23 ottobre 2000
L'insostenibile leggerezza del petrolio
Angelo Baracca

 Una crisi petrolifera gravissima sta scuotendo l'economia mondiale, minacciando le relazioni commerciali e tenendo in costante tensione le borse per l'aumento generale dei prezzi. Occorrerebbe analizzare a fondo la natura della crisi. Le riserve petrolifere non sembrano minacciate nell'immediato. Vi sono forti indizi che la crisi sia stata profondamente manovrata al fine di lucrare ulteriori guadagni ed influenzare il quadro politico con l'approssimarsi delle elezioni presidenziali statunitensi del 2000: una documentata analisi di Sherman H. Skolnick
(Sherman H. Skolnick, Big Oil and Terrorists, http://www.skolnickreport.com/boterrorists.html), un saggista ed analista impegnato per la moralizzazione della giustizia negli Stati Uniti, solleva inquietanti interrogativi sugli enormi affari petroliferi delle varie generazioni della famiglia Bush e le sporche manovre pluridecennali di cui è stata mandante o responsabile.

 Secondo questo analista, J.P. Morgan & Co. - che costituisce il quartier generale della monarchia britannica a New York, da sempre in combutta con la famiglia Bush nella politica petrolifera e nel condizionare le relazioni in Medio Oriente (fin dalle manovre che trascinarono gli USA nel 1917 ad intervenire nella guerra mondiale, ed alla costituzione dello Stato di Israele) -  avrebbe abilmente manovrato, congiuntamente alle holdings legate a 18 centri bancari, per innalzare artificialmente il prezzo del petrolio, che alla fine del 1998 era sceso a 10 dollari al barile, buttando nell'affare centinaia di miliardi di dollari. Nel settembre del 2000 il costo raggiungeva la cifra record di 38 dollari al barile; e quando è sceso a 31 dollari in ottobre la "gang"  si è trovata sull'orlo del collasso, e la stessa Bank of America e le sue affiliate estere dovettero concedere fidi per un miliardo di dollari. Skolnick denuncia una lunga catena di attentati e di interventi, da quello cosiddetto "terroristico" alla caserma dei Marines in Libano nel 1983, in cui morirono decine di soldati americani, dove l'esplosivo era una composizione segreta usata dalla CIA; passando, ovviamente, per l'istigazione diretta di George Bush Sr. della Guerra del Golfo del 1990-91; gli attentati "terroristici" alle Ambasciate americane in Africa, attribuite ad Osama bin Laden, del quale l'analista ha documentato i conti presso la Harris Bank ed i lauti affari in Medio Oriente congiuntamente con i maggiori petrolieri, la famiglia Percy e la moglie del Senatore John D Rockefeller 4th; arrivando agli interrogativi, sempre relativi a Bush, sull'oscuro "bombardamento terroristico" in un porto nello Yemen della nave da guerra statunitense "Cole" nell'ottobre del 2000.

 Ma la crisi petrolifera - qualunque siano la sua natura e i suoi artefici - deve essere assunta in tutta la sua portata, per motivi di fondo tutt'altro che congiunturali o particolari, che comunque  non possono più essere rinviati. Il punto di fondo è che  lo sviluppo e la ricchezza dei Paesi industrializzati si fonda pesantemente sull'appropriazione indiscriminata di questa risorsa (non rinnovabile) di paesi più arretrati  (in realtà, non solo di questa risorsa: ma il petrolio assume un valore emblematco, se non altro perché è quella che si ripercuote in termini immediati sugli sfruttatori. Si tratta di una vera e propria follia!  Se i Paesi industrializzati venissero privati di questa possibilità di depredare i Paesi più poveri, rifornendosi di petrolio indiscriminatamente e a basso costo, le loro economie crollerebbero, trascinando con se l'intera economia mondiale. E' venuto il momento (e in realtà non da ora!) di dire con la chiarezza e la decisione più ferme che se si vuole davvero salvare il Pianeta e l'Umanità, e non farne un pretesto per lucrare ulteriormente, questo non può continuare!

  Il termine tanto di moda, sbandierato come panacea delle crisi ambientali, dello "sviluppo sostenibile" si riduce ad un guscio vuoto, ad uno specchietto per le allodole, ad una vergognosa e pretestuosa mistificazione, se non si affronta una volta per tutte e con la massima determinazione il nodo di fondo della profonda "insostenibilità"  e "ingiustizia" dell'economia e delle relazioni mondiali.

 Il primo requisito di una vera sostenibilità è che ogni Paese fondi la propria economia in primo luogo sulle risorse di cui dispone: utilizzandole, naturalmente, in modo rinnovabile, producendo beni che corrispondano a valori d'uso , e siano durevoli e riciclabili. É vero che nessun Paese può essere autosufficiente (ma un mondo sostenibile sarebbe compatibile con le attuali divisioni etniche e geografiche, prodotto storico artificiale di relazioni internazionali basate sulla violenza e la legge del più forte e sicuramente non su criteri di equità e rinnovabilità delle relazioni e degli scambi?): lo scambio di risorse tra le diverse aree geografiche è necessario ed utile, ma i criteri e l'utilizzazione devono essere opposti a quelli attuali (necessaria sarebbe forse in primo luogo la libertà di circolazione degli individui, che è invece quella più fortemente contrastata dalle classi dominanti).

 Sappiamo bene che il fattore fondamentale sul quale si basa questa follia è la profonda ingiustizia su cui si basano le relazioni internazionali, l'inumano sfruttamento del Sud da parte del Nord del mondo: solo la violenza ha consentito di mantenere bassi i costi del petrolio e dell'energia per almeno un secolo.

 In una prima fase la dominazione coloniale consentì un vero saccheggio, senza nessun limite, delle ricchezze dei Paesi sottomessi, piegando le loro economie e le loro strutture sociali agli interessi dei colonizzatori. Si sviluppò così e si impose il modello energetico "duro" dei paesi industrializzati, congiuntamente ad una cultura tecnico-scientifica che ha escluso tutte le possibili alternative.

 Il lungo e difficile processo di decolonizzazione ha sostituito queste relazioni di sfruttamento diretto con altre più sottili e perverse, le quali però hanno finito per scardinare ancora più profondamente le strutture sociali, le culture, gli schemi di relazioni, i rapporti con la natura, gli ambiti di autonomia di intere Popolazioni.

 Ma che cosa è cambiato in fondo dall'epoca coloniale? Nelle colonie, forse, venne fatto (non certo per giovare a quei paesi e a quei popoli, ma per tornaconto dei paesi coloniali) qualche investimento che in qualche modo portò un relativo progresso. Lo sfruttamento attuato con gli attuali metodi del FMI, della BM e del WTO - quando non si giunge all'intervento armato - risultano ben più pesanti. Il debito esterno soffoca i Paesi meno svluppati: l'Africa sub-sahariana ha pagato tra il 1980 e il 1996 due volte l'ammontare del suo debito esterno, trovandosi ora tre volte più indebitata di 16 anni fa; e il debito sta in larghissima percentuale nelle mani proprio del FMI e del BM (81 % per il Ruanda, 79 % per il Burundi, 77 % per l'Uganda e la Repubblica Centroafricana). Gli esperti valutano che 48 paesi africani per liberarsi del debito esterno dovrebbero sborsare interamente i propri introiti da esportazioni per più di tre anni. Mentre le condizioni sociali, distrutti il tessuto e le culture delle società tradizionali, diventano sempre più disastrose: la speranza di vita è scandalosamente di 25,9 anni nella Sierra Leone, 29,1 anno nel Niger, 30 anni nel Malawi, 32,3 anni in Zambia, 32,7 anni in Bostwana, 32,8 anni in Uganda e Ruanda, 32,9 in Zimbabwe, 33,1 in Mali, 33,5 in Etiopia. Lo Zambia tra il 1990 e il 1993 ha investito 37 milioni di dollari per per l'istruzione primaria, mentre ha pagato 1.300 milioni di dollari in servizi per il debito esterno: la spesa per abitante nell'educazione primaria nel 1995 era sei volte minore che dieci anni prima, e per la salute il 30 % in meno; mentre la mortalità infantile era aumentata del 20 %. Intanto, quello che con un eufemismo si chiama "aiuti allo sviluppo" da parte dei Paesi ricchi del Nord - e che in realtà si utilizza in buona parte per pagare gli interessi sul debito - è crollato al minimo storico di un vergognoso 0,33 % del Pil, quando l'ONU aveva proposto lo 0,7 ed i governanti al "Vertice della Terra" di Rio del 1992 avevano deciso di triplicarlo.
 Se le cose continueranno così, l'Africa sarà il primo caso di continente sostenibile: l'immutabilità della morte fisica! É a dir poco inaudito che il mondo che si definisce "civilizzato" tolleri questo scandalo, e continui anzi a farne occasione di affari.

 Tutto questo è avvenuto proprio in nome di un concetto che non a caso si è sviluppato con la decolonializzazione, quello di sviluppo. Così si è imposta e radicata (non senza l'uso di metodi di convincimento tutt'altro che pacifici) l'idea che il solo tipo di sviluppo  sia quello dei Paesi industrializzati, e che tutti i Paesi debbano percorrere le stesse tappe di sviluppo e riprodurre la stessa struttura economica.

 Risulta ormai più che evidente il disastro che questo ha prodotto: il divario tra i Paesi più forti e quelli più deboli, tra i Ricchi e i Poveri della Terra si è allargato anzichè restringersi.

 É giunto il momento di cambiare radicalmente anche questo concetto di "sviluppo"! Il concetto va rifiutato e rovesciato: forse va rifiutato e sostituito il termine stesso, ormai connotato in modo irrimediabile (abbandonando anche il concetto di sviluppo sostenibile, giacchè la vera sostenibilità implica inevitabilmente un ridimensionamento - che non vuol dire necessariamente peggioramento - del livello di vita dei Paesi ricchi).

 In realtà, i Paesi produttori di petrolio, in generale i Paesi definiti "sotto-sviluppati" , sono quelli che conservano ancora (e malgrado tutto!) la maggiore quantità e qualità di risorse del Pianeta. É mentalmente utile pensare a quello che avverrebbe se fosse possibile il miracolo raddrizzare le relazioni mondiali e porle su una base di equità: questi Paesi di colpo si rivelerebbero i più "ricchi"! E ai Paesi oggi più "ricchi" verrebbe corrispondentemente a mancare la base stessa della loro "ricchezza", in molti casi della stessa sussistenza. Solo la violenza delle relazioni attuali costringe i primi a cedere le loro risorse a prezzi stracciati, o a distorcerne radicalmente l'uso: compromettendo così la  sostenibilità a livello planetario e il futuro dell'intera umanità.

 La trasformazione dell'economia mondiale deve iniziare dai Paesi industrializzati più forti: solo trasformando radicalmente le loro strutture economiche, produttive e sociali si può sperare (se siamo ancora in tempo) di costruire un mondo sostenibile: il fatto che questo appaia oggi difficilmente realizzabile (e la forza, esplicita o occulta, delle strutture di potere sovranazionale contro ogni progetto riformatore lo rende ancor più problematico) non può certo compiere il miracolo di giustificare e rendere sostenibile il mondo attuale!

 Si parla molto di rivedere i criteri economici e la stessa teoria in termini ambientali, ma sul piano pratico non si vedono risultati apprezzabili. Le valutazioni per l'adozione delle tecnologie energetiche rinnovabili, per fare un esempio, continuano a basarsi su criteri di costi unicamente economici: si provi ad immaginare che i Paesi OPEC chiudano davvero i rubinetti del petrolio, e si vedrà come i costi dell'energia solare diverrebbero immediatamente super-competitivi! Si provi ad immaginare un mondo in cui si eliminino sul serio le armi di distruzione di massa, e si vedrà come i soli costi economici (per non parlare degli altri, legati alle scorie, al plutonio, al decommissioning, ecc.) del nucleare civile diverrebbero immediatamente insostenibili: del resto, già oggi è evidente che i costi del nucleare sono sostenibili solo per Paesi (come il Pakistan) che lo adottano per fabbricare la bomba; in particolare, emblematicamente, per un  Paese come la Francia, dove l'industria energetica è dello Stato, che l'ha integrata strettamente con la costruzione della "force de frappe"; mentre le industrie energetiche private statunitensi sanno da più di 20 anni che il nucleare non è conveniente!