto è completamente ignorato e nulla sarà stato fatto per la sua osservazione, il suo recupero, ed il suo reinserimento. Tutto quanto avrebbe dovuto essere stato fatto, è stato gravemente omesso. Di fatto, l'osservazione si risolve con un paio di colloqui (se avvengono) con lo psicologo, l'educatore, e l'assistente sociale che si limita a fare un sopralluogo presso la famiglia del detenuto (informazioni socio-familiari). Tutti i componenti dell'equipe sanno benissimo che l'inadempienza predetta comporterà gravi problemi per la buona riuscita del trattamento elaborato nei confronti del detenuto e per il suo reinserimento. Quando tutto finirà male, non riuscirà difficile colpevolizzare il soggetto per il suo scarso impegno dimostrato per la riuscita del trattamento.

Certamente questi soggetti non denunceranno mai queste carenze che tanto gravitano sul sistema giudiziario e penitenziario, ma noi sappiamo benissimo che occorrono nuove modifiche e la reale applicazione dell'ordinamento penitenziario per rendere concreta e funzionante l'opera di osservazione, recupero e reinserimento.

Proprio in questi giorni (14.10.95) si parla tanto di falsi invalidi, falsi postini, e chissa quanti altri falsi usciranno a galla. Spero che saltino fuori anche i falsi educatori, i falsi assistenti sociali, ed i falsi psicologi e criminologi, allora forse ci si accorgerà che nelle patrie galere ci cono anche tanti falsi delinquenti incalliti.
 
          ( la scuola in carcere )
 
Ho frequentato la scuola serale per conseguire la licenza della quinta elementare; avevo abbandonato all'epoca, in quarta perché era necessario che lavorassi.

Frequentai la scuola serale dopo la morte precoce di mio padre, lui aveva quarantuno anni nel sessantasei ed io ne avevo sedici. Dopo un anno, conseguita la licenza elementare decisi di emigrare a Milano. Non m'interessai più della scuola fino a quando, detenuto a Siena nel 1981 non decisi di frequentare il corso delle 150 ore per la licenza della scuola media inferiore. Ne rimasi soddisfatto, ma poi, uscito in semilibertà il mese di agosto 1981, non m'interessai più di leggere neanche un libro.

Nel Novembre 1983 fui arrestato ancora e condannato a sette anni e quattro mesi, visitai le carceri di Brescia, Milano, Saluzzo, Volterra, ed infine Treviso di cui intendo nelle prossime pagine, illustrarvi alcune esperienze vissute e mie considerazioni.

E'una breve narrazione che comprende molti punti interessanti che però, credo, sfuggirebbero a chi non è pratico ai lavori senza che conosca le funzioni dei vari operatori e la prassi del carcere; è perciò che ho inteso sezionare le varie competenze con una prima parte ed una terza parte nella convinzione di rendere il tutto possibilmente più comprensibile; quindi dalla prossima pagina, leggerete la seconda parte, e finita quella concluderò con la terza parte iniziando dalla scuola alla Dozza.

SECONDA PARTE
 
" UN OCCHIO NEL BUCO NERO "
 
Non ho alcuna intenzione di presentarmi ai lettori di questo manoscritto come scrittore, poeta o come vittima del sistema anche se su questo ci sarebbe molto da dire. Non cerco commiserazione. L'unico mio desiderio è che il cittadino si renda conto, soprattutto, del parassitismo che gravita intorno al " PIANETA CARCERE " e che tale parassitismo giustifica la volontà di mantenere tale pianeta in un pessimo stato di degrado bestiale... senza offesa per le bestie, che vivono meglio visto che recentemente sono stati presi dei seri provvedimenti al riguardo del loro habitat, e cioè la chiusura degli zoo.

Da un anno a questa parte, nelle carceri sono entrate le telecamere della televisione, forse anche perciò si avverte una certa sensibizzazione sul problema delle carceri; questo è avvenuto solo puntando gli obiettivi su alcune celle pulite e presentabili, ma purtroppo, non è stata ancora inventata la macchina che registra l'aria. Questo per dirvi che anche l'aria che si respira in un carcere è diversa... Con questo manoscritto non voglio denunciare nessuno, ma se qualcuno si sentisse calunniato, lo invito a querelarmi e a trascinarmi in tribunale. Se io dico il falso sono pronto a pagare, però,vorrei che a quel processo ci fossero come spettatori anche molti di voi, e che a giudicarmi fosse il Presidente della seconda sezione penale del tribunale di Padova, dott. Euro Cera. Difatti non ho mai conosciuto un giudice (almeno tra quelli che mi hanno giudicato fin'ora), così capace di analizzare ogni angolatura dell'indizio, e così coraggioso nell'assolvere o nel condannare.

E' dal 1970 che sono "cliente" delle varie carceri italiane, ho 37 anni (all'epoca di questa parte dello scritto, NdE) e ne ho scontati già circa undici in vari istituti. Nonostante fossi stato sempre incline ad avvicinarmi ai vari problemi carcerari, li ho sempre vissuti alla giornata; d'altronde non è da molto tempo che in carcere si può dialogare in maniera abbastanza democratica, ma a ciò penso sia di aiuto soprattutto la volontà di farlo in conseguenza della presa di coscienza.

Non andrò molto indietro nel tempo perché nel carcere (a parte il tempo) non è che sia cambiato molto, ad esempio: più luce, più aria, più colloqui, possibilità di fare sport, paghe più alte, possibilità di acquistare più generi alimentari e di comfort.

Questo prima era possibile ottenerlo attraverso i pacchi portati dai  familiari.

Basterà che vi parli del periodo di un anno per illustrarvi molti dei punti oscuri che compongono il carcere.

Nell'aprile del I985 ero detenuto a Volterra dove vi ero giunto il 12 Settembre 1984 proveniente dal carcere di Saluzzo per osservazione comportamentale; già al carcere di Saluzzo vi ero giunto sei mesi prima. Per lo stesso motivo, proveniente dal carcere di Brescia dove ero stato promotore di uno sciopero durato tre giorni per sostenere la legge sulla carcerazione preventiva, poi approvata nel 1984.

In quell'occasione si disertavano le udienze penali, i colloqui con gli avvocati ed i familiari, gli interrogatori e si rifiutava il vitto e i pacchi portati dai familiari.

Dunque, nell'aprile 1985 chiesi con una mia domanda al Ministero di G.e G. di essere trasferito presso il carcere di Treviso dove si trovava detenuto mio fratello, per trascorrere un mese in sua compagnia perché erano due anni che non ci vedevamo.

Questo tipo di trasferimento è previsto dal regolamento Ministeriale, e si può ottenere due volte l'anno (un mese ogni sei mesi). Si chiama trasferimento temporaneo per avvicinamento colloqui e devo dare atto che non esistono particolari veti, difatti viene concesso regolarmente. Fui accontentato e pochi giorni prima di ricevere conferma avevo già presentato altra domanda per restare a Treviso per frequentare un corso di geometra.

Partii alla fine di luglio con un furgone blindato scortato dai carabinieri; giuntovi, mi sistemai in cella con mio frate]lo che era già in compagnia di un altro ragazzo, montammo un letto e castello e fummo ben lieti di sacrificarci nel pochissimo spazio disponibile consistente in circa dodici metri quadrati.

Restai a Treviso fino alla fine di Settembre grazie alla concessione di una proroga del direttore; quando arrivò l'ordine di rientrare a Volterra, chiesi al direttore se fosse possibile prorogare ancora di qualche giorno la partenza perché era probabile che arrivasse l'autorizzazione del Ministero che mi avrebbe permesso di restare. Mi fu risposto che non era possibile e perciò partii.

Il viaggio di ritorno lo feci con il treno (traduzione ordinaria), e feci scalo (transito) a Venezia dove mi toccò camminare a piedi con i ferri ai polsi, due zaini sulle spalle, e una borsa tenuta con tre dita (le uniche libere) per almeno cinquecento metri.

Giungemmo alla banchina dove ci attendeva un motoscafo che ci riportò al carcere; vi rimasi pochi giorni per fortuna, poiché di più sporchi non ne ho mai visti.

Stetti in compagnia di un altro, in una cella di circa otto metri quadrati, con il water in un angolo e di fianco un lavandino; l'aria consisteva di un'ora al mattino ed un'ora al pomeriggio, ma per andare al bagno in modo decente, alternativamente rinuciavammo ad un'ora d'aria. Il guaio sarebbe stato se fosse capitato di doverci andare durante la giornata quando entrambi eravamo in cella. Per fortuna questo non accadde.

Rifacendo lo stesso percorso ripartii con un transito al vecchio carcere di Bologna, (ora chiuso definitivamente) e soggiornai in un camerone (ex ufficio dei conti correnti) dove eravamo in dieci. Più o meno nelle stesse condizioni di Venezia, trascorsi (mi pare) quattro giorni; all'arrivo alla stazione di Bologna pretesi energicamente il soccorso dei facchini a mie spese e lo ottenni.

Eravamo circa dieci detenuti maschi e tre donne; feci caricare i bagagli di tutti e li feci trasportare sino ai furgoni blindati; tale servizio mi costò circa ventimilalire ma tutti ne fummo soddisfatti.

Alla partenza, chiedemmo lo stesso servizio, ci fu acconsentito ma questa volta, si offrì di pagare un altro; giungemmo al carcere di Pisa e vi restai tre giorni.

Un pomeriggio fui trasportato con un furgone blindato al carcere di Volterra; impiegai undici giorni per quattrocento chilometri e sostai in tre carceri diversi.

Appena, giunto a Volterra mi comunicarono che entro un paio di giorni sarei dovuto ripartire per Treviso poiché, come avevo previsto, il Ministero aveva accolto la mia domanda. Così fu.

Giunsi a Treviso il dodici Ottobre e mi rimisi in cella con mio fratello, pur se ero stato assegnato lì per studi, nessun operatore mi convocò per avviarmi allo studio; mi premurai io di contattarli e mi fecero parlare con l'assistente volontaria, la Signora Wilma Serena, insegnante d'italiano, che purtroppo mi disse che non era possibile inserirmi nel corso poiché erano già al terzo anno con soli due ragazzi e che gli insegnanti (tutti volontari) non sarebbero riusciti a seguirmi giacchè io ero al primo anno. Seppi che era in procinto d'iniziare un corso di elettricista patrocinato dalla Regione Veneto. Mi iscrissi fiducioso di poterlo frequentare; intanto mi dedicai allo sport per scaricare tantissimo stress accumulato per diversi fattori, sia familiari che processuali.

Mi rimisi in fretta e pensai di formare un gruppo per realizzare una qualche manifestazione ricreativa che rompesse la monotonia che imperava in quel carcere. Decidemmo di allestire uno spettacolo natalizio con musica, canzoni, poesie e prosa; in un mese e mezzo ci riuscimmo e ne venne fuori un qualcosa di carino. In quell'occasione il direttore, entusiasta, dichiarò che in dieci anni che dirigeva carceri non aveva capito la cosa più importante, e cioè, che il detenuto si può farlo sentire utile facendogli creare qualcosa. Questo perché sarà pure un deviato, ma non un deficiente. Il 16 Gennaio 1986 iniziò il corso di elettricista. Cominciammo in quindici in un'aula di venti metri quadrati, con quindici tavolinetti, una lavagna e quindici pannelli inchiodati al muro ner gli esercizi. Nella stessa aula vi era anche il bagno ed un grosso termosifone che però era tenuto sempre al minimo.

Il giorno dell'inaugurazione del corso presenziò il direttore del carcere e ci presentò gli insegnanti ed il direttore del centro professionale "Don Murialdo" di Treviso. Ci furono fatti tanti auguri con la promessa che avremmo percepito cinquecentolire l'ora dal Ministero di G. e G.

Forse anche la Regione avrebbe contribuito con altre cinquecentolire l'ora; essendo venticinque ore settimanali di studio, si prospettava la possibilità di guadagnare centomilalire mensili, non molte, ma per un detenuto che non ha niente possono significare un minimo di autonomia. Invece, sino alla fine del corso, durato otto mesi, non percepimmo una lira. Il corso iniziò con molto entusiasmo ma il freddo cane che faceva in quel periodo lo smorzò. Entro pochi giorni non si riuscì ad avere una stufa elettrica che ci consentisse di non congelare. Ricordo che alle undici e trenta, ora in cui terminava la prima lezione, correvo in cella e mangiavo subito qualcosa di bollente e bevevo vino per scaldarmi, non mi liberavo neanche del pesante giubbotto di pelle né della sciarpa, né del cappello di lana; ci voleva circa mezz'ora prima di scaldarmi; alle quindici e trenta ricominciava la lezione e durava sino alle ore diciasette. Dopo pochi giorni tentammo di chiedere una stufa; con molti "ni" la richiesta veniva accolta ma mai esaudita; dopo ancora un po di giorni incontrai il direttore vicino al suo ufficio e ne approfittai per insistere. Fummo accontentati perché la stufa ci fu prestata dal corpo di guardia della portineria. Di giorno la usavamo noi e la notte la usavano loro. Quando il maestro riuscì a portarne una delle sue, "vecchissima" ma funzionale, con gioia del corpo di guardia gli restituimmo la loro.

Risolto il problema termico, si presentò quello didattico: nonostante le assicurazioni da parte della direzione e degli operatori (che dovevano coadiuvare gli insegnanti nei vari problemi che man mano si sarebbero presentati) per almeno due mesi non si potè fare altro che teoria e matematica. Questo perché ogni volta che i maestri tentavano di portare un qualche strumento, filo elettrico, ecc.; non ne veniva consentito l'ingresso perché "questo non poteva passare, quell'altro non era autorizzato". Noi purtroppo ci vedemmo bombardati di nozioni teoriche e perciò si venne a creare un malumore generale tra gli allievi ed i maestri.

Molti di noi si allontanarono dal corso ed i maestri si resero conto del perché al punto che non volevano più venire poiché si erano creati un problema di coscienza. Dissero infatti di sentirsi come dei parassiti che rubavano lo stipendio (strano in Italia, vero? eppure ci dissero proprio così!) Un pomeriggio, gli altri sei miei compagni rimasti ed io, chiedemmo ai maestri di non mollare perché se fosse fallita quella prova, difficilmente nel carcere di Treviso ci sarebbe stato un altro corso. Io mi impegnai a rimpiazzare gli alunni mancanti e a sollecitare energicamente l'intervento degli oreratori penitenziari; tra tutti, devo essere grato all'educatrice Sig.na Belita.

Ci fu una nuova ondata di entusiasmo; per l'avvolgimento delle bobine usammo addirittura delle lattine di olio, comprammo a nostre spese qualche articolo di cancelleria, qualcosa ci venne regalato dal maestro delle scuole elementari sig. Fattuzzo (presenza importantissima nel carcere di Treviso), e così riuscimmo a proseguire negli studi; solo due mesi prima degli esami ci fu consegnato il tester che, alla chiusura del corso, ci venne regalato.

Il 9 ottobre 1986 ci furono gli esami. Ci presentammo in quindici e fu bocciato solo un Turco per via della lingua; devo dire però che molti di noi furono promossi anche grazie al fatto che la commissione d'esami era stata informata della precarietà di mezzi con cui si era proseguito negli studi e quanto fosse importante per il carcere mantenere il corso.

Il maestro di teoria era al primo anno d'insegnamento e perciò, nonostante tutta la buona volontà, aveva commesso degli errori di metodo. Quando ne discutemmo insieme fu contento di accettare i nostri consigli per prepararsi un programma più funzionale per il futuro facendo egli stesso tesoro di quella esperienza tremenda seppure significativa per tutti noi. Se non altro avevamo trascorso venticinque ore settimanali per otto mesi in modo diverso e in senso positivo.

Alla fine del corso ricevemmo un attestato di frequenza, centomilalire di premio dalla direzione del centro professionale, il tester in regalo, e seicentoventicinquemilalire quali gettoni di presenza da parte del Ministero di G.G. Ma la soddisfazione più grande fu la promessa che il corso avrebbe continuato ad esistere e che addirittura era in progetto di istituire anche un corso di termoidraulica. Questo corso non l'ho visto nascere perché partii dopo un mese.

Rividi iniziare il corso di elettricista, con gli stessi maestri e quindici nuovi bravi alunni; inoltre fu istituito un corso di lingua Inglese con altri quindici alunni e venne portato avanti il solito corso di scuola elementare  sempre dal Sig. Fattuzzo. Inoltre continuava il corso delle 150 ore di media inferiore. Al corso di geometra fu elevato il numero di alunni da due a sette. Uno di questi ero io ma ebbi la sfortuna di frequentarlo per soli quindici giorni e vi spiego il perché: contemporaneamente all'apertura del corso di elettricista (quello frequentato da me), insieme agli stessi compagni con i quali avevamo organizzato lo spettacolo natalizio precedente svolto, avevamo deciso di interpretare e allestire da soli una commedia di Dario Fò intitolata " UN MORTO DA VENDERE ". Volevamo rappresentarla per Pasqua e perciò iniziammo a lavorarci subito; la direzione, con lo stesso entusiasmo con cui ci aveva concesso il corso di elettricista, ci autorizzò a preparare lo spettacolo nella sala cinema; per tre mesi rinunciammo alle poche ore d'aria a nostra disposizione (tre di noi studiavano al corso di geometra), ma ancora una volta l'entusiasmo di riuscire ci sostenne sino alla fine. Con un po' di luci regalateci dai maestri del corso elettricisti (tre faretti ed un variatore di corrente), gli abiti presi a nolo dal cappellano Don Antonio Trevisan e la sistemazione della sala cinema, eseguimmo gratuitamente l'imbiancatura delle mura e la verniciatura delle poltroncine e il 12 aprile 1986 potemmo rappresentare la commedia. La rappresentazione avvenne davanti a tutti i detenuti della sezione penale e a varie autorità interne ed esterne con la presenza della tivù locale che ci riservò un bellissimo servizio durante il telegiornale delle ore diciassette. Fu uno spettacolo degno di lode e ci diede una grande soddisfazione.

Purtroppo, molti detenuti che aprono un dialogo con le autorità interne spesso vengono allettati da varie promesse di benefici e si ritrovano ad essere oggetto di convenienza di queste autorità, ingannando i compagni di pena quando si tratta di risolvere qualche problema o dicendo illazioni per liberarsi di qualcuno che a loro resta antipatico. Fu così che dopo quindici giorni che avevo iniziato a frequentare il corso di geometra, mi ritrovai a dover tornare a Volterra. Per il corso avevo già sostenuto qualche spesa per il materiale didattico in attesa che enti privati ci donassero dei piccoli contributi come già avevano fatto in passato. Incontrai il direttore ed il Maresciallo che stranamente mi venivano incontro e con aria dispiaciuta mi dissero: "sai Santoiemma...ci dispiace, ma il Ministero ha disposto il tuo rientro a Volterra, visto che non hai frequentato l'anno scolastico per il corso ai geometra. Però, fai così: aspetta qualche mese e rifai l'istanza ed io (il Direttore) metterò il parere favorevole per il tuo ritorno". Disse anche:" mi dispiace ammetterlo, ma la colpa è mia che non ti ho consigliato di fare subito un'altra istanza per la tua assegnazione in questo istituto". Io risposi: "ma guardi che è assurda la mia partenza, primo perché ho frequentato il corso di elettricista, secondo, non è stato certo per colpa mia se non ho rotuto frequentare il corso di geometra. Terzo, visto che ora l'ho iniziato non vedo perché non possa continuarlo. Il direttore mi disse:"Santoiemma, tra pochi giorni dovrai andare a Padova per presenziare al processo (3 Novembre 86); questa sera prepara un'istanza da inoltrare al Ministero e io domani stesso la invierò con il mio parere favorevole, così è probabile che prima che termini il processo arrivi l'autorizzazione a tornare qui". Così feci. Partii per Padova e il 3 Novembre iniziò il processo che però fu subito rinviato al 16 gennaio 1987 e così proseguii per Volterra. Dopo una quindicina di giorni pensai di chiedere udienza al maresciallo affinchè sollecitasse il Ministero ad esaminare la mia istanza. Quando fui nel suo ufficio e avanzai la mia richiesta, dapprima mi guardò stralunato, poi, accertatosi che non lo prendevo in giro mi disse: "ma quale Treviso?! Ma non lo hai ancora capito che sei stato impacchettato?".  Impacchettato, è il termine con il  quale si definisce un allontanamento "coatto" di un indesiderato.

Guarda, mi disse, io ancora non ho guardato il tuo fascicolo, ma, già quando ti vidi arrivare, capii che ti avevano impacchettato. Comunque ora chiamo l'ufficio matricola e vediamo di cosa si tratta...  Chiamò l'uff. matricola e chiese di cercare nel mio fascicolo un'eventuale nota negativa dopo un po' mi disse: "hai visto? Hanno allegato una nota negativa con la quale si fa intendere che tu e tuo fratello facevate i guappi!". Ma come?  Mi sentii solo di rispondere, a Giugno mi rilasciano un encomio con il quale si elogia il mio buon comportamento, mio fratello sono quattro anni che fa il barbiere usando forbici e rasoi senza aver mai subito un rapporto al riguardo della sua condotta, e saremmo dei guappi?

- Santoiemma - mi disse il maresciallo - anche nel mio ufficio vengono molti infami a raccontarmi cose vere e non vere; io mi prendo la briga di accertarmi prima di prendere dei provvedimenti nei confronti di chicchessia, mentre, la direzione di Treviso, è evidente che non lo fa -. Mi sentii gelare il sangue nelle vene e non ebbi più la forza di dire altro. Lo ringraziai e me ne tornai in cella. Rimasi alcuni giorni a riflettere, poi decisi di reagire inoltrando un'altra istanza al Ministero. Impegnai un avvocato di Roma e scrissi pure a Don Germano Greganti che, tramite la sua associazione cura i problemi dei detenuti. Anche l'insegnante d'italiano, la Signora Wilma Serena, la prese a male e cercò tramite sue conoscenze di farmi ritornare a Treviso, ma purtroppo non si riuscì a concludere nulla. Constatato ciò, la delusione di vedere sfumare l'occasione di poter frequentare un buon corso di geometra ed il modo abbietto con cui ero stato allontanato dal carcere di Treviso, fecero crescere in me una ribellione interiore che mi spinse a denunciare un simile stato di fatto. Purtroppo, non è facile per un detenuto "qualsiasi" imbarcarsi in una simile impresa. Feci ritorno al carcere di Padova per la celebrazione del processo che iniziava il sedici Gennaio '87 e che sarebbe durato sino alla fine di Marzo.

Il due Febbraio ebbe luogo presso il carcere di Padova una conferenza voluta dai detenuti e alla quale presenziarono il Senatore Gozzini Mario, fautore della riforma carceraria del 1986, e moltissimi magistrati di sorveglianza tra i quali: il dott. Zappa del tribunale di sorveglianza di Brescia, il dott. Maisto F. di Milano e la dott.ssa Frangiamore del carcere di Rebibbia noti per il loro impegno riformista nei confronti delle carceri e della pena stessa.

Altra presenza importante che ricordo è quella del Professor Pavarini, docente di Criminologia all'Università di Bologna. Fu ad una di queste persone che potei esporre quel che mi era successo al carcere di Treviso e chiesi di essere trasferito da Volterra. Appena terminato il processo fui assegnato a Mantova, di questo carcere parlerò più avanti. Riguardo alla conferenza non ero propenso a parteciparvi poiché in diciasette anni di frequentazione di carceri, non erano state poche le volte che presenziavo a dibattiti che si risolvevano con tante promesse mai mantenute. Tuttavia, la presenza delle personalità anzidette ed il fatto che in quel giorno non dovevo presenziare al processo, mi convinsero a parteciparvi. Il dibattito durò dalle nove del mattino sino alle diciannove. Disse il senatore Gozzini: "noi abbiamo lavorato due anni per preparare questa legge che è stata approvata da tutte le forze politiche, ma purtroppo, questa legge resterà " un pezzo di carta " se tutte le forze sociali e le istituzioni preposte non si faranno carico in modo responsabile del problema delle carceri. Ma anche se voi (noi detenuti) non vi decidete a denunciare ogni sopruso e abuso che viene perpetrato a vostro danno e che vivete di persona all'interno delle carceri.

Vi invito, proseguì, a scrivere personalmente al dott. Nicolò Amato (all'epoca direttore generale degli istituti di prevenzione e pena) perché è lo stesso dott. Amato che desidera essere messo a conoscenza di quanto accade.

Altra affermazione che mi colpì fu quella che fece il Professor Pavarini, docente di Criminologia di Bologna, che disse: "il Ministero si è prodigato per costruire un gran numero di prigioni nuove e altre ne sta costruendo. Non basta,l'aver plasmato delle mastodontiche colate di cemento per dare dignità, umanità ed una seria possibilità di recupero a chi vive venti ore su ventiquattro in una cella di dieci metri quadrati. Perciò invito vivamente tutte le forze sociali ad intervenire tempestivamente per evitare interventi poi su uomini divenuti alieni in libera uscita. Potete ben immaginare quale sarà l'effetto psicologico che provocherà sulla psiche di soggetti abbandonati a sè stessi in una struttura carceraria disumana".

A queste parole iniziò nella mia testa il seguente ragionamento: qualcuno può anche dire, esistono pur sempre le forze di polizia! Allora io potrei rispondere, scusate l'iperbole, si potrebbero uccidere tutti i detenuti e farla finita! Ed io dico ancora, bene! Io ci stò! Però, a condizione che si cominci dai petrolieri, i banchieri, i politici che usano la raccomandazione per assicurarsi i voti dell'elettorato o ricevono bustarelle, i proprietari delle grosse industrie che ci avvelenano l'aria e le acque per il loro arricchimento, ecc. Infine ci sarei io, non perché voglia essere privilegiato ma solo perché il delinquente comune non sfrutta una divisa, un'assunzione negli uffici pubblici, una carica politica o amministrativa per commettere reati ai danni della comunità.

Il detenuto comune ha il coraggio, se così si può dire, di consumare un reato ben sapendo che se verrà "pizzicato" non avrà protezioni altolocate e che pagherà di persona, e questa non è forse una relativa forma di onestà?

Ho già parlato del vitto e delle vettovaglie, ma non vi ho detto quanto costa alla collettività un detenuto per ogni giorno di carcere: costa la bellezza di quattrocentocinquantamilalire circa; con tale cifra si potrebbe vivere comodamente in un Hotel di prima categoria, ma non è così, di reale esistono solo le quattrocentocinquantamilalire (da moltiplicare per una popolazione carceraria di circa 60.000 detenuti, totale un business da 27 miliardi al giorno!).

La poesia che leggerete nella pagina seguente è dedicata alla insegnante d'Italiano signora Wilma Serena, assistente volontaria nresso il carcere di Treviso dove ho avuto il piacere di averla, come insegnante, pur se per solo quindici giorni.
 
         SARA

      Fino a trentaquattro anni credevo di
      conoscere la vita, luoghi, persone e storia
       solo quando ho conosciuto te
       ho cominciato a vivere "viaggiando"
       con te ho conosciuto luoghi, persone
       e storia, che anche campando cent'anni
       non sarebbero bastati,
      ti avevo sempre confuso con qualsiasi
      banalità, ma da quella volta che mi hai
      strizzato l'occhio, me ne sono innamorato...
      e pure a letto ti ho portato.
       Per anni mi hai tenuto compagnia,
       e quando uscivo per una boccata "d'aria"
       mai mi hai chiesto...dove vai?
      Se ero triste te ne stavi in un cantuccio,
      ma sempre sei riuscito a toccare le mie mani.
       Ora che sto uscendo a libertà, te ne stai
       in mostra in biblioteca, e aspetti fiducioso
       il tuo nuovo amante,
       no, non mi sono innamorato di un uomo...
       ma del libro!
 
Nella pagina precedente vi ho detto che il detenuto costa circa 450mila lire al giorno, ma forse è meglio spiegarvi anche in cosa consiste la dotazione ed il vitto.

Le vettovaglie già ve le avevo descritte in precedenza.

L'arredamento: un mobiletto con uno sportello di un metro e venti cm. circa (ci stanno giusto quattro vestiti) ed un mobiletto con sportello 60x60, un tavolino, ed uno sgabello di compensato studiato da qualche designer sadico, uno specchio incassato nel muro nel bagno, un materasso di gomma piuma ignifugo che riesce a trattenere benissimo l'umidità ed un cuscino dello stesso materiale, una coperta di tipo militare che sembra fatta di stoppa e che non sai mai chi l'ha usata prima di te; le lenzuola vengono cambiate una volta la settimana o ogni quindici giorni, dipende dal carcere dove ti trovi. Le nuove carceri sono state costruite con criteri moderni ma con materiali quali cemento e ferro; spesso vi sono dispersioni di corrente che impediscono quasi di toccare la porta o la finestra. In ogni carcere vi è un campo di pallone, una palestra, una biblioteca ed una saletta per la socialità in ogni sezione; in qualcuna ci si può trovare un biliardino o un tavolo da ping-pong, ma in quasi tutte ci si trovano solo pochi tavolini e qualche sgabello. La socialità si può trascorrere anche nella propria cella fino a quattro persone. Di solito, quando si chiede qualche innovazione che riguarda la libertà di movimento, ci viene risposto che abbiamo ragione e che le richieste sono giuste, però non essendoci agenti a sufficienza, non è possibile acconsentirvi; in effetti, gli agenti che montano la sorveglianza sono sempre gli stessi perché ci sono tanti imboscati nei servizi terziari, questo lo dicono gli agenti stessi.

In tutti gli Istituti Italiani, salvo Alessandria e Civitavecchia che sono carceri scuola, è consentito cucinarsi in proprio, si possono tenere due fornellini per ogni detenuto, del tipo da campeggio con una carica da duecento grammi di gas che costa 1500 lire circa, pentole e pentolini; non si possono spendere oltre le 750.000 lire al mese suddivise in 175.000 lire settimanali. Per l'acquisto di scarpe, abiti, medicinali, ecc. bisogna inoltrare una domandina (vedi pag. seguente).

Quando il prodotto viene portato, dopo giorni o settimane, qualunque ne sia la qualità ed il prezzo, si è "obbligati" ad accettarlo. Se non lo si accetta, l'amministrazione defalca lo stesso la cifra relativa dal libretto di conto corrente personale (il detenuto non possiede contanti, ma un modulo Ministeriale che funge da c/c per annotare le entrate e le uscite per conto del detenuto stesso) e la merce rifiutata viene depositata in magazzino a nome del detenuto; con certe discussioni sicuramente ci si assicura "l'antipatia" dell'amministrazione, così è se critichi il vitto, così è se sei di commissione al controllo del vitto in cucina e per qualsiasi altra contestazione, e bene che vada si viene trasferito al più presto ad altro istituto con tutte le "referenze del caso". perché non gradiscono critiche e controlli?

Periodicamente e senza limiti possono perquisire le celle senza la presenza del detenuto, di qualsiasi cosa venga trovata se ne è responsabili, ma qualsiasi cosa manca...si provi a denunciarlo!?

Quando una cella è sotto "il mirino" lo scherzo "meno grave" che ci si possa aspettare da parte degli agenti all'atto della perquisizione in cella, è quello che ti mischiano sale e zucchero che quando ti fai un caffè te ne accorgi !!

Arrivai al carcere di Mantova il 28 marzo 1987 il giorno dopo fui visitato, accusavo forti dolori addominali, al fegato e alla milza; la diagnosi fu imbarazzo intestinale. In seguito invece scoprii che si trattava di salmonella avuta in regalo dal carcere di Padova, carcere di provenienza; ricordo benissimo che, due giorni prima della partenza, io ed il mio compagno di cella, Tomielli Antonio, mangiammo una costata di manzo acquistata al sopravvitto e dopo un paio d'ore accusammo entrambi dolori addominali e diarrea; stupidamente non demmo importanza alla cosa, forse perché eravamo entrambi forti di costituzione e ci limitammo a farci delle spremute di limone e a riderci sopra per la frequenza con cui ci davamo il turno per andare in bagno. A Mantova, dal medico che mi visitò mi furono prescritte delle bustine di Legalon 200 e dello sciroppo Maalox; inoltre mi feci prescrivere il vitto in bianco. Il medico lo prescrisse, però molto imbarazzato e con l'espressione del viso mi fece notare qualcosa come se stessi chiedendo la luna nel pozzo.

Comunque mi raccomandò lo stesso di mangiare in bianco (del mio). Mi feci anche prescrivere un'asse per il letto perché soffro di scoleosi multipla e naturalmente la branda sgangherata non aiuta la guarigione. Ho atteso circa venti giorni sia il vitto che l'asse, quindi marcai visita medica per chiedere se quanto prescritto fosse stato trasmesso ed eventualmente da chi fosse stato ostacolato. Ottenni la seguente risposta: "io il vitto in bianco lo prescrivo, ma in questo istituto non si è mai usato servirlo. Comunque le assicuro che cercherò di convincere chi di dovere affinché ne autorizzi la somministrazione. Lo stesso farò per l'asse del letto. Le assi del letto le distribuiva l'agente del magazzino, e nonostante esista una lista d'attesa (per un'asse), l'agente usa la sua discrezione !

"IL CORTILE PER IL PASSEGGIO, LO SPORT, IL TEMPO LIBERO A MANTOVA"
Il cortile sarà venticinque metri per dieci di larghezza, ne ho visti di più grandi e di più piccoli. Tenendo conto che la capienza media è di circa cento detenuti, lo spazio procapite è un metro quadrato a testa; ma la cosa più sgradevole (mi dicono che tutta la città di Mantova è tormentata da questo problema) sono le fogne. Queste attraversano il cortile e dai tombini esce un tale tanfo di uova marce che restare per due ore e mezzo a passeggiare diventa un'impresa. Nel passeggio vi è anche un vespasiano di colore verde-marrone per quanto è sporco, e un rubinetto adiacente al vespasiano che oltre a berci ci si lava pure i piedi; comunque nessuno ci beve mai poiché la sporcizia del vespasiano fa veramente paura. Considerando che il pacco non può superare il peso di cinque chili (quello portato dai familiari) tra vitto e biancheria per effetto della legge anticamorra del 1984, si è obbligati a lavarsi molta della roba personale, comprese le lenzuola personali che sono consentite; però è possibile stendere il tutto tra le sbarre o a delle corde che vengono attaccate in bagno (quasi sempre staccate dagli agenti in fase di perquisizione nelle celle) Nel cortile non ci sono corde per stendere, nè lavabi adatti a fare il bucato. In alcune carceri esiste la possibilità di usare la lavanderia interna una volta la settimana gratuitamente, oppure è possibile servirsi della tintoria esterna a proprie spese, ma a Mantova questo non è concesso e neanche di questo si capisce il perché!

LA TELEVISIONE IN CARCERE

Tutti conosciamo l'utilità della televisione. Speso i mass-media discutono il problema della teledipendenza ed i suoi effetti negativi con interviste a luminari della scienza, per es.: interpellando psicologi, sociologi, pedagogi, ecc. Bene, provate a stare chiusi in casa e a stare dodici ore al giorno davanti alla televisione (sempre ché passeggiate per quattro ore e dormiate le altre otto) e poi notate come vi sentite anche in considerazione del grande flusso di programmi demenziali!!

Io mi sono imposto di guardare la televisione per un massimo di due ore al giorno oltre ai telegiornali delle ore tredici e delle venti), ma credo di riuscirci solo perché mi impegno a scrivere, leggere e dipingere, ovvero: incrostare le tele che compero a mie spese, nonostante il Ministero elargisca notevoli fondi per le applicazioni tecniche e sportive che non si capisce dove vadano a finire. Se la televisione ha il doppio effetto positivo-negativo per le persone libere, per il detenuto è doppiamente negativo. Ascoltando denunce di fatti scabrosi o pietosi, essendo "vivi", si provano tutte le emozioni del caso e logicamente ti senti partecipe o solidale per quei fatti. Ma poi guardi le sbarre della finestra e il cancello chiuso e ti rendi conto che non sei nescuno, sei inerme. Vedi che la gente telefona tempestivamente alle redazioni dei giornali o delle televisioni per rispondere ad un appello, che chiede o da spiegazioni ed opinioni per un problema di qualsiasi tipo; noi no, eppure, veramente tutta quella gente che partecipa e vive nel contesto sociale merita di viverlo accanendosi verso il detenuto?

A proposito, mi ricordo, e lo racconto nel senso buono, il sig. Guido R., Padre del ragazzo (uno degli omicidi del Circeo) che evase dal carcere di S.Gimignano nel 1981, era direttore generale per il commercio estero della Banca Nazionale del Lavoro. Fu arrestato con l'accusa di favoreggiamento per l'evasione del figlio e portato nel carcere di Siena, dove io e mio fratello eravamo detenuti; per sincera solidarietà lo avvicinammo e conversammo un pò per tranquillizzarlo; non gli chiedemmo mai se era vero o meno che avesse favorito il figlio ad evadere, anche perché è naturale che un genitore tenti di liberare un figlio dal carcere, specialmente quando non si uccide per riuscirvi. Invero (secondo l 'accusa), aveva corrotto qualche agente di custodia, e questo è normale nell'ordine pratico e mentale del detenuto. Il Sig. Guido, solo dopo aver pranzato con noi (lui era in cella da solo perché era gravemente ammalato di cuore), ci fece leggere decine di telegrammi che aveva ricevuto e con i quali amici e colleghi si dicevano solidali con lui; dopo averceli fatti leggere li mise da parte con fare sprezzante, quindi ci fece leggere una lettera della moglie e della figlia.

Queste lo pregavano di avere fede e di farsi coraggio, in ogni riga pareva che vi scorressero gocce di sangue sgorganti da due cuori feriti a testimonianza della sofferenza di quelle due anime. Con estrema emozione ci disse: non saprò mai come ringraziarvi per la vostra genuina solidarietà, non pensavo che dentro questi luoghi avrei trovato tanta amicizia, vorrei poter fare qualcosa anch'io per voi, se non vi avessi incontrato, sicuramente mi sarei già impiccato facendola finita. Per quei pochi altri giorni che vi rimase gli facevo compagnia nella sua cella con un altro mio amico che stava sostenendo gli esami di giurisprudenza. Il sig. Guido dava a quest'amico delle lezioni di codice civile, anch'io lo seguivo al punto da montarmi la testa desiderando di studiarlo. Dopo pochi giorni ancora, il sig. Guido riacquistò la libertà, inviò dei cioccolattini ai miei figli e ci scrisse qualche lettera. Dopo due anni ho avuto modo di vederlo a Roma, lo incontrai perché avevo bisogno di un avvocato Cassazionista di Roma e me ne presentò uno; inviai dei fiori alla moglie e alla figlia e ci salutammo; non l'ho più visto, eppure lo ricorderò sempre come un grande amico.

In questo momento c'è lo scopino (così si chiama chi è addetto ai lavori domestici all'interno del carcere) che canta una canzone inneggiante allo scudetto appena vinto dal Napoli (24 ore fa,); infatti, lui è napoletano ma vive alla periferia di Milano. Non indico il nome di questo ragazzo perché è portatore del virus H.I.V. (sieropositivo). Ho parlato con lui il giorno del mio arrivo a Mantova, fuori dall'ambulatorio del medico e chissà perché, cominciò subito a raccontarmi del suo reato e delle sue peripezie processuali.

Era stato tratto in arresto per una rapina ad una farmacia insieme ad un suo amico tossicodipendente come lui; era stato difeso d'ufficio e condannato a quattro anni. L'avvocato d'ufficio, oltre a difenderti male al processo di primo grado, non ti coltiva i motivi d'Appello perché non è prevista dall'ordinamento giudiziario, la difesa gratuita d'ufficio per il secondo e terzo grado. Gli mancavano circa quindici giorni per poter presentare i motivi d'Appello, poi la sentenza sarebbe divenuta definitiva; fui talmente disgustato da tale ingiustizia, che, senza mezzi termini, gli dissi di nominare il mio avv. di fiducia di Monza che senz'altro lo avrebbe difeso. Infatti, la sera stessa scrissi all'avv. dandogli gli estremi e rassicurandolo per il suo onorario. Gli feci anche un piccolo vaglia telegrafico per le spese. L'Avv. si interessò subito a presentare i motivi di appello per la difesa; ora questo ragazzo, con la sua paga di seicento mila lire mensili, mi ha già restituito (quasi tutti) i miei soldi, e sta inviando anche qualcosa all'avvocato. Quando si celebrerà l'Appello, anche se gli dovessero confermare la pena, l'accetterà diversamente perché ha avuto la possibilità di difendersi. Forse è per questo che oggi trova ancora il coraggio di cantare "W Maradona".

Ora, nella mia stessa sezione, c'è un ragazzo giovane, pugliese come me. E' stato arrestato un mese fa per oltraggio in stato d'ubriachezza. In quella stessa cella dov'è ora, ci stavo anch'io quando arrivai (ora sono in cella singola per mia volontà). Arrivò denutrito, sporco e ammaccato, lui diceva che "era caduto dalle scale della questura" (?); gli rimediammo della biancheria intima e asciugamani per lavarsi e cambiarsi; dopo pochi giorni io cambiai cella ma lo frequentavo all'aria; mi disse che era venuto a Mantova a cercare lavoro, ma che non trovandone, appunto quella sera dell'arresto, "preso dallo sconforto" si era ubriacato ( era appena uscito in dicembre grazie alla recente amnistia).

Appena uscito si era recato al suo paese e aveva cominciato a lavorare in nero come montatore di pannelli di soffitti; durante la sua breve permanenza in paese, era venuto a diverbio con dei suoi coetanei per una storia di ragazze, fu malmenato pesantemente perciò (consigliato anche dai suoi genitori) arrivò alla conclusione che era meglio lasciare il paese, onde evitare una tragedia. Ironia della sorte, proprio il giorno dell'arresto si era fatto rilasciare dall'economato del Comune il biglletto del treno per raggiungere suo zio a Busto Arsizio (VA) che lo avrebbe ospitato e aiutato finchè non avesse trovato un lavoro. Dietro mie domande insistenti, mi diceva che avrebbe voluto un lavoro per non incappare più nelle tremende maglie della giustizia: perciò io gli dissi di non appellarsi alla sentenza di primo grado che lo aveva condannato a cinque mesi, in modo da poter avviare subito la pratica per essere ammesso al regime dell'affidamento sociale. Per essere ammessi al beneficio della suddetta pena alternativa, la condanna non deve superare i tre anni, e siccome occorre un lavoro e un domicilio, gli promisi che glieli avrei procurati io, grazie a qualche amico sensibile a questi tipi di problemi; infatti già mi stavo interessando. Dopo alcuni giorni mi disse che il medico gli aveva diagnosticato un grave ingrossamento del fegato, doveva assolutamente curarsi e mangiare in bianco. Lo tranquillizzai e gli raccomandai di non bere vino e caffè nel modo più assoluto, e che il vitto in bianco glielo avrei mandato io visto che già lo cucinavo per me. Pochi giorni prima gli avevo dato 50.000 lire per due giorni che aveva dormito in una pensione familiare, altrlmenti non avrebbe potuto ritirare la biancheria pulita che vi aveva lasciato; se ne occupò il cappellano di ritirarla e portargliela in carcere. Purtroppo ho saputo che è sieropositivo, a me aveva sempre negato di avere fatto uso di sostanze stupefacenti. Tutt'ora è nella cella comune abitata da sei detenuti dove tutti e sei bevono per dodici, inoltre, tra gli altri cinque ci sono due sieropositivi, due che danno segni di essere poco a posto con il cervello e un ragazzo che è stato da poco arrestato per spaccio. Potete benissimo immaginare quale sia il tenore di vita in quella cella.

Ma questa non è l'unica cella che versa in un simile squallore; le carceri italiane sono piene di queste celle affollatissime da migliaia di persone cariche del loro fardello pieno di disgrazie, povertà e storie amare, eppure basta dire la parola detenuto per immaginarsi un delinquente che disprezza la società, che vuole vivere da parassita senza alcun impegno morale. Ma difficilmente qualcuno si chiede perché il detenuto si è venuto a trovare in quelle condizioni, quasi come se fosse scontato che Dio crea due tipi di creature: il buono ed il delinquente.



       VAGABONDO
 
In abiti di fortuna e barba incolta
Su di una pelle arsa
Che pur non disdegna l'acqua,
 
Tu vagabondo hai scelto
di vivere la tua compagnia in osteria
Per letto una panchina . . .
dove è subito mattina,
 
In quel lampione, in quella luce gialla
rivivi i tuoi ricordi . . .
Non sono belli, meglio . . . meglio ? !
 
Era bella la tua sposa
Anche i figli erano tutto
All'or cos'è che ti ha distrutto ?
 
Antonio Santoiemma
bologna  O4/07/94.


Il 12 Maggio '87 è stato affisso in sezione un manifesto che annuncia un dibattito che si terrà presso l'Istituto Gonzaga di Mantova, nel quale si dibatterà il problema "CARCERE E LAVORO"; è invitata una rappresentanza dei detenuti e perciò chiederò di presenziare con un mio intervento dal titolo:

I detenuti di Mantova ringraziano vivamente per il gentile invito e salutano tutta la cittadinanza.

Per molti Mantova è anche la loro Città e si augurano di poter partecipare in futuro nel contesto sociale in qualità di cittadini liberi e non come cittadini di serie C o giù di lì!

Ecco il punto: PARTECIPARE!

La prima riflessione che si affaccia nella mia mente è che voi pensiate, ma come, partecipare? Ma, allora, se sono interessati a partecipare, perché sono fuoriusciti? Se io fossi in grado di rispondere, vorrebbe dire che altri avrebbero potuto già farlo e quindi il problema sarebbe stato già risolto. Purtroppo, il fatto che noi ci siamo, vuol dire che il problema esiste; ma anche il fatto che si sta dibattendo dimostra che la società civile ha preso coscienza del problema, così come anche il fatto che una rappresentanza dei detenuti partecipa a questo dibattito sta a dimostrare che anch'essi hanno preso coscienza della loro diversità nel contesto sociale e che cercano il giusto aiuto per potervi ripartecipare. Se tantissimi detenuti sentono il bisogno di reinserirsi nella società non è da interpretare come arrendevolezza ad un sistema di Polizia forte o perché il crimine non paga, o per l'ondata di pentitismo. L'arroganza vendicativa della magistratura non si crea il problema di star distruggendo o meno un innocente, convinta della sua impunibilità e supremazia su ogni sistema politico e sociale.

Secondo me, gli ultimi quattro anni di stabilità politica, gli unici quattro che io ricordi, hanno infuso fiducia anche a noi detenuti che abbiamo percepito il segnale dato dalle forze politiche e sociali e dalle associazioni volontarie che sono disponibili a farsi carico del problema carcere ed emarginazione in genere.

Oggi i detenuti sono divisi in due fasce:
la prima è quella della mia classe e precedente, che anche se viene definita "incallita" non vuole dire che non sia stanca di entrare e uscire dal carcere e che non desideri godersi la sua famiglia che bene o male quasi tutti hanno. Per questa fascia, il vero ostacolo è costituito dal testo unico di Polizia risalente al periodo fascista che, con tutte le sue assurde misure di sicurezza, ritiro della patente e ostacoli burocratici per tutte le possibilità lavorative, non fanno altro che esasperare l'ex-detenuto e di conseguenza lo costringono a commettere nuovi reati per sop ravvivere. Le misure di sicurezza consistono in: libertà vigilata anche dopo aver scontato la pena, diffida dal risiedere anche nel luogo di residenza, confino, soggiorno obbligato, casa di lavoro che in pratica è un carcere (in gergo la si definisce "l'ergastolo bianco"); ma mai si è sentito dire che la polizia abbia trovato un posto di lavoro a qualche ex detenuto, anche se dimostra di voler cambiare. Anzi ! Tutte queste misure di sicurezza vengono somministrate come acqua e zucchero, senza tenere conto assolutamente se un soggetto abbia o meno una famiglia da mantenere, nè conoscendo la vera problematica esistenziale del soggetto stesso.

L'assurdo delle misure di sicurezza è che vogliono dare al cittadino la parvenza che con queste si metta il pregiudicato nelle condizioni di non commettere reati. Come il ritiro della patente obblighi di fatto a non guidare l'auto. Chi è nella necessità o voglia comunque commettere una rapina, certamente se ne fregherà di avere o meno la patente di guida, o se alle dieci di sera dovrà essere in casa (le rapine di solito vengono commesse di giorno...no?); e comunque, non saranno certo un paio di mesi di arresto in più che lo faranno desistere dal commettere un reato assai più grave. Ecco perché ormai da più parti si chiede l'abrogazione del testo unico di polizia e interventi più concreti che mettano un ex detenuto nelle condizioni oggettive di non commettere più dei reati.

La seconda fascia è la nuova generazione, a sua volta divisibile in due fasce: una tossicodipendente, e l'altra (più esigua) non tossicodipendente. Generalmente la nuova generazione è piena di problemi al punto che ogni giorno offre contraddizioni a qualsiasi tesi di profilo caratteriale che qualsiasi psicologo o sociologo avanzi. In breve, il giovane detenuto non tossicodipendente, con la sua prima detenzione, o si sente gratificato, e allora una volta fuori fara danno, o crolla (pochi) e allora è facile che anche senza nessun tipo di sostegno si rimetta sulla buona strada. Il tossicodipendente, già per essersi avvicinato alla droga è scontato che sia un soggetto fragile. Oltre alle continue umiliazioni che avrà subito all'esterno, quando sarà in carcere ne subirà molte altre nella condizione di emarginato tra gli emarginati. Potete immaginare con quale stato d'animo (rabbia) affronterà la vita da libero, e soprattutto quale motivazione possa avere che lo aiuti ad un reinserimento.

A livello carcerario (non è da sottovalutare), si potrebbe operare benissimo: sarebbe necessario venissero approntate delle strutture carcerarie per soli tossicodipendenti, con il fine di privarli sia della libertà personale per il reato che hanno commesso, ma guardando soprattutto al recupero psico-fisico del soggetto. Questo senza false promesse del tipo che se appena dimostra o dice che farà il bravo, potra essere scarcerato; così si ripeterebbe il madornale errore che un giudice lo scarcera ed un altro lo incarcera per un nuovo reato attinente alla droga. E' anche per questo motivo (stando a tante testimonianze) che non credo al servizio del N.O.T. cosi com'è oggi: non bastano sporadici interventi di pochi minuti in carcere per riabilitare un tossicomane, così com'è inutile un day parking presso i locali esterni del N.O.T.

Penso che se tutte le varie forze sociali intervenissero energicamente e tempestivamente presso le famiglie bisognose di un sostegno materiale e morale, soprattutto per salvaguardare il minore, così come il tossicomane, allora, sicuramente ci sarà un calo della delinquenza minorile e della tossicodipendenza; ma bisogna farlo subito, perché già di tempo se ne è perso tanto. E' vero che esiste l'emergenza morale, ma questo non deve essere motivo di scoraggiamento, anzi, deve essere motivo per un'immediata presa di coscienza mettendo in campo tutti gli strumenti disponibili per un ritorno alla normalità; non vorrei che le mastodontiche colate di cemento, un domani servano anche per i miei figli.

Consegnai l'intervento al cappellano, Don Mario Chittolini, per farlo scrivere a macchina, ma lui ha pensato di presentarne uno scritto da lui che è più conciso e tecnico, accettato da tutti noi.

Nell'intervento di Don Mario si lodava l'operato di due cooperative: l'Arianna e la Speranza; è doveroso però fare una mia precisazione: la coop. Speranza, pur se è nata con lo scopo di aiutare ex detenuti, in realtà ospita giovani degenti con disturbi psichici. La cooperativa Arianna, in precedenza assumeva più detenuti di quanti ne possa assumere ora, e ciò solo per il seguente motivo: dovendo verzare gli stipendi ed i contributi I.N.P.S., così come è previsto dal contratto nazionale del lavoro, e non riuscendo a produrre profitti a sufficienza, si vede costretta a non poter assumere personale (detenuti) più di quanto ne ha, sei o sette persone. Praticamente risulta che la Città di Mantova ha a disposizione due cooperative, quando in realta ha solo una mini cooperativa.

Pensavo di partecipare a questo intervento e intanto mi ero premurato di consegnare copia dell'intervento ad un altro detenuto che già aveva partecipato a precedenti dibattiti e quindi si presumeva che partecipasse anche a questo; invece alle ore venti, il dottor Malagutti (psicologo) si presentò di gran corsa da questo detenuto a ritirare l'intervento perché nessun detenuto avrebbe potuto partecipare al dibattito. Questo solo perché il magistrato di sorveglianza, che avrebbe dovuto firmare i permessi di uscita dal carcere, era assente. Questo era l'ultimo dei dibattiti organizzati; si è parlato tanto del carcere di Mantova e dei detenuti, eppure, nessuno degli operatori penitenziari nè degli organizzatori si è degnato di darci un minimo d'informazione in merito ai lavori svolti. E pensare che gli stessi organizzatori poi si sono lamentati della nostra assenza. Faccio notare questo per mettere in evidenza il muro di gomma con cui deve scontrarsi continuamente il detenuto. L'unica cosa che si notò nel carcere di Mantova furono i pavimenti tirati a lucido, come succede ogni volta che c'è un'ispezione, solo perché, l'ultimo giorno della mostra venne a visitare il carcere una commissione del Ministero di grazia e giustizia. Ma questo lo venimmo a sapere il giorno dopo dai quotidiani, specialmente "La Gazzetta di Mantova" che pubblicò anche una foto ricordo della visita:

All'auditorium «Sacchi»
Carcere e lavoro: stasera un dibattito
Organizzano gli Istituti Gonzaga
 
Prosegue il ciclo di conferenza rivolto alle tematiche carcerarie a seguito della mostra «La Punizione Imperfetta--giustizia e carcere nella società contemporanea» organizzata dall'USSL. 47, dal Comune di Mantova e dell'Istituto «Luigi ed Eleonora Gonzaga» chiusasi il 26 aprile 1987. La tavola rotonda di questa sera è la quarta di sei che l'Istituto Gonzaga ha voluto presentare ai mantovani con l'intenzione di stimolare e coinvolgere non solo gli addetti ai lavori ma soprattutto l'uomo della strada che spesso è portato a rimuovere un delicato aspetto di vita quotidiana. Alle ore 20.45 all'Auditorium M. Sacchi di via Frattini,21 si terrà questa sera un interessante incontro sul tema «Carcere, Lavoro e integrazione sociale». Dopo l'introduzione del dott. Giovanni Malagutti responsabile del progetto-mostra e ciclo di conferenze, interverranno: la dott.ssa Chiara Veglia resp. uff. Presid. Regione Piemonte, la dott.ssa Livia Consolo resp. Lega Coop. di Brescia, la dott,ssa Giovanna Bussolati resp. Unione Coop. di Brescia, il cav.Giovanni Castagna presid. Unione Artigiani di Mantova, la sig. Maura Negri resp. Coop. «Arianna» di Mantova e una rappresentanza di detenuti della Casa Circondariale di Mantova.



La mostra, "LA PUNIZIONE IMPERFETTA", nella quale erano inseriti i sei dibattiti, è stata richiesta anche in altre Città sensibili al problema delle carceri; è stata rresentata insieme ad un opuscolo ben elaborato che illustrava le diverse problematiche carcerarie; inoltre, riservava un notevole spazio ai problemi degli agenti penitenziari, escludendo però un benchè minimo spazio per i detenuti. Comunque le stesse lamentele degli agenti penitenziari mi hanno dato lo spunto per scrivere qualcosa anche in merito al rapporto agenti-detenuti; mi hanno colpito molto le seguenti lettere:

1°) L'agente di custodia è disprezzato dai detenuti e presta servizio in una sezione dove la presenza di questi è dai sessanta ai cento e da solo li deve controllare tutti. Il suo servizio si riduce ad una serie di gesti meccanici e questo rende il suo lavoro degradante e poco adatto alla funzione rieducativa. In realtà sono gli agenti i veri detenuti non avendo uno spaccio ( o dove c'è, con precarie condizioni di decenza), e nemmeno quello spazio sociale che invece viene garantito ai detenuti. Inoltre, in mensa si mangia male e si spende dalle quattro alle cinque milalire al giorno; la mensa è gestita da un agente che, dopo aver terminato il suo turno di servizio, deve recarsi nei supermercati a fare la spesa; la cucina è gestita dai detenuti e basta ciò a far capire come si mangia.

Mie risposte a quest' agente:
Che sia monotono l'aprire e chiudere cancelli lo posso pure capire, ma che voglia far credere che se non ci controlla succeda chissà cosa, non è affatto vero, anche perché quando appena si accenna a qualcosa, riescono a saperlo prima ancora dei diretti interessati, grazie alla fitta rete di delatori; se poi vuole far credere a chissà quali rischi va incontro l'agente perché deve controllare dai sessanta ai cento detenuti, proprio non lo capisco visto che, anche il singolo che subisce pensa solo ad uscire, magari dicendo...appena esco!? Ma poi, una volta uscito dimentica; infatti, quasi tutti gli agenti (sicuri di ciò) escono senza armi e frequentano (di solito) gli stessi locali pubblici frequentati da ex detenuti, a Milano, ad esempio: l'Old Fashion, lo Splash Down, ecc.

In quanto agli spazi sociali garantiti ai detenuti, mi dispiace che l'agente non ne abbia illustrato qualcuno; comunque, ove vi sono, non si tratta altro che di locali dove la notte ci danzano i topi e di giorno il detenuto vi gioca a carte, a calcetto, a ping-pong, di solito vi è un gioco ogni cinquanta detenuti.

Riguardo al problema mensa-agenti:
prima di tutto vorrei sapere da quest'agente quante volte ha avuto il "coraggio" di lamentarsi con chi di dovere, che il cibo non è buono, e se non lo ha fatto, sarebbe opportuno sapere perché non lo fa... Comunque non è vero che le mense agenti sono gestite dai detenuti, semmai è vero che i detenuti vi lavorano; con ciò, mi fa piacere che conferma il problema della professionalità in merito ai posti di lavoro all'interno delle carceri, e la discrezionalità data ad un maresciallo (che dovrebbe solo dirigere il fattore sicurezza) nell'assegnare i posti di lavoro. Se io sono un bravo cuoco, però antipatico, devo stare in cella, mentre un altro che è un bravo muratore, però simpatico, può benissimo essere ammesso a lavorare in cucina o in mensa-agenti! Da notare anche la puerile distinzione tra mensa-agenti e cucina-detenuti. Se agenti e detenuti mangiano male è solo per quanto detto e non per come ha voluto far credere l'agente.
 
Lettera dell'agente P.B.

Rieducare il detenuto o penalizzarlo?

Da noi spesso è così, viviamo così male i nostri problemi che il tutto poi ricade su chi dobbiamo chiudere.

A quest'agente rivolgo solo una domanda: la tua coscienza ti dice nulla?
 
Altra lettera di un'agente:
 
"L'opinione pubblica"
L'opinione pubblica ignora completamente i problemi degli agenti penitenziari, mentre i giornalisti si accorgono che esistono solo quando qualche agente viene barbaramente ucciso dai terroristi o da un delinquente comune; oggi in realtà l'agente di custodia cerca di aiutare il detenuto, e non dimentichiamo che l'agente è un proleterio che si considera un lavoratore tra i lavoratori, e chiede solo una considerazione umana e più giusta. Per questo motivo la società deve aiutarci, come anche i politici, ad uscire dal ghetto in cui siamo relegati.

Mie riflessioni:
Quest'agente è tanto assuefatto dal suo trantran quotidiano che non si è mai preso la briga d'informarsi su cosa vuol dire delinquente, cioè: delinquente è colui che lo è stato "dichiarato" con apposita sentenza del tribunale penale, ma in quest'errore incorrono spesso in molti. Poi, chiede ai politici ed alla societa di farlo uscire dal ghetto in cui è stato relegato per tanti anni; per ghetto, si riferisce al carcere o al corpo a cui appartiene, e che per motto ha: VIGILANDO-REDIMERE ? Ma intanto, da buon proletario perché non và ad ingrossare le fila dei circa tre milioni di disoccupati, invece di sputare nel piatto che mangia e che poi tanto magro non è!?

In queste lettere ho cercato di leggerne qualcuna che parlasse dei pestaggi, per es: Settembre '81, denominato "Mercoledì nero" di cui allego l'articolo del quotidiano "Il Giorno".

Oppure: carcere di Sollicciano (FI) '81, Livorno, Pianosa, ecc. Non contando quelli mai denunciati, oppure quelli denunciati e passati in sordina; e visto che quest'agente si offende perché i politici non li considerano, voglio dirgli: quale considerazione ti aspetti da chi ti ordina di picchiare la carne di un proletario come te, e ai quali hai ubbidito nonostante nessun regolamento o principio civile ti ci obblighi?

Nel carcere di Mantova, dopo alcuni colloqui con i medici (in particolar modo, con il dott. Renato Bottura, l'infermiere volontario sig. Muti e il cappellano Don Mario Chittolina, mi resi conto che avevo a che fare con persone sensibilissime al problema carcere; in modo schietto mi chiesero se ero disposto a fare da martire facendo da traino agli altri detenuti, e cioè, smuoverli da quell'apatia che caratterizzava il carcere di Mantova, che oltre al corso professionale patrocinato dalla regione Lombardia, non offriva alcuna possibilità d'impegno nel lavoro, lo sport, o altre attività in genere, così come prevederebbe invece la riforma carceraria, già in vigore dal 1975.

All'interno del centro professionale esisteva una palestra cui però poteva accedere solo chi frequentava il corso, sei o sette persone; le altre novanta potevano oziare venti ore in cella e altre quattro ore in un cortile puzzolente. Già pochi giorni dopo essere arrivato nel carcere di Mantova, avevo chiesto ripetutamente con domandina, udienza al Direttore, per rendermi conto del perché il carcere venisse lasciato nelle condizioni in cui era, ma anche per proporgli di lasciarci organizzare un qualcosa che rendesse più vivibile il carcere; ma per due mesi e mezzo non ebbi risposta. Nel frattempo avevo avuto alcuni colloqui con l'educatrice alla quale avevo chiesto il perché non venissero organizzate alcune iniziative per rendere più vivibile il carcere. Non mi rispose altro che il carcere era piccolo e che le guardie erano insufficienti per seguirci in eventuali iniziative.

Il maresciallo (l'unica volta che ero riuscito a parlargli era stato quando mi ero segnato nella lista d'attesa per un posto di lavoro e per chiedergli una cella singola) mi disse per il posto di lavoro devi avere un po' di pazienza poi ti sistemo. Invece, per la cella, cercherò di accontentarti tra pochi giorni, sai...ci sono un paio di celle libere, però mi servono per quelli che rompono i c..., qui chi rompe i c... viene portato in quelle celle e fatto partire"; mi resi conto con chi avevo a che fare e perciò non abbiamo più parlato assieme.

Qualche anno dopo, questo maresciallo morì ucciso nella sala corse di Mantova, con un caricatore intero di proiettili che gli scaricò addosso un agente penitenziario che, dicevano i giornali, appariva esaurito. Io ho creduto a questa versione poiché era impossibile non esaurirsi con quel maresciallo Padre-Padrone.

Giunsi a Mantova, con la mia macchina da scrivere portatile, proveniente da altro carcere, ma dovetti mandarla a casa perché il maresciallo e l'educatrice mi dissero che assolutamente non era consentito; incontrato per caso in sezione il dott. Malagutti mentre distribuiva gli opuscoli della mostra "la punizione imperfetta" gli dissi: ma come, fate le mostre, ci invitate a partecipare e poi non ci consentite di tenere una macchina da scrivere? Mi disse, guarda, ti dò una dritta, lascia perdere il maresciallo e "cerca" di riuscire a parlare con il direttore che senz'altro te lo consentirà. Feci una domandina che senz'altro seguì le altre nel cestino. Durante uno spettacolo presentato da un gruppo di volontari che ebbe luogo dentro la chiesa, ebbi modo di parlare con il direttore, facendo in tempo a dirgli:" ho chiesto di conferire con Lei per chiedere l'autorizzazione a tenere in cella la macchina da scrivere"; mi disse: "davvero? La chiamerò alle prossime udienze che terrò, però è strano che non mi siano pervenute le sue domandine!? In seguito ho saputo che fra tutte le domandine con cui si chiedeva di conferire con il direttore, erano poche quelle che gli pervenivano, e, guarda caso, chi le visionava e autorizzava era il maresciallo. Mi resi conto che diventava difficile e perciò prerarai un esposto con tutte le firme dei detenuti contenente una relazione su tutti gli abusi e le disfunzioni. Lo preparai la sera del nove Giugno '87 e preparai anche un'istanza di trasferimento per avvicinamento a Milano, dove risiedevo con la mia famiglia. Il mattino seguente incaricai un detenuto volenteroso di far sottoscrivere da tutti l'esposto; intanto chiesi con udienza con il direttore: la ottenni subito! Gli feci prima leggere l'istanza di trasferimento. Dopo averla letta mi disse che dovevo consegnarla all'ufficio matricola (lo sapevo); gli dissi subito che avevo chiesto il trasferimento perché non sopportavo più di vivere alle condizioni in cui ci facevano vivere, e inoltre gli dissi che era assurdo che un detenuto dovesse attendere oltre due mesi per parlare con lui; mi disse: "Le assicuro che oltre a questa domandina, inoltrata da lei pochi giorni fa, non me ne sono pervenute altre. Comunque io, oltre a far sì che i detenuti vadano in permesso, non posso fare altro, mica posso restituirgliela io la libertà!". Gli risposi che sapevo benissimo che non era lui che poteva ridarci la libertà, ma che io ero andato da lui per esporgli tutta una serie di problemi che mortificavano i detenuti di quel carcere e quindi glieli elencai, avvisandolo anche che era pronto un esposto sottoscritto da tutti per inviarlo alla direzione generale degli istituti di prevenzione e pena nella persona del dott. Niccolò Amato.

Avevo ritenuto giusto e doveroso metterlo al corrente poiché, in verità, non c'era detenuto o agente che non ne parlasse bene. Siccome quel pomeriggio era prevista una conferenza medica presso la chiesa, gli chiesi di presenziare unitamente agli operatori penitenziari per darci delle risposte in merito alle disfunzioni; devo dire che accettò volentieri e mi promise che ci sarebbe stato. Uscito dal suo ufficio, entrai in sezione e ritirai dal ragazzo l'esposto già sottoscritto da tutti e, visto che l'educatrice stava tenendo le udienze, ne approffittai per farmi ricevere e le feci prendere visione dell'esposto. Mi disse subito che non era d'accordo con quello che stavo facendo e ciò che contestavo; mi limitai ad invitarla a partecipare alla conferenza e mi rispose di sì.



Esposto indirizzato al ministero di G. e G.

Dibattuto in assemblea presso l'istituto in data 10/06/87
presenti: il direttore, il maresciallo, i tre sanitari e l' educatrice. Mancavano le donne detenute.

I detenuti di Mantova espongono quanto segue alla S.V. confidando in un giusto intervento che porti anche in questo istituto, tutti i vantaggi derivanti dalla legge 663/86 del 10 ottobre.

Art. 1 - "trattamento e rieducazione", in questo istituto non è attuabile alcun trattamento rieducativo, perché non esistono le strutture "palestra, locali di ricreazione e di socializzazione e locali di lavoro" per lo svolgimento di attività in comune, come dagli articoli 5, 12 e 27 della succitata legge.
 
Art. 8 - "igiene personale", oltre a due rotoli di carta igienica e due
saponette mensili; null'altro viene fornito per l'igiene personale e delle celle.

Art. 9 - "alimentazione", esiste un menu standardizzato per tutte le settimane dell'anno e, a tutt'oggi, non è stata mai somministrata frutta fresca di stagione così come non si è mai visto il burro. Il vitto in bianco, nonostante i sanitari lo prescrivano ai soggetti bisognosi, è impossibile ottenerlo. In quanto alla rappresentanza dei detenuti per il controllo dell'applicazione, preparazione e somministrazione del vitto, pur eseguendo regolarmente i sorteggi, lo "spettro del trasferimento" sconsiglia chiunque a collaborare e perciò viene disertata sistematicamente.

Art. 11 - "servizio sanitario", nei confronti del soggetto affetto da malattia psichica non viene adottato alcun provvedimento che possa giovare alla sua salute.

Art. 20 - "lavoro", oltre ai rari posti di lavoro domestico, non esiste alcuna attività lavorativa. Pur se già menzionato l'art. 27, si fa presente che all'interno dell'istituto esiste una palestra attrezzata allestita dalla Regione Lombardia, ma a detta struttura vi possono accedere solo i circa dieci alunni detenuti che frequentano il corso di formazione professionale. Gli altri novanta detenuti devono arrangiarsi in circa duecento metri quadrati di cortile, con l'aggravante di respirare gli odori nauseabondi che emanano le fogne.

Art. 30- "PERMESSI PREMIO", si da atto al sig. Magistrato di sorveglianza di questo istituto dell'impegno che dimostra nel suo lavoro, ma i detenuti di Mantova desiderano anche l'applicazione dei molti artt. che formano la legge 663/86, per giungere al premio dell'art. 30 con dignità, coscienza e umanità.

Fiduciosi in una benevole considerazione di quanto esposto, i detenuti tutti sottoscrivono la presente e restato in attesa di un tempestivo intervento della S.V.

Mantova 10.06.1987
 
SEGUONO LE FIRME DI TUTTI

Il giorno dopo il dibattito, molti detenuti mi manifestarono la loro solidarietà. Uno specialmente mi aveva colpito. Era un ragazzo di ventiquattro anni, tossicomane, originario della Calabria ma trapiantato a Mantova da quattordici anni. Mi chiese se potevo impegnarlo in qualche iniziativa perché era disponibilissimo; gli chiesi cosa sapesse fare. Mi rispose...tutto! Gli dissi che era troppo. Gli chiesi quale fosse il suo mestiere, mi disse: carpentiere e scultore in legno. Chiestogli quando avrebbe finito di scontare la pena, mi rispose a settembre. Poi sarebbe dovuto tornare agli arresti domiciliari per scontare ancora due anni e due mesi. Se lo avessi impegnato in qualche attività, avrebbe rinunciato a tale beneficio. A me sembrò assurdo. Gliene chiesi perché e mi rispose che la noia lo uccideva. Difatti era già agli arresti domiciliari, ma dopo un breve periodo aveva sentito il bisogno di allontanarsi e dopo due ore l'arrestarono per evasione. Processato per direttissima "guadagnò" una condanna a quattro mesi di reclusione. Gli promisi che, se veramente voleva fare qualcosa per il carcere, avrei provveduto a dargli qualche impegno che avrebbe potuto svolgere stando agli arresti domiciliari. Chiestogli come mai si annoiasse tanto in famiglia, mi disse che per una sua scelta viveva da solo. Chiestogli anche se fosse un cronico del buco, mi disse che lo faceva saltuariaente per "divertimento".

Penso di avervi dato l'idea della nuova aria cne tira nel carcere di Mantova. Tutto ciò farebbe pensare che tutti i nostri problemi sarebbero stati risolti, ma la mia esperienza carceraria non mi faceva vedere affatto una situazione "rosea". Avrei scommesso dieci a uno che ci stessero preparando qualche sgambetto. Avrebbero trovato il sistema per smontarci o di farci trovare in difetto per giustificare un "giro di vite"; non pensavo che sarebbero stati disposti ad accettare un cambiamento radicale al loro più comodo trantran. Anche se avevo creato un certo consenso, la direzione, con le buone o con le cattive, avrebbe trovato il modo di allontanarmi dall'istituto. Allora gli sarebbe stato più facile spegnere ogni forma d'entusiasmo.

Anche l'umore degli agenti era cambiato. Si erano formate due fazioni, quelli favorevoli e quelli contrari al cambiamento; ma il guaio più grosso per noi era che il "mastino" fosse Sardo. Purtroppo i Sardi erano la maggioranza ed erano molto solidali tra loro. Inoltre avevano un odio sviscerato nei confronti del detenuto. Sarebbe quindi stata una lotta veramente dura. Sinceramente non temevo le conseguenze o le ripicche che avrei potuto subire ma, senz'altro, avrei sofferto per l'ennesima esperienza fallita; partendo, sarei arrivato in un altro istituto e avrei trovato gli stessi problemi a cui mi sarei dedicato con la stessa passione e, dopo i primi risultati positivi, sarei ripartito ancora. Sarà sempre così finchè i cittadini, le varie istituzioni e tutte le associazioni umanitarie non riusciranno ad ottenere l'apertura delle carceri nelle loro Città, finché non si convinceranno che, purtroppo, il carcere è una realtà sociale e che il detenuto, abbandonato a sé stesso e a trattamenti disumani, sarà egli stesso sempre più disumano. E' fuori di dubbio che ciò sarà sempre più a discapito dei detenuti, per quanto concerne la sofferenza, ma anche a discapito della società in quanto a costo finanziario ed al fattore sicurezza e civiltà. L'unico beneficio sarà per i pochi che gestiscono la sempre fiorente industria di "carne umana"!

E' bene, forse, sapere che il detenuto, anche se inventa i più disparati artifici per riconquistare la libertà (chi non lo farebbe?", non si aspetta encomii per le sue colpe, se colpa c'è stata; sa invece rassegnarsi ad espiare la pena ( è d'obbligo per non impazzire). In tutte le sue istanze, ha sempre e solo chiesto di poter espiare la pena conservando la sua dignità di persona.

Dopo l'esposto ed il conseguente dibattito nel carcere di Mantova, d'accordo con l' educatrice, avevamo stabilito di organizzarci volontariamente per sostenerla nelle attività previste dai suoi compiti.

Costituimmo il seguente gruppo:

Uno " SCRIVANO VOLONTARIO": per compilare domandine, istanze, e dare consigli o chiarimenti circa i vari problemi giudiziari e dell'amministrazione carceraria. Questo tipo di lavoro è importante in un istituto perche è moltissima la gente che non cura le sue cose per ignoranza, per esempio: quelli che si rivolgono all' educatore dovrebbero magari rivolgersi all' assistente sociale o all'équipe dei vololontari oppure al direttore, al maresciallo o all'ufficio matricola; praticamente, per un banale consiglio o chiarimento, si arriva a chiedere udienze con svariate persone addette, facendo loro perdere tempo prezioso e magari impedendo ad un altro detenuto di conferire per problemi più urgenti.

Un "BIBLIOTECARIO": sino a pochi anni fa, vi era un detenuto addetto e salariato. Poi il Ministero ha deIegato la cura della biblioteca all'ufficio educatori. Per questo motivo le biblioteche carcerarie sono andate allo sfacelo in un paio di anni. Il detenuto, preso coscienza del grave danno collettivo, si è impegnato volontariamente a ricatalogare e ad avere cura del carico e scarico dei libri.

Un "ADDETTO ALLA GUIDA DI UN GRUPPO TEATRALE E MUSICALE": per questo gruppo si chiese una sola musica con strumenti e di poter usare l'unica saletta disponibile dalle 13.00 alle 15.00 per le prove teatrali, (avevo già formato un gruppo teatrale di 6 elementi)

Un "ADDETTO ALLO SPORT" per tornei di calcio; palla a volo, ecc.

Un "ADDETTO ALLE ATTIVITA'" di socializzazione e ricreazione.

Chiesi anche al dott. Bottura di mettermi in contatto con qualche gruppo teatrale mantovano, mi dette l'indirizzo del maestro elementare Monizza Nazzareno del quale allego una lettera.
 
LETTERA DEL SIG. MONIZZA

Alle ore sedici del dieci Giugno '87 erano presenti tutti i detenuti (meno i lavoranti); intervennero il direttore, l'educatrice ed i tre sanitari che dovevano tenere la conferenza medica furono ben lieti di rinviarla per darci spazio. Consegnai una copia dell'esposto al direttore il quale lo lesse e prese la parola; rimase mortificato perché elogiavo il Magistrato di sorveglianza di Mantova poiché questi applicava la riforma carceraria (per quel che gli competeva), per esempio: i permessi premio e la possibilità di partecipare alle manifestazioni culturali esterne che interessavano i detenuti. Mi fece notare che il Magistrato di sorveglianza non avrebbe potuto svolgere il suo lavoro in senso positivo per noi senza la sua collaborazione. Questo era vero, si riferiva alla mancanza di strutture adeguate che io denunciavo nell'esposto, per affermare che le strutture invece vi erano poiché lui e gli operatori "sono struttura"! Gli dissi di non strumentalizzare un mio eventuale errore di definizione poiché sapeva benissimo a cosa mi riferivo, e cioè alla fatiscenza del carcere e alla mancanza di spazi, oltre che al lassismo degli operatori stessi e alla supremazia di un maresciallo su tutti i movimenti del carcere. Per soprassedere gli dissi che se gli avesse fatto piacere gli avrei anche potuto chiedere scusa, ma che però rimaneva il fatto che le...infrastrutture mancavano! Ci dette tutta una serie di spiegazioni e giustificazioni del tipo di chi sa di essere in difetto e che promette che provvederà a sanare le inadempienze. Ci propose anche di impegnarci noi stessi per il buon funzionamento del carcere. A questo punto mi sembrò ragionevole chiedere agli altri detenuti se erano d'accordo a tenere sospeso l'esposto per un lasso di tempo ragionevole per vedere se effettivamente lo stato delle cose sarebbe cambiato. Visto che in sostanza si cercava il dialogo e considerando che quel primo dibattito poteva essere interpretato come un segnale positivo, all'unanimità decidemmo di congelare l'esposto. Un fatto significativo avvenuto durante il dibattito fu il seguente: il direttore aveva contestato come non vero che le varie commissioni dei detenuti per il controllo del vitto venissero intimorite; al che un detenuto prese la parola e gli confermò che a lui personalmente era capitato e che poteva citare i nomi di altri detenuti che erano stati "impacchettati". Fu così che il direttore ci invitò a partecipare attivamente alla commissione che all'indomani si sarehbe costituita.

L'indomani, mentre ero in cortile ad oziare al sole, mi si avvicinò il maresciallo e mi chiese se volevo lavorare in cucina, gli dissi di sì e mi disse che mi avrebbe fatto sapere in seguito. Il giorno dopo mi chiamò nel suo ufficio e mi disse che già dal giorno seguente potevo cominciare a lavorare in cucina detenuti; l'agente addetto, che era presente, uscì insieme a me dall'ufficio del maresciallo. Appena fuori, con una ghignata mi disse: "ti farò scoppiare!" Io, allo stesso modo, gli dissi: devo scontare ancora tre anni, scommettiamo chi scoppia prima? Si riprese subito e mi disse che aveva scherzato, di rimando gli dissi subito che anch'io scherzavo!!

E' ovvio però che entrambi non scherzavamo! Il tredici Giugno (giorno del mio onomastico, iniziai a lavorare in cucina in qualità di aiutante cuoco; lo scandalo iniziò subito. Il ragazzo di commissione iniziò a pesare quasi tutta la merce che serviva per preparare i pasti; ho detto quasi poiché non c'era una bilancia adatta (bascula) per pesare grosse quantità, c'era solo una bilancia che pesava fino a cinque chili, quindi potevamo pesare solo il caffè, lo zucchero, la carne. Mancava un litro d'olio d'oliva su circa due litri che ce ne spettavano, dieci chili di pasta su circa ventiquattro chili, vi erano invece due chili di carne in più (pessima), però mancavano due chili di burro su due chili e mezzo, vitto in bianco non ne fu preparato, ma io non sapevo se vi erano delle prescrizioni. In cucina non v'è n'erano. Successe un fatto strano. Pur avendo lessato la carne, al momento di tagliare le porzioni da fare bollite, mi accorsi che ne mancava. Lo feci notare all'agente che mi rispose che la carne quando è bollita si restringe. Gli feci notare che la carne era ancora cruda quindi era chiaro che era stata fatta sparire prima. Mi fece credere che forse il ragazzo di commissione si era sbagliato nel pesarla. Ma non era vero, conoscevo la meticolosità del ragazzo. Era evidente che cercava di stancare la commissione (cioè l'unico ragazzo che c'era). Consigliai il ragazzo di stare attento a non cadere nelle provocazioni e di tenere duro visto che mancavano solo pochi giorni al termine del suo periodo di commissione, anche perché era evidente che da solo non poteva farcela a tenere testa a quel che io chiamavo "il mastino". Appena terminato il suo turno, sollecitai il nuovo sorteggio; ma credo sia utile raccontare un altro atto accaduto durante il breve periodo di commissione di questo ragazzo. Il giorno sedici Giugno, l'agente addetto era assente e lo sostituì un suo collega, (quel giorno anch'io ero di riposo). Il ragazzo di commissione, quel giorno, aveva accertato l'ammanco di sei chili e mezzo di fagioli su una quantità prevista di nove chili. Lo fece notare all'agente che lo fece presente al maresciallo. Il pomeriggio, alle ore sedici, il mastino prese servizio e volle parlarmi in privato.  Mi portò mille paragoni sulla sua personalità, dicendomi che era serio, onesto, e che non era un cretino, ma nello stesso tempo ci teneva a farmi sapere che il ragazzo di commissione avrebbe detto che erano i lavoranti della cucina ad istigarlo a controllare puntigliosamente ogni eventuale ammanco. Anche se era vero, la sua tattica voleva essere solo quella di metterci contro; ma era ovvio che lo capivo. Terminato quel concitato colloquio, gli dissi se mi poteva chiamare più tardi per parlare un po' da soli (in quel momento non eravamo da soli, c'erano altri agenti). Mi disse che non era possibile perché doveva montare di servizio in un altro posto. Io gli volevo chiedere perché temesse tanto la commissione visto che, così diceva, era onesto e serio. Dopo appena pochi minuti mi chiamò nel suo ufficio il maresciallo; nell'ufficio era presente lo stesso agente (il mastino) ed il brigadiere; il maresciallo iniziò subito a dirmi: "sai, devi capire che nove chili di fagioli sono troppi perché ne verrebbe fuori un calderone che poi si dovrebbe buttare e che sarebbe un vero peccato, però noi (lui) pretenderemo dall'impresa l'equivalente in altri prodotti che possono migliorare il menu. Io gli risrposi subito: il nocciolo della questione è proprio questo. Non solo non si vede mai l'equivalente, e che al limite non ci interesserebbe neanche, ma almeno quel poco che si consuma metteteci nelle condizioni di cucinarlo con un minimo di fantasia in più e con gli ingredienti necessari poiché noi cucinieri eravamo in grado di ovviare al vecchio e monotono menu. Se così fosse stato, forse, non si sarebbe più pretesa la presenza della commissione interna! Mi disse anche: "Santoiemma, io sono un figlio di... e anche se non entro in sezione so tutto quel che succede e chi è capace di portare avanti certi discorsi come questi. Non è un caso se ti ho messo a lavorare in cucina. Pur sapendo che non ne hai bisogno, ti ci ho messo apposta per farti rendere conto che io e tutte le guardie siamo onesti, sperando anche che con te in cucina tutto funzioni bene." Gli risposi che se la patata è la regina della cucina, noi non eravamo dei Mandrake che potevano moltiplicare la merce e per cui loro si dovevano solo preoccupare di farci arrivare il dovuto...in cucina! Per pochi giorni filò quasi tutto liscio, fu sorteggiata la nuova commissione che avrebbe iniziato il Lunedì successivo; infatti il Lunedì mattina alle ore otto e trenta, il mastino mi disse: "sai chi è di commissione?" Gli risposi di no!

E lui subito disse: "c'è anche quell'impestato di..."

Gli chiesi cosa volesse dire, ma mi rispose d'informarmi dall'infermiere (evidentemente se ne fregava del dovere professionale dell'infermiere!), gli dissi che non m'interessava... Appena arrivarono i tre di commissione, l'impestato (così lo chiamava lui), ciuffetto e Campu Marco. Diventò una belva, se avesse potuto incenerirli lo avrebbe fatto con sommo piacere. Non ricordo cosa mancasse, ma lui rimediò subito facendo notare che quello "era l'equivalente", una scatola di dadi! e ci disse pure che, pur non essendo previsti nella tabella Ministeriale, l'impresa gliela aveva data! I ragazzi della commissione riferirono all'educatrice questo particolare (poiché ella presiedeva la commissione stessa) e lei disse che lo avrebbe riferito al direttore.

Il giorno dopo, anzichè ventiquattro chili di bastoncini di pesce, ne giunsero circa dodici. La commissione pretese il resto facendolo presente anche all'educatrice, e così poco dopo ne portarono altri sei chili. Io, per non tirare troppo la corda, non brontolai.

Dopo pochi giorni Campu Marco uscì e solo il giorno dopo ho saputo dal ragazzo malato che il "mastino" il giorno prima gli aveva dato uno schiaffo fuori dalla cucina. Lo rimproverari per non avermelo detto subito, ma lui rispose che Campu aveva voluto così per non aggravare le cose. Il giorno dopo dissi all'ammalato (forse è meglio che lo chiami con un nome fittizio, d'ora in poi lo chiamerò Franco) e al ragazzo della precedente commissione (ciuffetto) che aveva rinunciato con apposita domandina al giudice di sorveglianza, o almeno così mi disse, se si sentivano di testimoniare davanti ad un tribunale quello stato di cose. Da prima torsero il naso, ma quando gli dissi che non eravamo soli nella battaglia e che mi sarei accollato eventuali spese legali, si convinsero ad accettare. Un giorno dopo, Franco, dopo un'ennesimo colloquio con l'educatrice, mi disse che lei stessa lo aveva consigliato di non tirare troppo la corda, almeno fino a che non fosse rientrato il direttore che era in ferie.

Praticamente Franco si ritrovò ad essere solo a fare da commissione per il controllo del vitto. Volle essere ammesso in commissione un certo Roberto Scovino (calabrese) in qualità di supplente, ma mancò poco che si azzuffasse con il "mastino"; il pomeriggio fu chiamato dal brigadiere e gli venne detto che non poteva essere ammesso alla commiscione finchè la rinuncia di Ciuffetto non fosse pervenuta al giudice di sorveglianza e che non avrebbe autorizzato lo Scovino (non è vero), altrimenti perché si sorteggia il supplente? E lo Scovino era supplente! A quel punto dissi a questi di disertare la commissione visto che non eravamo tutelati da eventuali blitz del maresciallo (infatti era in ferie anche il giudice di sorveglianza).

In quel breve periodo di mia permanenza in cucina, ottenemmo che stabilmente ci venisse fornito mezzo chilo di burro al giorno e invece delle solite mele ricevemmo delle pesche e più carote e patate che fino ad allora latitavano. Il mio particolare interesse in questa storia di appropriazione indebita o malversazione non sta nel fatto che qualcuno s'ingrassa a spese del detenuto, lo hanno sempre fatto e credo che lo faranno sempre, ma il modo subdolo con cui coltivano quecta tecnica.

Nel 1987 era concesso che il detenuto spendesse quattrocentottantamila lire al mese, oggi il tetto è salito a settecentocinquantamilalire e ci è concesso di cucinare in cella; però hanno limitato il peso dei pacchi dei familiari a cinque chili, questo poiché dicevano che i mafiosi ed i cammorristi organizzavano delle gran tavolate per fare proseliti. Oppure sostenevano che avvenivano dei taglieggiamenti nei confronti dei detenuti più deboli; dai giornali ho saputo di certi episodi, ma credo che sarebbe cosa utile sapere da dove i giornali traessero certe notizie. Ma ora cosa è successo?

Si continua a tenere un pessimo servizio di cucina e di conseguenza si obbliga a spendere molti soldi per integrare la scarsa alimentazione; da premettere però che non tutti sono nelle condizioni di spendere, chi può spendere comunque riesce ad alimentarsi discretamente, ma chi non può, è logico che deve arrangiarsi. E allora, hanno forse risolto il problema dell'assoggettamento o della ricerca di proseliti?

In pratica, con la limitazione della quantità di roba, che si può ricevere tramite il pacco e con l'aumento del tetto spendibile da parte del detenuto, si è ottenuto solo di triplicare il volume d'affari delle impresce del sopravvitto con la conseguente necessità di aumentare anche gli agenti degli uffici conti correnti e delle distribuzione della spesa (togliendoli da compiti più congeniali) impedendo inoltre lo svolgimento di altre attività più utili. Inoltre questo stato di cose crea la necessità per il detenuto di dover ricevere più soldi dalle famiglie. Quindi, maggiore spese per le famiglie ma anche maggiore volume di soldi da amministrare per l'amministrazione penitenziaria; infine, si dà anche la possibilità ai fiduciari delle impresce, di gestire gli acquisti extra; nel caso di Mantova, ho saputo che il fiduciario è un ex appuntato che aveva prestato servizio nello stesso carcere per venti anni. Dal leggittimo rifiuto a non mangiare il vitto scadente somministrato, l'amministrazione trae la giustificazione per non cucinare tutto ciò che è previsto e che viene fornito dal Ministero, perché è bene puntualizzare che il Ministero passa tutto quello che è previsto! Ed è anche importante che si sappia che il Ministero obbliga a cuocere tutta la fornitura giornaliera, al di là che si consumi o meno. Provate ad immaginare se tutto questo ben di Dio venisse riciclato o amministrato diversamente, quanto si potrebbe risparmiare o come si potrebbe mangiare meglio nelle carceri; e allora, chi è quel pazzo di detenuto che si preoccuperebbe di spendere i soldi e di cucinarsi per proprio conto? Basta fare il conto per sessanta nila detenuti per capire quale fiume di denaro serpeggia nelle carceri, a scapito dei detenuti, in spregio dei contribuenti, ed all'arricchimento illecito di pochi che, se ti permetti di chiamare ladri, il minimo che ti possa capitare è di vederti denunciare per calunnia ed oltraggio per aver offeso il decoro del corpo di Polizia penitenziaria o del singolo preposto che si sacrifica per gli acquisti dei detenuti. Soffro moltissimo nel notare quanti detenuti sono assuefatti a questo sistema, stanchi di lottare per i loro diritti, mettendo a priori che tanto, alla fine, ha sempre ragione l'amministrazione penitenziaria.

Se non posso biasimarli perché non hanno tutti i torti, mi amareggia molto quando mi dicono: ma veramente pensi di cambiare qualcosa? Il ventuno Giugno, abbiamo lavorato in cucina in tre, uno era di riposo; la guardia addetta era di riposo e perciò lo sostituiva un suo collega, un certo De Vico; abbiamo preparato due grosse teglie di pasta al forno di almeno venti chili cad., cotolette alla milanese e pomodori per contorno. E' successo un fatto increscioso; per poter tagliare correttamente le porzioni, mi sono servito di un coltello a spatola e di una palettina. Non so se l'agente di guardia si fosse accorto o meno, ma nel frattempo lui era andato a portare l'assaggio in direzione e noi tre cucinieri ci eravamo avviati in sezione per la distribuzione del vitto; alla porta d'ingresso alla sezione c'era l'agente Deidda che dovrebbe controllare anche con la perquisizione chi entra e chi esce dalla sezione. Invece con noi non lo fece e, seppure fosse vicino a noi, già all'atto dell'inizio della distribuzione, non ci fece notare nulla che non andasse. Finita la distribuzione e giunti alla porta di uscita della sezione, in modo vivace mi fece notare che ero in difetto, un pò come uno che ti dice:" finalmente ti ho cuccato!"

Mi contestò per aver portato il coltello dalla cucina, cosa che era vietata dal regolamento. Gli dissi che non sapevo che fosse vietato poiché in diciassette anni che frequentavo le carceri, non mi era mai stata consegnata una copia del regolamento, ma lui mi rispose che non gliene fregava di un bel niente e che perciò avrebbe scritto un "bel rapporto". Io gli risposi che essendo in buona fede la cosa non mi preoccupava e che poteva scrivere quel che voleva. Nel frattempo era giunto l'agente che era tornato dalla direzione, dove aveva portato l'assaggio. Resosi conto del comportamento del suo collega, ne rimase perplesso e preoccupato. Ci avviammo verso la cucina e dopo un paio di minuti giunse il brigadiere di servizio (capoposto) chiedendomi cosa avessi combinato; gli spiegai per bene l'accaduto e se ne andò subito, dicendomi: la. prossima volta taglia le lasagne in cucina. Io gli risposi: va bene, ho capito! Subito dopo sopraggiunse l'agente della cucina e mi disse: non preoccuparti e non pensarci più, è tutto a posto! Dopo una mezz'ora che ero in cortile a passeggiare, mi chiamò la stessa guardia che fece il rapporto, dicendomi che dovevo andare dal maresciallo. Giuntovi, fuori dalla porta dell'ufficio vi trovai il brigadiere e l'agente della cucina (non il "mastino", ma quello che lo sostituiva). Quest'ultimo, molto preoccupato, rimase fuori; entrammo io ed il brigadiere. Appena entrati, il maresciallo mi fece una lavata di testa che io giustificai perché effettivamente aveva ragione; se in sezione fosse accaduto qualcosa con il coltello, per lui sarebbero state grane serie.

Finito di sbraitare, gli chiesi la parola e me la conccecse, giustificai l'agente della cucina, (non aveva alcuna colpa) dicendo che non poteva accorgersi di quanto successo, poiché in cucina vi era trambusto. Comunque gli dissi che, se la guardia del rapporto, addetta al controllo della porta, avesse fatto il suo dovere con onestà, poteva avvisarmi subito che il coltello non era consentito portarlo in sezione, e non di farmelo prima portare per poi appiopparmi un rapporto.

Il maresciallo mi disse che aveva capito benissimo che la colpa era di questa guardia e che dopo c'è n'era anche per lui, ma che lui, il maresciallo, era sbirro e con le guardie doveva fare lo sbirro, mentre io dovevo fare il detenuto; praticamente, anche se una guardia era in difficoltà per avermi dato fiducia sul posto di lavoro, io non dovevo intervenire per attenuare la sua posizione.

Finito il colloquio con il maresciallo uscii. Fuori della porta c'era ancora l'agente con l'aria preoccupata, gli strizzai l'occhio per tranquillizzarlo e lui mi accennò un sorriso di gratitudine. Avviatomi al cancello posteriore del cortile, c'era ancora l'agente del rapporto; fischiettando lo ignorai completamente e quando stavo per attraversare il cancello che immetteva nel passeggio, mi disse: "il maresciallo ti ha chiamato per il coltello?- Io - Sì! - Cosa ti ha detto? - Mi ha interrogato! - Com'è finita? - No comment!!-

Mentre passeggiavo in cortile con un amico, l'agente della cucina che invece in quel momento era di sentinella sul muro di cinta, mi fischiava per attirare la mia attenzione; lo guardai e a gesti gli chiesi com'era finita per lui. Mi fece segno di O.K., e poi furente mi disse:" a quello gliela faccio pagare io!".  Dopo un po' incontrai la guardia della mensa agenti e mi disse che il suo collega aveva coinvolto anche lui, dicendo al maresciallo che era presente quando io usavo il coltello (invece risultava che a quell'ora, era di servizio sulla cinta).

Avevo già accennato che avevo presentato domanda di trasferimento proprio perché potevo subire repressioni, e infatti, nell'episodio appena raccontato si evidenzia la chiave di una tentata repressione:

1°) Su tre lavoranti che distribuivano il vitto, l'unico che si voleva colpire ero io.

2°) Io ho la qualifica di aiutante cuoco, mentre uno dei miei compagni ha la qualifica di cuoco e inoltre lavora da prima di me e quindi doveva essere più responsabile di me.

3° ) Penso che se il maresciallo non ha adottato dei provvedimenti disciplinari nei miei confronti, sarà stato per non coinvolgere gli altri due lavoranti e le due guardie.

Sono amareggiato per questo fatto, soprattutto per la reazione di uno dei miei compagni, il cuoco. E pensare che ero amico intimo del suo defunto Padre e perciò lo stimavo particolarmente. Rientrato in cella, per ridere un po' gli dissi:" sono stato denunciato per il fatto del coltello e forse perderò anche il posto di lavoro; ma visto che ti ho tenuto fuori, mi farebbe piacere se quando esci mi potrai pagare l'avvocato per questa causa". E lui, subito - e te lo devo pagare io l'avvocato?!

Purtroppo questo succede spesso tra i detenuti, ecco perché credo poco alle amicizie nate in carcere e sono più convinto che spesso si rivelano conoscenze "interessate" . Il ventisette Giugno, il suddetto "amico mio" ha ottenuto un permesso premio di cincue giorni pur avendo a fascicolo nove rapporti disciplinari ed una denuncia per lesioni ad un detenuto.

Anche un altro mio compagno di cella ha ottenuto un permesso di quindici giorni (lavora all'uff. conti correnti), nonostante sia stato riarrestato per tentato omicidio mentre era in semilibertà. Io, pur non avendo alcun rapporto, anzi ho ricevuto un encomio dal Ministero di G.G. per l'impegno dimostrato nelle attività culturali presso il carcere di Treviso, dopo quattro anni di detenzione, ancora non riesco ad ottenere un breve permesso, e addirittura sono già otto giorni che aspetto che mi consegnino la mia macchina da scrivere che è ferma un magazzino nonostante esista già l'autorizzazione del direttore; ad ogni mio sollecito in merito mi rispondono con una ghignatina o con scuse banali.

Il cinque Luglio '87, mi avvisarono che l'indomani dovevo partire perché era stata accettata la mia domanda di trasferimento (questo entro venti giorni, troppo presto!), non mi dissero dove andavo, ma particolarmente ridicolo fu quando mi dissero che dopo un po' mi avrebbero consegnato la mia macchina da scrivere e che potevo usarla tutti i giorni feriali presso la biblioteca, dalle ore tredici alle quindici.

Il giorno dopo partii alle otto e trenta del mattino, e solo all'uscita dal carcere seppi, dai carabinieri della scorta, che eravamo diretti a S.Vittore (MI) e che solo il Lunedì successivo sarei ripartito per il carcere di Como, dove ero stato assegnato, ma non mi dissero però, che prima di fare transito a S.Vittore avrei dovuto fare transito anche al carcere di Verona; quindi avrei dovuto fare transito in due carceri ed impiegare otto giorni per percorrere la distanza di duecento chilometri, non è forse assurdo?

Il carcere di Como, si chiama "il Bassone", è stato aperto verso il 1983 o 1984; si compone in sei sezioni maschili ed una femminile, c'è un reparto infermeria. Ogni sezione ha un passeggio che è di circa duecento metri quadri ed è asfaltato; eciste un campo di calcio che è di circa sessanta metri per venti, al quale si accede una o due volte la settimana in due squadre per volta per fare delle sfide tra sezioni.

Ogni sezione maschile è composta da venticinque celle singole, ma ormai, o perché lo hanno chiesto i detenuti (io no), o per necessità di posti, e quindi lo ha disposto la direzione, si è finito per farle diventare a due posti ciascuna, perciò, in pratica, nelle celle che originariamente furono progettate per una persona, ora ne vivono due, e così è per le sezioni che, progettate per venticinque persone, ora ne contengono cinquanta, quindi metà spazio e metà servizio di quanto ne fu previsto come necessario; questo ormai, a causa, dell'affollamento eccessivo in tutte le carceri, si può generalizzare per quasi tutti gli istituti italiani. Ogni sezione ha una sola sala doccia con quattro posti e vi si può accedere tre volte la settimana per due ore nel giorno che spetta, dalle ore otto e trenta alle dieci e trenta (sei ore per centocinquanta persone, vi lascio le considerazioni!

Il televisore, comandato dalla sala regia, lo si fa funzionare dalle ore tredici alle quattordici e dalle sedici sino alla fine dei programmi nazionali R.A.I., inoltre, tutte le sere viene inserito un film trasmesso dalle antenne libere, su richiesta della sezione. Il televisore è inserito in un vano inscatolato sopra la porta della cella, incassato al muro c'è un piccolo quadro comandi per far funzionare sia il televisore che le luci, vi è inoltre un altoparlante per l'ascolto dei messaggi di servizio inviati dalla sala regia.

Nelle celle il bagno è separato, è grande quanto la metà della cella stessa che è di circa nove metri quadri; gli accessori, water, bidè e lavandino sono tutti in acciaio; peccato che il bidè e quasi inservibile poiché il rubinetto è collocato in modo che impedisce di sedervicisi. Il vitto è abbastanza buono e adeguato alla stagione, peccato però che non vengono usati i carrelli termici che pure ci sono.

Il vitto in bianco viene servito, previa prescrizione medica, come pure la dieta lattea. Esiste una palestra ma non la si fa funzionare; esiste anche una lavanderia moderna, ma neanche questa la si fa funzionare preferendo mandare a lavare la biancheria del carcere all'esterno. Eppure quella lavanderia, facendola funzionare, sicuramente farebbe risparmiare all'amministrazione carceraria ed in più, offrirebbe sei o sette posti di lavoro ai detenuti cosa importante vista la carenza di posti di lavoro disponibili.

Il venti Luglio (1987), è stato affisso un avviso (circolare ministeriale), con la quale si avvisavano i detenuti che era possibile andare a lavorare, facendone richiesta scritta, nei seguenti luoghi: Mamone, Is - Arenas, Asinara (tutti e tre posti sono in Sardegna), e all'Isola di Pianosa (Toscana), sono tutte colonie agricole; i requisiti richiesti erano: pena residua definitiva inferiore ai cinque anni e buono stato di salute. Il ventisette luglio ebbi udienza con il maresciallo. Chiestogli il lavoro, mi disse che potevo andare in uno dei posti su menzionati; gli dissi che io mi trovavo a Como per mia volontà e scelta poiché ero residente a Milano e quindi non concepivo perché avrei dovuto trasferirmi in Sardegna solo per poter lavorare; candidamente mi rispose: "figlio mio, mica si può avere sempre tutto nella vita?!".

Gli chiesi di iscrivermi nella lista d'attesa interna sperando che quando fosse uscito un posto di lavoro me lo avrebbe assegnato. Il ventidue Agosto (1987) ho ricevuto l'avviso che in data ventidue Settembre ci sarebbe stata la discussione in camera di consiglio presso il tribunale di sorveglianza di Brescia, Presiediuta dal Dott. Zappa, per la concessione del beneficio della semilibertà; si sarebbe discussa a Brescia, perché l'istanza l'avevo inoltrata quando ero ancora a Mantova. Questo tipo di beneficio prevede un periodo di osservazione di tre mesi di "osservazione scientifica", che io avevo effettuato dal ventotto Marzo al ventotto Giugno; il tutto si risolve con colloqui che si svolgono con l'educatore, l'assistente sociale, lo psicologo ed inoltre attraverso la raccolta delle informazioni di carattere socio-familiare. A Como, salvo il colloquio avuto con lo psicologo da me richiesto, non ho avuto altri contatti con gli operatori penitenziari. A Mantova avevo svolto l'osservazione, ma se a Como mi ero preoccupato di richiedere un colloquio con gli operatori è poiché la normativa in merito prevede che la direzione dell'istituto nel quale si trova al momento il detenuto, alleghi una propria relazione per attestare la condotta dello stesso nell'ultimo periodo. Allo psicologo spiegai il perché avevo insistito per incontrarlo, e cioè per non incorrere nella "prassi del rinvio" per mancanza di relazioni. Questa della prassi del rinvio, o meglio, attorno a questo meccanismo, i tibunali di sorveglianza, come pure il magistrato di sorveglianza e non da meno gli operatori penitenziari, possono gestire la loro discrezionalità nel concedere o meno i benefici previsti dalla riforma carceraria; per esempio: io posso avere tutte le carte in regola per accedere ai benefici, ma se però sono "antipatico" e non mi si possono negare i benefici, ma però non mi si vogliono concedere, allora attraverso la prassi del rinvio per mancanza di relazione od altro, vedrò la mia pratica slittare di mesi anni senza poter reclamare. Con questo esempio, credo che abbiate compreso perché il detenuto si astiene dal denunciare gli abusi o soprusi che spesso subisce. Ed è per ovviare a ciò che spero si rendano operative da subito nuove regole e tempi per relazionare le osservazioni scientifiche occorrenti per accedere ai benefici e approntare delle valide forme di controllo sull'operato degli operatori penitenziari da cui dipende spesso, anche l'esistenza di una persona e della sua famiglia.

Nel carcere di Como, a differenza di tante altre carceri, è consentito consumare con i familiari caffè, bibite, e dolci, inoltre, la sala colloqui, a parte il fastidioso bancone divisorio, è molto vasta, illuminata ed arieggiata; sembra poco rilevante ma invece è molto importante per lo svolgimento di un colloquio specialmente quando vi sono familiari anziani o bambini.

Quando ero a Mantova, tramite Don Mario Chiottolina, avevo contattato una giornalista, la signora Alberta Sereni, che partecipava in modo volontario all'edizione di una rivista mensile "MANTOVA MESE" che voleva essere una rivista sperimentale dell'ex-P.C.I.

La signora Sereni, per venire a trovarmi, inoltrò una domanda al magistrato di sorveglianza di Mantova; ci volle circa un mese rer il rilascio del permesso e, ironia della sorte, venne a trovarmi proprio il giorno in cui avevo scritto l'esposto. C'incontrammo nella sala colloqui ed essendo il primo incontro, sfruttammo l'ora concessaci per conscerci e programmare il lavoro che ci interessava svolgere. In seguito gli feci recapitare i miei appunti di modo che al prossimo incontro che ci doveva essere, avremmo potuto concordare i punti che più avremmo ritenuto significativi e opportuno trattare nella rivista.

Nel primo incontro mi fece solo una domanda, e cioè: se ritengo che il carcere sia utile alla società per specchiarvicisi.

Gli risposi: penso che il carcere debba esistere perché è inevitabile che si commettano reati, ma che però può esistere un carcere più umano e rieducativo.

In quanto allo specchio, penso che una persona sana, bella, e sicura di sé non senta il bisogno di specchiarvicisi; credo che di solito siano i brutti che sentono il bisogno di specchiarvicisi!

In quell'incontro, la signora Sereni mi dette una copia del secondo numero della rivista; al mio rientro in cella, notai che la rivista era promossa dal P.C.I. e pensai subito: vuoi vedere che è solo una trovata pubblicitaria in vista delle elezioni?

Quando gli feci recapitare gli appunti, gli esternai questo mio dubbio, ma lei mi rispose subito dicendomi che seppure era leggittimo il mio dubbio, in questo caso non era così, era veramente il desiderio del P.C.I. di dare uno spazio ai problemi sociali i quali spesso vengono ignorati dalla stampa tradizionale.

Da Como le scrissi per informarla che ero stato trasferito ma che ero sempre intenzionato a continuare nel mio impegno preso con la rivista.

Mi rispose ubito ma per dirmi con rammarico che, purtroppo, l'esperimento con la rivista era fallito perché il solo impegno del volontariato non bastava. Occorreva un sostegno finanziario che però il partito non intendeva concedere, quindi unanimamente decisero di ritenere chiuso l'esperimento, anche se con molto rammarico.

O.P.G. (ospedali psichiatrici giudiziari)
Come una discussione qualsiasi, oggi, tra noi detenuti, si è parlato degli O.P.G. Si è discusso del modo avveniristico con cui viene gestito quello di Castiglione delle Stiviere, del modo discreto di Pozzo di Gotto e di Aversa; ma quando ci siamo soffermati su quello di Montelupo fiorentino e quello di Reggio Emilia, ad un certo punto ci è sembrato che stessimo raccontando una favola degli orrori.

Basti pensare che, spesso i medici penitenziari evitano di sottoporre i detenuti a perizie psichiatriche proprio per evitargli delle gratuite e dannose atrocità che aggraverrebbero, anzichè aiutare, il malato. Mi piacerebbe sapere perché si lasciano ancora in funzione questi due inferni e come mai, con tutti i pretori coraggiosi che abbiamo in Italia capaci di bloccare su tutto il territorio nazionale, in poche ore, la vendita del tal formaggino, non hanno mai ordinato un blitz all'indirizzo di queste case di cura, scusate...inferni!

Ho appena saputo che il carcere di Mantova, avendo una forza detenuti di ottanta/cento presenze giornaliere, ha un'uscita annua di cinque miliardi (esclusi gli stipendi di tutto il personale). Nell'anno 86/87, solo per restauri c'è stata una spesa di due miliardi. Praticamente, un anno di gestione mediocre è costato sette miliardi, mi viene da piangere! E non è forse questo un buon motivo per far credere all'opinione pubblica che nelle carceri ci sono i diavoli? O meglio, i poveri diavoli?!

E' evidente che per l'opinione pubblica è anche "conveniente" in termini finanziari interessarsi delle carceri. Io so bene che non sarà facile sfatare questo brutto mito, lo deduco dal fatto che già non si riesce a controllare gli ospedali, i ricoveri per gli anziani, gli orfanatrofi, gli ostelli per i giovani e gli studenti, ecc. Figuriamoci se si può risolvere il problema delle carceri. Se io stesso mi lasciassi sopraffare da questa considerazione, non nascondo che dovrei cestinare senza indugi questi fogli, invece no, grazie a Dio, che sempre invoco per darmi la forza ed il coraggio di perseverare in questo mio credo, non cestino niente. Pur non avendo una lira, se sarà il caso, elemosinerò i soldi che mi serviranno per stampare questa testimonianza che è una realta incivile per un Paese che ha tutte le carte in regola per definirsi civile, umano e solidale, nonostante alcuni corrotti e corruttori lo facciano apparire il contrario.

PESTAGGIO A S.VITTORE

Il Giorno
"MERCOLEDI' NERO 1981"
La notte violenta a San Vittore
Fuori causa l'unico accusato di pestaggi
La guardia Piredda è stata assolta

(P.C.) Assolto per insufficienza di prove. Anche l'ex brigadiere Stefano Piredda non pagherà per il sanguinoso pestaggio avvenuto a San Vittore sei anni fa. Lo ha stabilito la sentenza emessa ieri mattina dalla sesta sezione del tribunale, che ha mandato libero l'ultimo imputato di questa scabrosa vicenda, accusato di violenza privata. Uno degli episodi più bui della cronaca carceraria milanese, venuto alla luce grazie alle denunce dei familiari dei detenuti, si è concluso così, senza nessun colpevole. Successe la notte del 22 settembre del 1981, tre giorni dopo l'omicidio del brigadiere di San Vittore Francesco Rucci, ucciso da un commando dei Colp. Durante un trasferimento dal carcere di piazza Filangieri, 120 detenuti vennero selvaggiamente picchiati per ritorsione da un centinaio di agenti tra guardie di custodia e allievi della scuola di Cairo Montenotte. Dopo le indagini dei magistrati, vennero rinviati a giudizio l'ex direttore di San Vittore Luigi Dotto, per omessa denuncia all'autorità giudiziaria del pestaggio, il medico del penitenziario, Alfredo Fontana, per omesso soccorso e assistenza ai detenuti feriti, il responsabile delle guardie di San Vittore, quello regionale e il comandante della scuola allievi di Cairo Montenotte assieme ad altri 22 agenti per lesioni e percosse con l'aggravante della premeditazione.

Nessuno di loro però venne mai giudicato per intervenuta amnistia. Davanti al tribunale è finito solo Piredda, forse il meno coinvolto in quello che successe; il suo reato, violenza privata, non ricadeva nell'amnistia.

Vi avevo accennato del triste pestaggio avvenuto a S.Vittore nel Settembre 1981 a danno dei detenuti. Oggi, sul quotidiano "Il Giorno", ho letto l'articolo che è riportato qui sopra. Per quest pestaggio, non sono state poche le personalità politiche che si sono interessate, eppure, guardate come è andata a finire. Dopodichè, provate ad immaginare che rilevanza può avere la protesta di un singolo o di uno sparuto gruppetto.

E i pestaggi sistematici avvenuti nel carcere di Solliciano (FI)?

Dimostrarono una ferocia inaudita; mi raccontò un ragazzo barese che nel carcere di Bari, nel 1981, fu affisso un avviso nelle bacheche delle sezioni, il quale avvisava che chiunque volesse essere trasferito nella nuova ed accogliente casa circondariale di Solliciano, non aveva da fare altro che una semplice domanda, il carcere di Bari era affollato e perciò furono molte le richieste e molte quelle accolte. fu approntato un trasferimento di massa con l'uso di molti pulmann, tutti erano felici di andare a stare meglio. Giunti all'interno del nuovo carcere, non appena scesi dai pulmann, si trovarono in mezzo a due ali di agenti del penitenziario che non persero tempo a "caricarli". Un detenuto aveva la cuffia dello stereo alle orecchie, i primi due ceffoni che ricevette gli ruppero i timpani, molti altri subirono delle menomazioni, ci furono delle denunce da parte di autorità locali e perciò vi fu un'inchiesta che portò anche all'arresto di alcuni agenti. Il processo, che ci fu (mi pare) nel 1986, non fu diverso da quello di Milano che, in pratica leggittimava l'uso di tali metodi che sicuramente sono più pratici e meno impegnativi per fare accettare lo stato di supremazia del potere interno ad un carcere. Non è stato diverso per Opera (MI), Busto Arsizio (VA), Avellino e Livorno.

Leggendo l'articolo apparso sulla Gazzetta di Mantova che riguardava il dibattito di cui vi ho già parlato nelle pagine precedenti, notai quello di Matteo Spadini, qui sotto, e mi proposi di parlargli il giorno dopo.

Articolo di Matteo Spadini
 
DOMANDE Dl UN TOSSICODIPENDENTE

Signor direttore, mi chiamo Matteo Spadini, avete pubblicato la settimana scorsa una mia lettera intitolata da voi «Riflessioni di un tossicodipendente» e vi ringrazio. Ora però vorrei fare alcune domande, sempre parlando di tossicodipendenza. Cos'è la prevenzione? Ci sono centri per la prevenzione a Mantova? I centri che ci sono, sono operativi e danno risultati o come al solito sono mangiasoldi? C'è qualcuno che controlla questi centri o si lasciano andare come tira il vento? Ci sono persone qualificate oppure persone a caccia di un lavoro? Come mai a Mantova non si toccano quasi mai questi argomenti: paura, bigottismo o semplice menefreghismo? I mantovani sanno quanti drogati ci sono nella loro città, o per saperlo e fare qualcosa aspettano di averne uno in casa?

Ecco queste sono le domande che io mi chiedo e a volte provo a rispondere. Per esempio, prevenzione dove viene fatta nelle scuole a bambini, non è forse meglio parlarne a genitori, sono loro che crescono un figlio. C'è ancora gente che pensa che davanti alle scuole si vendono caramelle drogate, è vero. Ma chi le prende lo fa per compensarsi di qualcosa che manca, a scuola o in compagnia e chi gli sta vicino non preparato, non se ne è accorto, non parlo di cose materiali.

Tempo fa avrei voluto quelle cose che mi sono mancate e le ho cercate in posti facili.

Ho 2 nipotini non vorrei mai doverli vedere in piazza a comprare droga. Vorrei che qualcuno rispondesse a queste mie domande e magari insieme fare qualcosa.
 
Matteo Spadini

Il giorno dopo ho parlato con Matteo Spadini. L'ho trovato un ragazzo molto intelligente e preparato sui problemi della tossicodipendenza. Infatti, lui stesso, dopo aver trascorso un periodo in una comunità di Reggio Emilia, vi rimase ancora tre anni in qualità di operatore volontario per essere d'aiuto ai suoi compagni di sventura; dopo tale periodo, preferì allontanarsi perché le abitudini che lui manteneva (fuorché la droga) non erano coerenti con ciò che insegnava.

Ritornò a Mantova presso la sua famiglia, ma avendo cercato invano un posto di lavoro e di conseguenza subendo anche delle umiliazioni da parte dei propri genitori che gli rinfacciavano il mantenimento, decise di darsi nuovamente al furto e conseguentemente si ritrovò nel suo giro, morale: ricominciò a drogarsi!

Fu condannato a tre anni e mezzo per rapina, purtroppo è siero positivo in stato avanzato e secondo delle indiscrezioni che ho percepito avrebbe pochi mesi di vita; lui non lo sa, e siccome il tribunale gli ha detto che se trova un posto in comunità è disponibile ad inviarcelo. Lui sta interessandosi nel cercarne uno, ma, purtroppo nessuna comunità è disposta ad accettarlo essendo ad una fase terminale della malattia. Senz'altro sarà dimesso dal carcere solo quando l'ultimo referto medico attesterà con esattezza quanto gli rimarrà da vivere. Gli ho chiesto se vuole scrivere qualcosa attraverso il mensile "Mantova mese", è d'accordo e mi ha promesso che lo farà dopo la discussione del processo di appello che si svolgerà a giorni, intanto, insieme abbiamo preparato una scaletta dei tanti punti di lavoro, per cui ci sarà da scrivere molto. Matteo ha un cugino insegnante nelle scuole medie a Mantova, questo particolare mi ha suggerito di chiedergli aiuto per divulgare questa pubblicazione nelle scuole medie, visto che questo è il mio desiderio. Il cugino di Matteo ci ha fatto sapere che è disposto anche a collaborare alla stesura di questo testo. Siccome questo tipo d'aiuto lo avevo chiesto anche alla giornalista, signora Alberta Sereni, ho fatto sapere al cugino di Matteo di mettersi d'accordo tra loro sul tipo di lavoro da svolgere e quindi di organizzare un colloquio tra noi quattro. Purtroppo sono stato trasferito e causa il periodo estivo non ho ancora ricevuto loro notizie.

Ho scritto ad Alberta Sereni per dirgli che mi trovo a Como e gli ho chiesto se viene a trovarmi per continuare il lavoro appena iniziato, ma mi scriverà in merito dicendomi che, purtroppo, essendo fallito l'esperimento della rivista, sarebbe un lavoro inutile poiché non si potrebbe pubblicare. Neanche da Matteo Spadini e da suo cugino ho ricevuto più notizie, ma questo è normale quando non si è a gomito per trattare certi argomenti.

Durante la mia "osservazione scientifica" che si svolse a Mantova, in un colloguio con l'assistente sociale, costei mi fece notare che, a parere suo, io ero troppo polemico con le istituzioni; in un certo senso era anche vero, perciò mi limitai a dirle grosso modo quali erano, secondo me, le mie ragioni, e cioè, in sintesi, la latitanza dello stato per quel che mi riguarda, già dal 1966, anno in cui morì mio Padre e mia Madre rimase vedova con sette figli.

Conunque, la sua annotazione fu per me motivo di riflessione, e dalle mie riflessioni ne venne fuori questa poesia:
 
" SIGNORA SOCIETA' "
 
Quand'ero bambino e non c'era niente da mangiare,
sentivo sempre mia Madre irritata che diceva:
" è colpa della società, mannaggia qua e mannaggia là ";
Anch'io, guardandola in faccia ( e pur non sapendo)
gli davo ragione dicendo:
è colpa della società, mannaggia qua e mannaggia là;
son cresciuto senza scuola, lavorando già da piccolo,
e quando per far fortuna immigrai a Milano, finii in galera come...
            un fesso!

Anche lì sentivo imprecare i carcerati che dicevano: " è colpa della società, mannaggia qua e mannaggia là. Uscito dal carcere partii per militare senza il vaglia di Mammà, per far soldi accadde che fuggii e mi arrestarono di nuovo, da allora, ne ho fatta tanta di galera, e sempre sentendo: è colpa della società, mannaggia qua e mannaggia là, ma mica ho capito mai chi fosse questa signora società?! Un giorno, dopo una festa in carcere, il direttore disse: ringraziamo la signora società per averci donato quest'attimo di felicità, e non vedendo alzarsi nessuna signora che si chiamasse società, io mi dissi: ma allora questa è la signora società, io, tu, tutti noi siamo la società; allora forza, facciamo anche noi qualcosa per questa società, non facciamola morire!

Mantova 16.05.87

(ricapitolo del trasferimento da Mantova a Como)

Partii da Mantova a Como, alle otto del mattino su di in furgone blindato dei carabinieri; verso le nove e trenta giungemmo a Verona per fare transito, fui perquisito nudo e dovetti eseguire un paio di genuflessioni. Perquisirono anche la poca biancheria che doveva servirmi per soggiornare i tre giorni previsti, lasciai il restante bagaglio al magazzino e si trattennero la collanina che custodirono in cassaforte. Chiestogli in quale camerone si trovasse un mio amico, me lo dissero e quindi chiesi ed ottenni di essere assegnato con lui, vi trovai anche altri due amici; aggiungemmo un'altra branda a castello e vi trascorsi i tre giorni previsti.

Con il solito furgone, alle sette e trenta del terzo giorno, lasciammo il carcere per giungere dopo quindici minuti alla stazione. Il treno per Milano era in ritardo di mezz'ora e quindi mi lasciarono nella celletta del furgone dove vi era un caldo tremendo, saranno stati almeno cinquanta gradi all'interno della celletta. All'orario previsto scendemmo dal furgone e ci avviammo al marciapiedi dove giungeva il treno; fu annunciato un'ulteriore ritardo di quindici minuti, a quel punto feci notare al caposcorta che mi sembrava al quanto imbarazz ante restare sul marciapiedi con gli zaini addosso, i ferri ai polsi e madido di sudore, se non altro per la dignità della persona. Egli arrossì vistosamente ma non rispose; un altro carabiniere della scorta mi disse: Santoiemma, esistono due categorie di carabinieri, lui, il caposcorta, appartiene a quella...!

Alle dieci e trenta giungemmo alla stazione di Milano e scendemmo in cinque detenuti, sempre con gli zaini addosso ed i ferri ai polsi dovemmo percorrere almeno trecento metri a piedi sino ad un'uscita secondaria dove ci attendeva un pulmann che ci portò a S.Vittore.

Alle dieci e quarantacinque vi giungemmo, alle dodici avevano finito di perquisirci (nudi e flessioni), con la poca roba da portarci in sezione. Tra una sala d'attesa e l'altra (rimanendo digiuni) siamo arrivati in sezione alle diciasette e trenta; ma bisogna dire che ad altri va ancora peggio.

Pur essendo di Milano (residente), non mi fu consentito di effettuare un colloquio con i miei familiari (non è consentito ai transitanti), e pensare che ai miei bastava mezz'ora per venire al carcere per visitarmi. Sono ripartito per Como il Lunedì successivo, ma prima voglio raccontarvi tre episodi avvenuti, il primo alla stazione di Milano, il secondo all'ufficio matricola di S.Vittore, ed il terzo nel terzo raggio (così si chiamano le sezioni a S.Vittore) dove transitai.

Il primo capitò proprio alla stazione di Milano.

Un detenuto giunto con lo stesso treno proveniente da Padova, via Verona-Milano; aveva circa cinquantanni, doveva essere ricoverato al centro clinico all'interno di S.Vittore per essere operato per un'ernia all'inguine giunta ad una fase acuta. Eppure lo fecero viaggiare allo stesso modo di chi non aveva problemi di salute. Lo aiutammo noi altri a trasportare i suoi bagagli perché non ce la poteva fare. E pensare però che pochi giorni prima di quel viaggio, era stato in permesso premio ed era rientrato regolarmente; perciò, quale esigenza di sicurezza giustificava quel disumano viaggio? Non gli si poteva concedere un permesso ad horas che gli permettesse di viaggiare comodamente e civilmente, obbligandolo a presentarsi al carcere? Il secondo fatto pietoso, successe presso l'uff. matricola; uno dei detenuti giunti con me, proveniente da Treviso, dimostrava chiararnente dei disturbi psichici e comunque era stato ammesso al regime della semilibertà (di giorno si lavora all'esterno e di notte si dorme in carcere), ero contento per lui che usciva, ma francamente non riuscivo a concepire quale attività potesse svolgere con il suo stato di salute. Al momento della registrazione, il brigadiere addetto, accortosi della psicolabilità di quella persona, lo scherniva con fare ironico, poi lo assegnò al centro clinico dove lo accompagnò un infermiere. Questo episodio è motivo per esporvi un paradosso: la persona di cui sopra, anzichè curarla, l'hanno tenuta detenuta in una casa penale (carceri o sezioni solo per detenuti con pene definitive) per oltre un anno, senza prestargli alcuna cura particolare che forse era d'uopo.

Invece, un detenuto, che si trovava a Como e che finiva la sua pena da lì a pochi mesi e che non ha mai dato segni di squilibrio mentale, poiché otto anni prima era stato condannato per rapina e lesioni, sarà sottoposto, a fine pena, ad un'osservazione pcichiatrica della durata di sei mesi, che si svolgerà presso un O.P.G. Tale tipo di procedimento (l'osservazione psichiatrica) è previsto dal codice penale, in applicazione automatica quale conseguenza al tipo di reato, senza tener conto se il soggetto veramente sia da sottoporvi, o meno. Nel caso che veramente si voglia o si debba applicare tale misura, credo con il solo fine della tutela della collettività, perché non si sottopone subito il soggetto ad osservazione e nel caso risulti che necessiti di cure, allora, perché non curarlo subito, ma anche commisurare la pena in modo adeguato alle reali condizioni di salute? In questo modo, si eviterebbe di aggredirlo con la carcerazione prima e con l'O.P.G. dopo. Qual'è il senso? Ora, dopo otto anni di carcere, anzichè assaporare il gusto della prossima libertà, sta vivendo l'angoscia del suo prossimo ingresso in un O.P.G. perché sa cosa vuol dire.

Il terzo episodio è quello vissuto durante il transito di quattro giorni a S. Vittore, presso il terzo raggio. Fui assegnato in una cella dove vi erano due miei amici giovani ed un vecchietto di settantacinque anni, era piccolo, minuto ma molto vispo e con un appettito eccezionale. Mi fece molta tenerezza a vederlo in cella, però avevo visto con quanta cura era vezzeggiato dai miei amici e da tutti in sezione. Questo in un certo qual modo attenuò il mio disappunto.

Conoscendo le recenti agevolazioni previste dalla nuova riforma del 1986, legge Gozzini, che prevede agevolazioni per i detenuti minori, anziani, malati e tossicodipendenti; mi sembrò assurdo vedere quel vecchietto in cella e mi chiesi, cosa avrà combinato? Gli chiesi: nonno, ma quante persone avete ammazzato? Lui, con un sorriso ma anche con gli occhi umettati di lacrime, mi disse: figlio mio, ma alla mia età chi mai potrei ammazzare, io, che non ho mai ammazzato neanche una mosca per rispetto della vita altrui? Ho rubato in un supermarket - riprese - sai, con la pensione che mi danno, o mangio o pago l'affitto e allora, per non finire in mezzo ad una strada pago l'affitto e per mangiare mi.. arrangio. Proprio così disse, mi arrangio! Pensate, il pretore, lo aveva condannato a quindici giorni di prigione che, senza la nostra solidarietà, poteva essere molto più amara di quanto già fosse; è perciò che io dico all'amministrazione penitenziaria: non lo si poteva assegnare almeno al reparto infermeria? Alle autorità giudiziarie (il pretore), non lo potevate condannare lo stesso, ma almeno concedergli gli arresti domiciliari? Allo Stato: proprio non si può dare una pensione che permetta a questi vecchietti di vivere dignitosamente?

Torniamo alla partenza da S.Vittore per il carcere di Como. Partimmo in quattro, due uomini e due donne, divisi in due cellette del solito furgone blindato. Giungemmo al carcere di Como a mezzogiorno circa (quindi voleva dire che si sarebbe saltato il pranzo!). Vi fu la solita perquisizione personale e della biancheria e degli effetti personali, mi trattenero un po' di roba che in altri istituti, forse, sarebbe stata consentita. Esempio: una piccola spillatrice, del profumo, una tratto clip, delle cartellette con minuscoli ganci, un accendino placcato in oro, marca Dunhill ed addirittua una collanina con il crocifisso in oro, di non rilevante valore; per caso si trovò a passare di lì il comandante degli agenti e quindi potei contestare subito il sequestro di quanto detto, egli capì e mi fece restituire subito il tutto. Gli agenti mi restituirono di buon grado le cose, però, quando il comandante era andato via, giustamente, si lamentarono tra loro dicendo: se non l'avessimo trattenuta quella roba, ci avrebbe fatto un bel rapporto disciplinare, e allora, come ci si deve comportare? Sembriamo un'armata Brancaleone!!

IL PROBLEMA DEI SOGGIORNATI



"Il Giorno" 31-07-87
Monzuno si ribella all'arrivo del sorvegliato speciale
"Confinato" nello stadio l'ospite in odore di mafia
"Niente soldi per pagargli l'albergo" dice il sindaco

BOLOGNA, 31 luglio - (C.V.) "Sciopero bianco" dei sindaci dell'Appennino emiliano. Protestano
perché continua, inesorabile, l'invio da queste parti, in soggiorno obbligato, di personaggi «in odore di delinquenza organizzata» e cercheranno in ogni modo di opporre una "resistenza passiva". A incominciare è il sindaco di Monzuno, Giancarlo Marchi, comunista: ha alloggiato il confinato nello spogliatoio dello stadio comunale.

Il dossier che i sindaci hanno raccolto è imponente: molti dei soggiornanti si sono trasformati in "importatori" di racket, droga, mafia, camorra. A Monzuno è arrivato Diego Rosmini, 32 anni, di Reggio Calabria. I giudici lo ritengono vicino alla 'ndrangheta e quindi lo hanno allontanato dalla zona di residenza. Ma appena al sindaco di Monzuno è arrivato il dispaccio di assegnazione, c'è stata una manifestazione in piazza. E poi la decisione clamorosa: Ce lo mandano per forza? E allora lo alloggiamo allo stadio, negli spogliatoi. E cosi è stato. Quando Rosmini si è presentato, l'usciere comunale l'ha accompagnato in questo singolare alloggio. Aggiunge il sindaco: "Ci sono i servizi igienici, c'è la doccia, abbiamo messo una branda...".

Diego Rosmini commenta: "Va bene così. Ma qui non ci sono voluto venire io e quindi lo Stato dovrebbe anche assicurarmi una migliore ospitalità". Per ora Rosmini si aggira, sperduto, per la cittadina. Anche in consiglio comunale hanno parlato di lui: all'unanimità è stato votato un ordine del giorno di protesta. - Dovrebbe restare qui tre anni - dice il sindaco - Ma a spese di chi? Non abbiamo neanche i soldi per l'acquedotto, figuriamoci se possiamo pagargli le spese d'albergo o privarci di uno dei pochi locali pubblici -. L'anno scorso a Monzuno arrivò un altro calabrese. Un bel giorno disse che doveva andare a Catanzaro per un processo. Invece arrivarono poi i carabinieri: era scappato. E qualcuno si chiede se non sia ancora nella zona.



Appena letto quest'articolo, ho pensato subito che anche il Ministro di G. e G. Italiano avesse pensato di aprire con quel "simpaticone dell'Ayatollà Komeini quando un anno fa fece rastrellare tutti i tossicomani Iraniani e li fece chiudere nello stadio per risolvere il problema dei drogati; in effetti, non è che la prefettura di Reggio Calabria non abbia risolto un problema, anzi. Però, il problema non è risolto, e stato solo spostato di...residenza.

Sicuramente non è vero che il comune di Monzuno non abbia i soldi per sostenere il sig. Diego Rosmini per il periodo di tre anni, però capisco benissimo la ribellione del Sindaco. Non lo capirei se lo Stato mantenesse un soggiornato, o se lo mettesse in condizioni serie di poter lavorare e sostenerlo anche moralmente, consentendogli di potersi sistemare con la famiglia in quel paese, non c'è una legge che lo proibisca. Tuttavia si può farlo solo se si hanno le possibilità finanziarie per sostenere il trasferimento dell'intero nucleo familiare, ma quanti soggiornati hanno questa possibilità? E inoltre, sradicare dalla propria terra un nucleo familiare, non costa niente?

E' vero che un soggiornato vìstosi solo e abbandonato a se stesso, e inoltre costretto a vivere in un ambiente ostile, il minimo che potrà fare sarà di scappare via pur sapendo che rischia una pena da uno a cinque anni di reclusione per aver infranto gli obblighi; ma in realtà, è lui che commette un reato o è lo Stato che dovrebbe essere giudicato per istigazione?

L'articolo di questo giornale mi ha colpito sopratutto perché si parla di un uomo "confinato" in uno stadio, però, vorrei che si pensasse anche a quelle centinaia o migliaia di persone "confinate" in abbaini, scuole, cantine, ripostigli, ecc. che finiscono il loro periodo di confinato, solo perché hanno una grandissima volontà o perché non hanno più la forza psicofisica di "ballare", e perciò di reagire al sopruso, o d'inserirsi in un altro giro "fuori dal loro ambiente". Molte volte, e ora più che mai, moltissima gente tartassata da questi tipi di misure di sicurezza decide di espatriare clandestinamente all'estero con la speranza di farsi seguire dalla famiglia o che le cose si sistemino poi. In realtà, moltissimi saranno costretti a commettere reati all'estero non smentendo così che l'Italia è un paese di emigranti; con la differenza che prima esportava mano d'opera e oggi delinquenza.

Quando queste persone saranno arrestate all'estero, l'Italia spenderà un sacco di soldi ed energie per riaverli, e così il giro ricomincia. Altro giro, altra corsa.



"Il Giorno" 31-07-87
3 Bimbi abbandonati
Sporchi e affamati vanno dalla polizia

CALTANISSETTA, 31 luglio - Tre bambini sporchi e affamati, abbandonati dalla madre e con il padre invalido, non sapendo più a che santo votarsi per essere assistiti, si sono rivolti alla polizia. I tre piccini, di età comprese tra i 5 e i 10 anni, si sono presentati in in questura chiedendo di poter mangiare qualcosa. Non c'è voluto molto per venire a capo della situazione. La madre, Rosa Di Dio, 30 anni, dopo un litigio con il marito, Pasquale Burgio, 32 anni, aveva piantato baracca e burattini ed era fuggita. I bambini si sono trovati in balia di se stessi dato che il padre non è in grado di accudirli. E così si sono recati in questura. Qui, mentre venivano rifocillati, sono stati raggiunti dalla madre che nel frattempo era stata rintracciata dagli agenti e invitata a tornare a casa.



Testimonianza più valida di questo articolo penso che non avrei potuto darvela.

Abbiamo visto che le prefetture sono molto solerti ad affibbiare le misure di sicurezza che contribuiscono molto all'alienamento della persona e alla disgregazione della famiglia.

Gli agenti di polizia hanno invitato questa povera donna a tornare a casa; io sarei curioso di sapere se hanno anche invitato i servizi sociali a sostenere questa donna anche solo moralmente e ad accudirei tre fiqli più il marito invalido.

Se questa donna, invece di scappare da casa in un momento di sconforto si fosse suicidata, senz'altro ci sarebbe stata una gara di solidarietà per accudire o "appropriarsi" dei bambini; sarebbe intervenuto il tribunale dei minori per l'affidamento ad altre famiglie o istituti. Comunque, ci sarebbe stato un lavoro enorme della prefettura e dei servizi sociali; e allora, non è meglio potenziare questi servizi per la tutela del nucleo familiare e conseguentemente per la serenità del minore?

Possibile che l'Italia debba sempre essere il paese dell'emergenza? E se i mezzi usati per la soppressione si usassero per la prevenzione? Sarebbe forse come dire: svuotate gli arsenali e riempite i granai?
 

"Il Giorno" 01-08-1987
CORRUZIONE, TRUFFA, PECULATO
Condannato a cinque anni ex direttore dell'Asinara

SASSARI, 1 agosto - Luigi Cardullo, ex direttore del carcere deli'Asinara, è stato condannato a
5 anni di reclusione dal tribunale di Sassari per corruzione, truffa ai danni dello Stato e peculato. Per gli stessi reati (tranne il peculato) sono stati condannati la moglie di Cardullo Leda Sapio (4 anni e 4 mesi) Gregorio Graziosi (4 anni e 4 mesi), Paolo Giovenco (3 anni e 2 mesi), Franco Vanni (2 anni e 8 mesi), Gianluigi Guadagnoli (2 anni e 8 mesi), tutti imprenditori edili rornani, e Salvatore Loriga (2 anni e 8 mesi), imprenditore sardo. Assolti per insufficienzs di prove Antonio Sotgiu, Giuseppe Orzi e Pietro Giovenco, fratello di Paolo. Il processo era relativo alla truffa che sarebbe stata commessa nel corso dei lavori di ristrutturazione della sezione di massima sicurezza devastata dalla sommossa capeggiata da esponenti delle Brigate rosse nell'ottobre del 1979. Cardullo si era difeso dichiarando che il denaro che gli era stato trovato era il frutto di compensi dei servizi segreti. Non è stato creduto.



Ricordo bene con quale entusiasmo fu accolta nelle carceri la notizia dell'arresto del sig. Cardullo. In quel periodo si era in piena emergenza degli anni di piombo, lui era ritenuto uno dei più sadici direttori delle carceri. Nelle carceri si parlava molto spesso della sua arroganza e dei maltrattamenti che faceva subire ai detenuti comuni e politici, per quest'ultimi era il terrore. Ricordo che si diceva in giro che non lasciasse mai l'Isola consapevole che molti terroristi erano dispostissimi ad eliminarlo. Non riesco a capire come mai sia stato solo incriminato di peculato, corruzione e truffa, e non si sia mai accennato ai maltrattamenti commessi nei confronti dei detenuti, eppure, l'esperienza mi insegna che non è mai scoppiata una rivolta nelle carceri se i detenuti non ci fossero stati  costretti, esasperati da esagerati abusi.

Non ho mai conosciuto questo direttore e "ne sono contento", Comunque, questa mia riflessione è solo frutto di "Radio Carcere".



"Il Giorno", 01-08-1987
DOVEVA SCONTARE 2 ANNI
Tossicodipendente s'impicca nel penitenziario di Cagliari

CAGLIARI, 1 agosto - Nuova tragedia nel carcere cagliaritano di viale Buoncammino. Il detenuto
Giuseppe Olla, 19 anni, originario di Sinnai, si è suicidato impiccandosi nella toilette del centro clinico delia casa circondariale. Il corpo del giovane è stato trovato dagli agenti di custodia ieri mattina. Arrestato alcuni mesi fa, Giuseppe Olla, tossicodipendente, era stato condannato alla fine di aprile ad oltre due anni di reclusione per rapina, detenzione di una pistola e furto. In carcere, subito dopo l'arresto, era stato ricoverato nel centro clinico dove era sottoposto ad una cura disintossicante.



Leggendo "tossicodipendente s'impicca", da subito si ha l'idea che questo ragazzo di 19 anni fosse fuori di testa, il solito ragazzo drogato in astinenza od altro.

Io non credo, il carcere del Buoncammino è rinomato per la sua "durezza", non ci sono mai stato ma mi è stato molte volte consigliato da guardie sarde cui dava fastidio la mia esuberanza che in realtà era solo il non abbassare la testa; penso che molto abbia influito la struttura del carcere in oggetto a far maturare l'idea del suicidio a questo ragazzo, ma le responsabilità maggiori sono di chi non ha applicato gli articoli di legge previsti dalla riforma carceraria, articoli previsti per sottrarre al carcere questi ragazzi ed affidarli a comunità terapeutiche. Nell'articolo si legge che il ragazzo era ricoverato nel reparto infermeria (sempre carcere è), mi piacerebbe sapere di cosa soffrisse e quali cure ricevesse. Al limite, era tanto pericoloso da non poterlo ricoverare in un ospedale civile? Non credo, visto che aveva solo 19 anni ed era ammalato.



"Il Giorno" 01.08.87
GUAI DEL DOPO-TERREMOTO
Per tre quintali di mortadella condannati sindaco e giunta

CASERTA, 1 agosto - Il sindaco, i componenti della giunta ed un impiegato comunale di Villa di Briano sono stati condannati ad otto mesi di reclusione dai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Napoli per aver distribuito ai loro familiari ed a persone che non ne avevano diritto tre quintali di mortadella che la Protezione civile aveva inviato ai senzatetto nel periodo del dopo-terremoto.

Gli imputati sono stati ritenuti colpevoli di interesse privato in atti d'ufficio. Gli imputati erano il sindaco Giuseppe La Corte (allora Pci), Giovanni d'Angiolella, Antonio Tovino, Giuseppe d'Errico e Nicola Gallo (alcuni del Pci altri del Psi), e l'impiegato Luigi Bosco. In seguito alla vicenda gli esponenti politici sono stati tutti espulsi dai rispettivi partiti.



Mi è venuto molto da ridere nel leggere quest'articolo, per le seguenti considerazioni:

1) che a questi signori la mortadella doveva piacere da matti,
   ma che dopo quest'ingozzata, sicuramente non ne toccheranno più.

2) Considerato che tipi di politici fossero, sono contento che siano
   "scivolati" sopra una fetta di mortadella anzichè sopra un assegno
   miliardario come succede di solito.
 
Conclusione: i terremotati hanno perso sí un po di rnortadella, ma senz'altro si sono ritrovati qualche mattone in più per la...ricostruzione.



"Il Giorno", 01-08-1987
Sanità a Torino
Scandalo Usl: scarcerati dieci imputati

TORINO, 1 agosto - Ha ottenuto la libertà provvisoria l'ex assessore regionale alla Sanità Aldo Olivieri (Psi), arrestato il mese scorso nell'ambito dell'inchiesta che la magistratura sta conducendo sulla gestione dell'Unità sanitaria locale (e in particolare sugli appalti per le pulizie e le forniture di carni in alcuni ospedali) di Torino. Con lui hanno potuto lasciare il carcere anche altri imputati: il consigliere comunale del Pci (ed ex presidente della Usl) Giulio Poli; i dirigenti di ospedale Andrea Franzo, Maria Teresa Flecchia, Alberto Riccio e Walter Neri; i titolari di imprese di pulizia Antonio Esposito, Loris Olivato ed Emanuele Intra; il segretario di Olivieri, Angelo Mastrullo. Hanno invece ottenuto gli arresti domiciliari l'ex presidente di sezione del "Co.Re.Co.", Rosario Simonetta (Psi), e il grossista di carni Piergiorgio Arduino. I provvedimenti di scarcerazione sono stati disposti dal giudice istruttore Sebastiano Sorbello.

E' bastato un mese a questi "signori" per lasciare il carcere. Per mia moglie non sono bastati tre anni a far revocare ll mandato di cattura, nonostante le accuse di un pentito fossero palesemente false. E' dovuta restare tre anni latitante con i nostri figli minori, i quali hanno perso anche due anni di scuola. Fortunatamente è stata assolta, ma i figli li potremo mai recuperare? Se ciò non sarà possibile, potremo dire solo: grazie giustizia!! !
 
"Corriere della sera" del 10.8.87

ROMA--I comuni in cui vengono spediti mafiosi al soggiorno obbligato non ne possono più. Da noi, protestano, non c'era droga, e i boss hanno fatto nascere il traffico di stupefacenti, non c'era mafia, e adesso circolano certi personaggi da far paura. Fiumi di lettere di questo tenore affluiscono alle autorità romane dalla provincia di Pesaro, Udine, Latina. Da tutti quei centri in cui la mafia è stata involontariamente, ma di fatto, esportata. «Anch'io sono tempestato di lettere di protesta--dice Ferdinando Imposimato, giudice istruttore, eletto senatore nelle liste della Sinistra indipendente--. Mi sono convinto che il soggiorno obbligato, così com'è oggi, va abolito, perché risulta dannoso. Perciò ho presentato un disegno di legge che si prefigge proprio lo scopo di cancellare questa pratica antiquata».

-- Naturalmente, dottor Imposimato, la scelta si basa anche sulla sua esperienza di magistrato.

"Chiaramente. Voglio ricordare solo un episodio che può risultare molto illuminante sui rischi del soggiorno obbligato. Quando i magistrati palermitani hanno dovuto scegliere una località per mandare al soggiorno obbligato alcuni boss mafiosi si sono orientati sulla cittadina di Maddaloni, in Campania. Nessuno poteva, naturalmente, prevedere le conseguenze. Ma di fatto è successo che i boss sono entrati in contatto con esponenti della camorra. Hanno stretto alleanze.-E da quella che doveva essere una misura repressiva è scaturita una collaborazione fra due forme di criminalità organizzata".

--Anche la Commissione Antimafia aveva manifestato critiche verso l'adozione del soggiorno obbligato.

"Esatto. Ma già la legge Rognoni-La Torre aveva cercato di introdurre delle modifiche. Aveva per esempio raccomandato che fossero scelti luoghi isolati, con non più di 5 mila abitanti. Ma oggi, con gli aerei i telefoni, le comunicazioni sono talmente facili che ci vuole poco a un boss a creare una rete di complicità, a diffondere il fenomeno mafioso in luoghi che ne sono storicamente immuni. Perciò nel disegno di legge io indico l'abolizione di questa misura, aggiungendo che se proprio deve essere applicata, venga scelto come luogo di soggiorno obbigato il Comune in cui il mafioso risiede». -- Ma chi sceglie, attualmente, il luogo in cui deve essere inviato un boss? «Il magistrato, sulla base di un elenco di Comuni compilato dal ministero degli Interni. A questo proposito, l'altro giorno ho presentato un'interrogazione parlamentare al ministro degli Interni per sapere con quali criteri sono stati scelti i Comuni inseriti nella lista»

Avevo appena esposto questo grave problema ed è perciò che sono contento nel vedere che è stato sollevatoproprio da un magistrato navigato quale è il (ora) Senatore Ferdinando Imposimato, già magistrato.

Se veramente si vuole controllare una persona, chi puo farlo meglio dell'autorità del luogo di residenza, visto che ne conosce amicizie, abitudini e tendenze criminose?

Da non sottovalutare anche che proprio con il controllo costante e l'aiuto dei servizi sociali, il soggetto può anche rimanere interessato e trarne soddisfazione dal lavoro (già imposto), e comunque, non allontanandolo dalla famiglia è già cosa utile ad una sua eventuale volontà di reinserimento.

Mi auguro che questa proposta di legge venga accolta con il massimo consenso.

Il sei giugno 1987, presso il carcere di Como, è venuto il giornalista, sig. Antonio Marino, del quotidiano "La Provincia" di Como; c'era già stato alcune volte; ma per me era il primo incontro, per l'occasione avevo preparato un intervento, sviluppato dal servizio di Don Mario Chittolina, già discusso a Mantova.

Il sig. Marino, dopo aver discusso dei soliti problemi, ci ha suggerito di preparare dei documenti o istanze per il prossimo incontro, avvisandoci però che, di tutto quanto gli sarebbe stato consegnato, aveva l'obbligo di farne prendere visione alla direzione dell'istituto.

Ciò, non ci è stato bene per due motivi; 1°) perché le istanze potevano essere censurate e quindi essere divulgate in modo anomalo; 2°) di solito, ogni istanza è implicitamente (quasi sempre) una denuncia di cui può essere responsabile anche la direzione dell'istituto; per cui, il/i detenuto/i possono esporsi a denunce da parte dell'amministrazione o a ritorsioni di vario genere. Quindi, oltre al primo docunento, gli dicemmo che non gliene avremmo dati altri, ma che però, lui stesso poteva inpegnarsi a che ci fosse presente la direzione ai prossimi incontri in modo da poter discutere insieme le nostre istanze, evitando i possibili problemi di cui sopra. Siano rimasti d'accordo che c'incontreremo i primi di Settembre, ma solo se vi sarà presente la direzione.

Inoltre gli abbiamo chiecto di interescarsi lui affinchè al prossimo incontro partecipassero anche i responsabili de: la provincia, la camera di commercio e artigianato, l'ufficio provinciale del lavoro e quanti altri debbano interessarsi del carcere in qualità di enti pubblici.



" Corriere della Sera"  11.08.1987
Proposta al ministro della Giustizia
UNA COMMISSIONE DIETRO LE SBARRE
di SABINO ACQUAVIVA

Egregio signor ministro, quale nuovo ministro di Grazia e Giustizia, forse ha letto il mio articolo dal titolo «Un solo detenuto per cella» (Corriere del 15 luglio). Dopo quel 15 luglio ho ricevuto molte lettere; mi hanno anche fermato per la strada per dirmi di essere d'accordo con me e non si trattava, le assicuro, di ex carcerati. Dunque il problema delle carceri è sentito e vissuto da molti, e non soltanto da detenuti, ex detenuti e loro parenti. Infatti, in questi anni la cultura degli italiani è cambiata. Con l'altro ieri i condannati non erano considerati uomini come gli altri. Chi era arrestato e condannato entrava a far parte di una categoria di individui considerati quasi privi di diritti: per la gente non esistevano, quasi non contavano. Poi, come lei sa, ci si è resi conto del fatto che, se possiamo togliere la libertà, non possiamo privare nessuno della dignità, della privacy, del diritto di conservare il rispetto di sé stessi. Abbiamo anche cominciato a pensare che questa gente, uomini e donne nelle carceri, hanno dei genitori che si angosciano, persone che amano da cui sono lontani, figli e figlie piccoli che soffrono della lontananza del padre o della madre, molto spesso fino al punto da essere segnati per sempre nello spirito da quella separazione.

Inutili sofferenze.
Dunque, il detenuto ha diritto alla sua dignità Eppure gli episodi di violenza e le inutili sofferenze non si contano. Tra le lettere pervenutemi in questi giorni non dimenticherò mai quella di un ragazzo del Napoletano, un tossicodipendente arrestato perché aveva con sé cinque dosi di eroina: fu subito picchiato e--letteralmente -- trattato a sputi in faccia So bene che si tratta di situazioni e problemi che non si risolvono in un giorno. Ma, mi domando, siamo sicuri-- ad esempio --che si cerca sempre di tenere lontani i giovani, quelli accusati di delitti minori, dagli altri? Che nelle nuove (poche) prigioni in cui si comincia veramente a poter tenere un detenuto per cella si cerca di mandare anzitutto i più fragili per evitare loro il degrado della violenza e della promiscuità? Che i detenuti con figli vengano distribuiti in funzione della necessità di facilitargli incontri con la famiglia? Queste, caro ministro, sono soltanto alcune delle domande che mi si affollano alla mente. Ma so che lei è un penalista di farna, un avvocato che da anni frequenta le carceri, che è stato presidente della commissione giustizia della Camera. Dunque, si tratta di problemi che lei conosce, ma sa anche che la loro soluzione richiede denaro, impegno costante, competenza, un mutamento di cultura nella società e soprattutto negli organismi preposti alla gestione del sistema carcerario italiano. Non dubito, come lei di certo non dubita, che i giudici di sorveglianza, i direttori delle carceri, il personale per lo più cercano di fare il loro dovere. Ma devidentemente, non basta, visto che nelle carceri c'è degrado e violenza: ad opera di detenuti e forse, in parte, anche di uomini destinati al buon funzionamento degli istitutl di pena. Insomma, signor ministro, sulla carta la riforma carceraria è una realtà, nella pratica--salvo eccezioni--la condizione dei detenuti è ancora grave.

Poteri specifici
Dunque, occorrono una volontà ed uno strumento politico affinché, finalmente il sistema carcerario italiano diventi un modello per gli altri, nello spirito di una filosofia del diritto penale che è stata, ed in parte è ancora, fra le più moderne del mondo. Da tutte queste considerazioni, una proposta che le faccio qui ed ora perché penso che lei possa farla sua, crederci, concretarla: perché non creare una commissione parlamentare, possibilmente monocamerale, per il controllo dell'applicazione della riforma carceraria?

Una commissione che sia di stimolo e pungolo a quella trasformazione, anche culturale, del sistema carcerario che noi tutti auspichiamo? Che abbia anche il potere quando non esistono le condizioni per una vita dignitosa di detenuti, di far chiudere un carcere? Che riferisca al Parlamento sulla situazione e l'andamento della riforma, ma possa anche raccogliere la documentazione di cui ha e c'è bisogno, ed essere libero riferimento per i detenuti? Che quindi possano rivolgerle richieste, petizioni, proteste e via dicendo? Insomma faccio mia l'idea di chi auspica la creazione di qualcosa di analogo alla commissione antimafia, ma con poteri più specifici. Credo, signor ministro, che una tale commissione potrebbe fare molto per cambiare le condizioni di vita nel carcere come i rapporti fra il carcere e la società esterna. Ma non dimentichiamo, e su questo concetto la so in pieno accordo con me, che il carcere deve ridare, e non togliere, dignità al detenuto. Deve rieducarlo, si diceva un tempo; deve aiutarlo ad essere uomo, se stesso e in armonia con il resto della società, diciamo oggi. Per ora, tuttavia, troppo spesso è un individuo indifeso, con pochissirni diritti reali, concreti, è nelle mani di altri uomini ed alla mercé della loro volontà e disponibilità.
 
Quando iniziai a studiare per il biennio di geometra mi venne suggerito di leggere un testo scolastico per i corsi professionali, e cioè: Uomini-idee- e società; la mia attenzione si posò sopratutto sul lungo servizio di Sabino Aquaviva che appunto trattava l'argomento "Carceri e Manicomi". E' tanto preparato su questo argomento che non mi stupisce affatto questa sua proposta assai appropiata e auspicabile.

"Il Giorno" 11-06
Novara - Il caso ha fermato Guido Badini, il "fidanzato diabolico" che sterminò, con Doretta, i Graneris
ERA DETENUTO MODELLO SOLO PER USCIRE E UCCIDERE ANCORA
Tradito da un controllo fiscale in casa di un amico
In una lettera gli chiedeva di comprargli una pistola
per «regolare i conti» una volta uscito in permesso
di LORENZO FALBO
 
TORINO, 11 giugno - Il fascicolo, un fascicolo smilzo e quasi vuoto, è sui tavoli della Procura generale ma nessuno sembra avere tanta fretta di concludere quell'inchiesta. Guido Badini, il "fidanzato diabolico" di Doretta Graneris, l'uomo che nella notte del 13 novembre 1975 uccise, a colpi di pistola, d'accordo con la ragazza, l'intera famiglia di lei, voleva sparare ancora, approfittando di una licenza-premio. A che serve spedirgli a Porto Azzurro dove in seguito alla scoperta è stato nel frattempo trasferito, una comunicazione giudiziaria o magari un mandato di cattura? Badini ha già una condanna all'ergastolo che nessuno potrà cancellare. Eppure voleva ancora "regolare i conti", vendicarsi di qualcuno, il cui nome non è stato reso noto dai magistrati, sparare. Per farlo, quando ormai era quasi certo di ottenere, intorno a Natale, la licenza prevista dalle nuove norme carcerarie, aveva scritto a un amico di Novara usando il succo di limone. Un vecchio sistema, un po' casalingo e un po' carbonaro: il succo di limone, steso sulla carta con una punta tra le righe della lettera «ufficiale». Col calore del ferro da stiro, ma anche solo di una lampadina, le parole «segrete» diventano brune e leggibili, e questo l'amico di Badini doveva saperlo bene perché lo ha fatto subito. - Quando esco, ho dei conti da regolare con qualcuno - aveva scritto l'ex-fidanzato di Doretta -. Ti prego di andare a Biella, a questo indirizzo, e di acquistare per me una "calibro 38" e due "Browning"». Una «commissione» dal sapore minaccioso, che poteva far pensare solo a una vendetta violenta, forse a una nuova strage.

L'amico di Badini, a quanto si sa, non è andato da nessuna parte in cerca di pistole ma ha conservato accuratamente la lettera con la parte segreta «in evidenza» tra le sue carte. Pochi giorni dopo, la Guardia di finanza ha bussato alla sua porta per un controllo fiscale e, durante la perquisizione, ha trovato il documento «compromettente». Dalla Procura di Novara, il «caso» è passato alla Procura generale di Torino, ma nessun provvedimento è stato preso fino ad ora se si esclude, ovviamente, la revoca di qualsiasi licenza e il trasferimento dal carcere di Alessandria a quello di Porto Azzurro. A differenza di Doretta Graneris che, in dodici anni di carcere, sembra aver maturato un pentimento autentico e sincero, il «detenuto modello» Guido Badini non doveva dunque esser cambiato molto da quel ragazzo timido e occhialuto per il quale, al processo, i difensori chiesero, senza ottenerlo, il riconoscimento dell'infermità mentale.

Il sig. Badini, per procurarsi delle armi, senz'altro contava di ottenere in breve tempo un permesso premio. In questo articolo si evidenzia il fatto che fosse undetenuto modello ma si omette di esporre con quale metodo viene attribuito questo appellativo; forse dodici anni di carcere possono redimere un uomo anche se ha commesso una strage, ma forse trent'anni di carcere non cambiano un uomo anche se ha rubato solo mele. Se per quest'ultimo si può essere di manica larga nel concedere benefici e misure alternative, certo per un soggetto tipi il sig. Badini occorre un ben altro metodo di osservazione, cioè, più approfondito.

Gli educatori, psicologi, ecc.; senz'altro avranno delle capacità o almeno dovrebbero avere la capacità di indagare nell'animo di una persona, anche se ho potuto constatare di persona che diversi educatori entrano in un carcere e non sanno neanche da che parte cominciare, finché non iniziano il loro lavoro di routine e naturalmente col tempo acquistano esperienza, ma intanto, ogni loro atto incide molto nella valutazione del soggetto e di conseguenza far concedere o meno i benefici di legge.

Ma se la preparazione degli operatori ha il suo peso, è anche vero che il problema di fondo sta nella carenza degli organici, per es. in un carcere che ha una media di 150/200 detenuti, di solito vi lavora un solo operatore fisso coadiuvato da un assistente sociale e uno psicologo i quali effettuano delle visite periodiche. Se la metà dei detenuti è nella posizione di giudicato definitivo e quindi nella possibilità di ottenere i benefici di legge che prevede la riforma carceraria (ma gli operatori sono preposti anche per occuparsi dei detenuti giudicabili), vuol dire che bisognerà relazionare settantacinque sintesi comportamentali, valutando anche le situazioni socio-familiari e processuali; bisognerà osservare il soggetto dialogando con lui e cercare dei riscontri obiettivi per trarne delle conclusioni. Normalmente il detenuto medio (con pochi anni di carcere) rimane sé stesso ed è alquanto facile dare un giudizio della personalità; ma un detenuto che vive con lo spettro dell'ergastolo o di moltissimi anni di carcere da scontare, si rende conto che non può fare passi falsi e perciò s'impone un comportamento, se è portato farà il "simpatico", altrimenti assumerà un atteggiamento "voluto" dagli operatori ma che è molto difficile proseguire nel tempo.

Ai molti che mi hanno chiesto consiglio in merito, ho sempre consigliato la maggiore semplicità: essere se stessi perché non credo che sia possibile fingere per molti anni, penso che la personalità stessa subirebbe dei gravi cambiamenti a danno della psiche e di conseguenza dell'esistenza stessa del soggetto; perciò raccomandando semplicità e naturalezza ho sempre inteso interrogarsi dentro per poi avvicinarsi convinti e con fiducia agli operatori per farsi capire e lasciarsi aiutare.

Purtroppo, per una persona che è stata protagonista per un arco di tempo (poco o tanto che sia durato) non è facile accettare di "sottomettersi" all'istituzione perché viene inteso come una resa. Infatti, moltissima gente rifiuta categoricamente ogni forma di contatto con gli operatori sia per non apparire arrendevoli, sia per non trovarsi nell'imbarazzo che logicamente si prova nel raccontare la propria vita ad un estraneo.

E' bene far notare che il rifiuto di sottoporsi all'osservazione, è motivo di esclusione dai benefici.

Il paradosso e che proprio la grave carenza di personale rende ancora più difficile questo aiuto, o meglio, il buon funzionamento della legge, per cui viene a mancare la base per tentare il recupero della persona. Non è raro che un detenuto sia abbandonato a se stesso per lunghi anni e quando rientra nei termini per ottenere dei benefici si ritrovi bombardato di colloqui da parte degli operatori, come si può pretendere di stabilire se una persona è cambiata in meglio o in peggio nei pochi mesi di osservazione? L'osservazione deve iniziare dal primo giorno di detenzione, e forse è utile tenere conto anche delle osservazioni precedenti per poi sintetizzare l'intero arco di vita ed esperienze, per tentare di dare un giudizio responsabile e dire se una persona è recuperabile o meno.

Come già vi avevo anticipato, con quest'articolo v'illustro meglio il tipico "battesimo" di un carcere (anche se nel caso di Como non si può parlare di battesimo, visto che è aperto da tre anni). Non ho notizie al riguardo del carcere di Como, però ho un "battesimo" degli ultimi quindici giorni (da quando è in ferie la direttrice); L'08.08.1987 viene duramente picchiato un ragazzo di soprannome Tato e rispedito in sezione come nulla fosse successo, (ciò succede quando gli agenti vogliono ribadire la loro supremazia); nota: prima di farlo salire in sezione ha avuto un colloquio con il maresciallo il quale gli ha chiesto se volesse sporgere denuncia nei confronti dei responsabili, ovviamente, il ragazzo non essendo tutelato in alcun modo ha deciso per il no. Tato ci ha detto che ha preso botte per il solo motivo di avere insistito a voler parlare con il maresciallo per sapere con certezza quando partiva per la Sardegna per presenziare ad un processo: dopo avere insistito, è stato portato in una stanza da diversi agenti che dopo averlo ammanettato con le mani dietro la schiena lo hanno picchiato duramente, mentre veniva pestato passava d'avanti alla stanza una dottoressa che lui ha chiamato ad alta voce, dicendogli: non faccia finta di niente, venga a vedere come picchiano i detenuti!... ma ella non si fermò! Riguardo al maresciallo, era suo dovere sporgere denuncia d'ufficio nei confronti dei suoi "sgherri", ciò conferma che se le guardie si comportano ad una certa maniera è perché hanno l'autorizzazione a farlo. Dopo pochi giorni è stata la volta di Zuccaro Salvatore, giovane di ventitre anni, arrestato per ubriachezza e condannato a quattro mesi; pochi giorni prima era stato ricoverato d'urgenza perché colpito da un attacco di gastrite acuta dovuta ad un fattore nervoso, dopo pochi giorni di ospedale è stato riportato al carcere ma a distanza di pochi giorni ha avuto una ricaduta, la dottoressa di turno aveva disposto il suo ricovero c/o l'infermeria del carcere; il ragazzo pur di essere curato ha accettato, ma quando ha visto che nella cella avevano lasciato solo il materasso per terra si è rifiutato categoricamente di alloggiarvi: il medico sbottò che non si faceva prendere in giro dal suo simulare e che perciò non "rompesse le scatole", al che il ragazzo gli rispose a tono, di rimando il medico ordinò alle guardie di mandarlo via, subito una guardia gli mise le mani al collo, dicendogli: io, fuori di qui, a quelli come te gli rompo il culo!

Fortunatamente sopraggiunse un brigadiere che ordinò alla guardia di farsi i fatti suoi e lo mandò via, il ragazzo fu rimandato nella sua cella con la sua gastrite e tutto è finito lì; morale: non ha più ricevuto le cure del caso!

Il ventidue Agosto 1987 è stata la volta di certi: Vincenzo Como e Marcello, non hanno sporto denuncia e sono stati rimandati in cella. Questi fatti hanno creato una certa tensione nella sezione e perciò, sei o sette detenuti hanno deciso di parlare con la direttrice non appena fosse tornata dalle ferie (è inutile parlare con il maresciallo), ma non si otterranno comunque dei positivi riscontri finché chi subisce certe angherie (i detenuti) non si deciderà a sporgere delle regolari denunce al magistrato di sorveglianza ed alle Procure della Repubblica. Alcuni detenuti volevano già protestare in qualche modo. Gli ho fatto capire che facendolo, avremmo fatto solo quello che qualcuno voleva che facessimo, per poi giustificare il peggio. Piuttosto dissi in quell'occasione, ci dobbiamo convincere che solo avanzando delle denunce chiare, particolareggiate e responsabili, si poteva ovviare a quel tipo di sodomizzazione bestiale che offende la civiltà di un paese e la dignità della persona.

La sera del trentuno Agosto 1987 ero sdraiato sulla mia branda e seguivo il telegiornale delle Venti, trasmetteva un servizio in merito alla rivolta avvenuta nel carcere di Porto Azzurro; all'improvviso sentii delle grida strazianti miste a lamenti pietosi; mi sporsi allo spioncino e vidi che all'inizio della sezione contigua, vicino ad una cella, vi erano fermi un agente ed un lavorante. Chiamato quel lavorante, gli chiesi cos'era successo. Mi disse che, in quella cella, vi era un ragazzo di circa vent'anni con evidenti squilibri mentali che era terrorizzato perché, per terra nella sua cella, aveva visto uno zampirone (fumogeni per zanzare) e lui credeva che fosse un serpente. Inoltre, inveiva con parolacce verso l'agente di servizio sul muro di cinta, credendo che fosse la propria Madre. Chiamai l'agente di sezione e gli chiesi perché quel ragazzo fosse stato arrestato e perché non poteva essere posto in libertà o almeno ricoverato in infermeria; mi rispose che era stato condannato, proprio quel giorno per il furto di un motorino, e che (giustamente) doveva essere il giudice a disporre il tipo di pena, in quanto al luogo (sezione o infermeria), anche se a lui dispiaceva vederlo in quella cella, questo doveva essere la direzione a dover stabilire quale tipo di detenzione doveva considerarsi per quel ragazzo. Riempii un sacchetto con brioche, succhi di frutta, formaggini e buste di latte, e glielo feci recapitare tramite il lavorante, il ragazzo gli chiese subito se dentro il sacchetto ci fosse qualche serpente, ma rassicurato in tal senso, ha accettato il tutto; si calmò subito, ma non si calmò il mio stato d'animo.

Esistono strutture diverse e tipi di pena diverse, perché tenerlo in carcere?

Inoltre, è già la terza volta che viene arrestato e tenuto in carcere, possibile che nessun servizio sociale possa offrire un'alternativa a questo ragazzo? Si aspetta forse che commetta il "fatidico" grave reato per dichiararlo pericoloso per se e per gli altri, per poi murarlo vivo per il resto dei suoi giorni?

Vorrei sapere se si è provveduto a curarlo seriamente e civilmente com'è suo diritto, ma d'altronde, il malato italiano ha diritti?!

Io ho un fratello cerebroleso di venticinque anni, e posso dire che se non fosse per l'affetto immenso e le cure continue di noi tutti in famiglia, chissà che brutta fine avreboe fatto. Quasi tutti gli istituti per questi ragazzi sono, di massima, dei lagher - parcheggi che però, oltre alla pensione di invalidità civile, di questi, percepiscono anche grossi contributi dallo stato e dagli Enti locali, mentre, alle famiglie che si fanno carico del congiunto (anche se bisognose) non viene dato alcun contributo di sostegno. Non sarebbe più giusto agire all'opposto, almeno nei casi compatibili e possibili?

Ormai mancano ventidue giorni alla discussione della camera di consiglio nella quale si discuterà se concedermi o meno il beneficio della semilibertà, e forse è per questo motivo che non mi sento di continuare a scrivere, ma forse finirei anche per ripetermi; da parte mia sono sicuro che non tornerò più in carcere, ma sicuramente, ciò, non mi impedirà di occuparmi del problema delle carceri e dei carcerati. E' per questo che a voi, che adesso sapete che in ogni vostra Città esiste almeno un carcere, con tutti i problemi di una larga sfera di emarginazione, vi prego di avvicinarvi al carcere magari tenendo ben presente un vecchio proverbio che diceva: Io non berrò mai da quella fontana! Vi assicuro che non è vero!
Como, 31 agosto 1987

Sono stato arrestato a Milano il diciotto Aprile 1994. Appena giunto alla Dozza (il ventisette Aprile) cominciai a frequentare il gruppo del Vangelo. Poi in Estate Suor Teresa ci comunicò che si stava adoperando per dare vita ad un corso di ragioneria nella nostra sezione differenziata.

L'idea fu accolta con entusiasmo e le iscrizioni furono numerose, però, essendo un corso portato avanti da insegnanti volontari "trascinati" da Suor Teresa, accadde un inconveniente.

Non essendo stati avvertiti in tempo utile della sua decisione, gli insegnanti, ognuno occupato dai suoi impegni precedenti, iniziammo verso la metà di Ottobre con soli due insegnanti: Storia e tecnica di ragioneria; il primo si dileguò dopo appena tre o quattro presenze. Invece il professore di tecnica di ragioneria, Prof. Picozzi, molto bravo, ci ha seguiti puntualmente per tutto l'anno scolastico.

Ai primi mesi del '95, Suor Teresa è riuscita a portarci anche tre brave insegnanti: la signora Anna Maria Corsini (Matematica) la signora Maria Luisa Casini (Italiano e Storia), la signora Elizabeth Westbury (Lingua Inglese ).

Purtropno non è stato possibile per nessuno di noi presentarsi agli esami per la precaria preparazione. Le scarse lezioni, ma anche la nostra arretratezza negli studi, ci ha solamente concentito di svolgere una verifica scritta che ha lasciato soddisfatti un po' tutti. Il nostro impegno è stato comunque alto.

Nei mesi di Luglio e Agosto abbiamo tenuto egualmente le lezioni quasi con un ritmo regolare poiché il direttore del carcere, sig. Giorgio Chirolli, ci aveva fatto sapere che era sua intenzione chiedere al Ministero di grazia e Giustizia che il corso fosse istituzionalizzato da docenti scolastici di ruolo e lasciando il compito del sostegno ai volontari.

Ciò non è stato Possibile per chissà quale indisponibilità o veto del Ministero di Grazia e Giustizia, e allora anche quest'anno il corso proseguirà con gli stessi insegnanti volontari e con l'aggiunta di una insegnante di lingua francese. Attualmente dividiamo l'unica aula, ad orari e giorni alterni, con il corso delle medie inferiori (15O ore), ma il direttore ci ha fatto sapere che si sta prodigando per assicurarci un'aula tutta nostra. Si adopererà per procurarci del materiale didattico giacché per il nostro corso, non essendo istituzionalizzato, non è previsto alcun contributo finanziario da Parte del Ministero di G. e G.

Il nove Ottobre '95 si è tenuto in carcere l'inaugurazione dell'anno scolastico 95/96; essendo impediti dal regolamento a presenziare, noi delle sezioni differenziate, ho pensato di far giungere lo stesso un messaggio agli invitati con la speranza di sensibilizzarli in merito all'importanza della scuola in carcere.



PERCHE' SCRIVO ?
 
Come l'acqua in fondo ad un pozzo che la nasconde alla vista, e
si trasforma in uno specchio per attirare a sè la Luna,
io scrivo per sentirmi vivo;
 
Come la radice che cerca la linfa per salvare il suo albero
ridotto ad un tronco senza foglie, soffocato da spazi ridotti,
così la mia penna si insinua tra le sbarre e raggiunge lo spazio aperto;
 
Come un seme trascinato dalla piena di un fiume che germoglia sul
ciglio di una diga scoprendo d'essere ancora vivo,
così racconto il mio viaggio e dico agli altri che son vivo;
 
Scrivo per liberare il mio pensiero, raccontare le mie emozioni
e dare voce al mio cuore;
finchè scrivo, tutti sanno che son vivo, sono in cella e non in loculo;
 
Scrivo per dire a voi che oggi siete invitati numerosi alla "DOZZA"
in rappresentanza di quella società libera, e speriamo in futuro
anche più giusta, a cui noi tutti aspiriamo, d'impegnarvi al nostro
recupero da subito e senza indugi, mettendoci nelle condizioni di
imparare a lavorare, e di studiare con i mezzi necessari, perché, fran
camente, solo la buona volontà degli insegnanti volontari non basta
al raggiungimento di un'ottimale scolarizzazione.
 
Scrivo anche per dire grazie alla gentile direzione e a quanti la
sostengono nelle sue encomiabili iniziative che possono essere mosse
solamente da animi nobili, così come intendo ringraziare anche,
doverosamente, quanti sono già impegnati, istituzionali e non, e
quanti sono alla prima esperienza, dalla quale gli auguro di trarre
le migliori soddisfazioni;
 
infine, ringraziando la mia penna, che per pochi minuti mi ha permesso
di uscire dal mio isolamento ( MIRACOLO DELLO SCRIVERE ), per
ritrovarmi in società, auguro a tutti buon lavoro e grido forte...
            W La Scuola!!!
Dal 3°/B
Antonio Santoiemma
 
Anno scolastico '95/96