Panorama, 26/1/2001
ATTUALITÀ
RIVELAZIONI LA VERITÀ SUI SERVIZI SEGRETI DI ENRICO MATTEI
Storia di una storia sporca. Di petrolio
http://www.mondadori.com/panorama/area_2/area_2_7118.htm

Le Sette sorelle e il generale De Gaulle, la Nato e il grande progetto di un gasdotto dall'Algeria
all'Europa: Mario Pirani, che fu «l'ambasciatore» dell'Eni in Nord Africa, svela il ruolo dell'Italia in
una delle partite più scottanti del dopoguerra.

di PASQUALE CHESSA

Mario Pirani, 75 anni, editorialista della «Repubblica», qui a fianco nel suo studio.

La settimana scorsa un giudice italiano, Vincenzo Calia della procura di Pavia, riapre dopo 40 anni il caso Mattei: il presidente dell'Eni sarebbe stato vittima di un complotto di Stato alla cui trama avrebbe partecipato anche Amintore Fanfani. A dicembre dell'anno scorso, la Francia è scossa dal pentimento del generale Massu, il «vincitore» della battaglia di Algeri, che racconta come i suoi «paras» si servirono della tortura per estorcere le confessioni ai prigionieri algerini. Un amaro riconoscimento per l'Algeria di oggi, dilaniata dalla sfida fondamentalista dei Gruppi islamici armati, cioè Gia, la sigla del terrorismo religioso che ancora semina la morte nel paese. Così, quarant'anni di indipendenza hanno portato la nazione sul bordo di un baratro storico, culturale e politico.

Mario Pirani, 75 anni, editorialista fra i più seguiti della Repubblica, è stato protagonista, 40 anni fa, su quella scena della storia internazionale, quando anche l'Italia giocò per un momento un ruolo di rango, e ne porta un ricordo che i libri non sono riusciti a imbalsamare e il tempo a cancellare. Con lui, perciò, abbiamo deciso di cominciare questa nuova serie intitolata «Archivi della memoria», per ricostruire in presa diretta le vicende più controverse di un passato che torna sempre di attualità.

C'era una volta la guerra d'Algeria. C'era una volta Enrico Mattei... Due storie i cui nessi sembrano perdersi nel passato, che oggi la cronaca ripropone con rinnovata drammaticità. Può la memoria ridare un senso nuovo alla storia?

Ero appena uscito dal Partito comunista italiano quando Mattei mi chiese se volevo tenere i rapporti tra l'Eni e la resistenza algerina. Venivo dall'Unità. Vi ero rimasto anche dopo il 1956, responsabile delle pagine economico-sindacali. Avevo resistito dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria pensando che fosse possibile mantenere una posizione di minoranza esplicitamente critica all'interno del partito. Ma quando ci fu la seconda condanna del maresciallo Tito e poi la fucilazione di Imre Nagy, capii. Perciò accettai con entusiasmo la missione a Tunisi. Per me si trattava di qualcosa di enorme interesse: «ambasciatore» dell'Eni nell'Africa mediterranea, per tenere rapporti diretti con i dirigenti dell'Algeria libera! Mattei mi fece aprire un ufficio di copertura, con una etichetta di comodo che si chiamava «Bureau pour les liaisons avec la presse de l'Afrique du Nord», una specie di ufficio stampa per giornali che di fatto non esistevano. Durò poco più di un anno, fra il 1961 e il 1962, ma fu un'esperienza intensa, bellissima. Mattei, non senza un'enfasi che adesso mi fa un po' sorridere, mi fornì di vere e proprie credenziali in una cartella di marocchino verde, per i governi amici, cioè il governo provvisorio algerino, il governo tunisino e il governo marocchino.

Mattei aveva il potere di mandare in giro per il mondo un suo ambasciatore?

Più di uno, come vedremo. Alla fine degli anni Cinquanta, la politica estera italiana non solo era fortemente atlantica, come è ovvio, ma anche filofrancese. Enrico Mattei, presidente dell'Eni, interpretando gli interessi dei popoli arabi produttori di petrolio, invece, spostava l'asse diplomatico della Farnesina. L'Italia, che già non godeva la piena fiducia dell'America, si proponeva come il laboratorio di una politica estera anticoloniale, terzomondista, pacifista e al limite neutralista. Concetti impensabili in quegli anni. Che mandavano in bestia gli alleati. Il centrosinistra, seppur imminente, sembrava ancora lontano. Perciò la politica di Mattei prefigurava quella che sarebbe stata negli anni seguenti la politica dei governi italiani. Pochi capirono quello che stava succedendo. Solo un piccolo gruppo di diplomatici intuì l'aria del tempo: li chiamavano Mau Mau, come i ribelli kenyoti protagonisti della rivolta antibritannica, per indicare le loro propensioni terzomondiste. Ma per i disegni di Mattei, i Mau Mau della Farnesina non bastavano. Il filoarabismo democristiano è di là da venire, infatti. Mattei lo anticipa per ragioni di politica e di industria. Pensa che ci possa essere uno spazio nei paesi del Terzo mondo per una presenza italiana nel campo energetico. Crea una diplomazia parallela, stringe rapporti con la Cina e con l'Unione Sovietica per avere il petrolio e il gas, si scontra con gli interessi dell'America e delle società internazionali che gestiscono il petrolio, le famose «sette sorelle». Fu creata una diplomazia parallela, con «legazioni» a Beirut, Washington, Buenos Aires, governata prima da Giorgio Ruffolo, l'economista socialista del centrosinistra, e poi da me, al ritorno in Italia dalla Tunisia.

Vi chiamavano «porteurs des valises»... E dentro le valigie dell'Eni c'erano i soldi, secondo i servizi segreti anche armi, per la lotta anticolonialista dell'Algeria contro la Francia.

Non si trattava di soldi, perché gli algerini ne avevano parecchi. Per conto dell'Eni, invece, offrii di rifornire di benzina, di carburanti la loro armata alle frontiere, un vero e proprio esercito «esterno» dislocato lungo la frontiera tunisina e marocchina, che corrispondeva all'esercito clandestino «interno» descritto e mitizzato nel bellissimo film di Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri. Ma ricevetti un rifiuto. I dirigenti del Fronte nazionale di liberazione algerino mi risposero: noi abbiamo già la Shell e la Esso che ci riforniscono. Denaro ne correva poco in realtà. La vera merce di scambio era il potere internazionale. La posta in gioco era politica, economica, diplomatica.

Personaggi e interpreti
Ognissanti. Il 1° novembre del 1954, con una serie di attentati in tutta l'Algeria, comincia la guerra di liberazione dal dominio coloniale francese.  Jacques Massu. Colonnello dell'esercito francese che nel 1957 vinse la cosiddetta battaglia di Algeri costringendo il governo provvisorio a scappare a Tunisi. Infausta vittoria: l'opinione pubblica mondiale si schierò con gli algerini.
Ben Bella. Il suo trionfale ingresso ad Algeri il 3 luglio 1962 segna l'inizio dell'indipendenza dell'Algeria, ufficialmente proclamata due giorni dopo.
Oas. Organizzazione terroristica di destra nata nel 1961 per impedire l'uscita dei francesi dall'Algeria.
Gia. Gruppi islamici armati: dal 1994 seminano il terore nel paese.

Perché fu scelta Tunisi?

Perché lì si era rifugiato il governo provvisorio scacciato da Algeri dai paracadutisti del generale Massu. Per la guerra d'Algeria, Tunisi è stata quello che fu Madrid per la guerra di Spagna. Il Tunisia Palace, un albergo bianco che adesso non c'è più, con le finestre azzurre, tipico hotel coloniale con una corte con al centro un albero di sicomoro e un grande bar con un bancone di legno di mogano, era il centro di quel mondo: ci trovavi i capi del governo provvisorio, gli americani che volevano impadronirsi dei giacimenti petroliferi dell'Africa del Nord, il ministro dell'Informazione algerino Mohammed Yazid che dava le notizie a Jean Daniel, ora direttore del Nouvel Observateur, allora già mitico giornalista della «rive gauche», leader indiscusso del Maghreb Circus (così venivano chiamati gli inviati, i diplomatici gli intellettuali che seguivano tutti insieme, spostandosi fra Algeri, Tunisi, Rabat e poi Evian, lo svolgersi della guerra d'Algeria). Sotto il ritmo di una dolce vita mediterranea, però, si svolgeva una sorda lotta sommersa a colpi di notizie e affari, spiate e indiscrezioni, informazione e disinformazione. Io avevo l'ufficio a Tunisi ma vivevo in una bella villa a Gammarth, sul mare oltre Cartagine, Dar Jasmina (la casa dei gelsomini). Ricevevo a pranzo e cena con ricco decoro, alle mie feste sobrie e raffinate si incontravano diplomatici di rango, guerriglieri algerini, inviati speciali e spie internazionali.

Insomma, un po' come trovarsi a Casablanca con Humphrey Bogart alla fine della guerra mondiale...

Lasciamo perdere i film. C'era una realtà ancora più sommersa, che noi non vedevamo, una guerra civile fra le fazioni algerine, fra vecchi e nuovi nazionalisti, comunisti, indipendentisti, neogiacobini... Gli algerini avevano costruito a Tunisi vere proprie prigioni segrete per gli oppositori interni. Saranno conti che dopo l'indipendenza l'Algeria ha pagato e paga ancora oggi. Molti dei politici che hanno fatto l'indipendenza linera sono rimasti vittime delle lotte intestine per il nuovo potere. Fu un'illusione credere che la «rivoluzione» algerina fosse il massimo esperimento di nuova democrazia anticoloniale.

Ma oltre alle feste a Gammarth e le serate al Tunisia Palace, Pirani cosa faceva in concreto?

Trattavo con Benyoussef Ben Khedda, presidente del governo provvisorio, con Belkacem Krim, ministro degli Esteri, ma anche con Abdelhafid Boussuf ministro degli Armamenti... E tanti altri come Mohamed Boudiaf, giovane protagonista della rivolta d'Ognissanti che nel 1954 diede il via alla guerra d'Algeria, nemico di Ben Bella, scappato poi in Marocco, richiamato dopo 30 anni alla presidenza della repubblica per governare col suo antico prestigio la rivolta islamista, e ucciso dalla sua guardia del corpo nel 1992... Ma questa è storia di oggi. Allora il mio compito principale era di preparare un grande accordo per portare in Europa, dopo la guerra, il metano del Sahara algerino. In cambio davamo agli algerini un aiuto politico, diplomatico, tecnologico: dalla formazione dei primi quadri della nascente industria petrolifera ai passaporti per aggirare gli ostacoli francesi, all'appoggio sulla stampa internazionale. Ma soprattutto mi occupavo di tutto il capitolo petrolifero degli accordi di Evian, dove si discuteva l'indipendenza dell'Algeria. Consigliammo gli algerini di non cacciare i francesi ma di creare un ente modello Eni, la Sonatrach, che coinvolgesse la Francia imponendo la sovranità petrolifera degli algerini. Mi dovevo difendere dai francesi che volevano boicottare l'accordo, ma anche dalla concorrenza di inglesi e americani che avrebbero voluto prendere il nostro posto. Perciò presi contatto con Claude Cheysson, che rappresentava gli interessi petroliferi francesi, che convinse De Gaulle della bontà del piano italiano. Un vantaggio per la Francia di De Gaulle che, collaborando con l'Eni, avrebbe assunto un volto più accettabile nei confronti dell'Algeria libera e indipendente. A questo scopo, sul modello dell'Agip italiana, fu creata l'Elf francese.

De Gaulle, le Sette sorelle, l'Alleanza atlantica, l'anticolonialismo... Ma qual era la vera posta in gioco?

L'accordo presupponeva la creazione di un gasdotto che dall'Algeria passasse per il Marocco, attraversasse Gibilterra, poi la Spagna e la Francia per approdare a Genova. Un disegno che intuiva il ruolo cruciale dell'energia nella politica internazionale prossima ventura, ma soprattutto metteva l'Italia al centro di una nuova diplomazia mediterranea, come emergente potenza energetica. L'Eni infatti, in cambio, avrebbe avuto concessioni in Sahara, attraverso la Francia sarebbe arrivato al petrolio dell'Iraq, Algeri sarebbe entrata nella rete Agip. Anche loro avrebbero avuto i distributori e i motel Agip che già avevamo esportato in Marocco e Tunisia.

Tutto finì con la morte di Mattei?

Il 27 ottobre del 1962, l'aereo di Mattei si schiantò a Bescapé. L'Algeria aveva proclamato l'indipendenza il 5 luglio. Con Ben Bella, passato dalla prigionia in Francia al vertice del nuovo stato, ogni accordo era stato perfezionato. In un primo momento il successore di Mattei, Eugenio Cefis, che sarebbe stato, prima con l'Eni e poi con la Montedison, l'emblema dello Stato padrone, si preparò a completare il progetto. Accompagnai Cefis ad Algeri, lo portai da Cheysson, plenipotenziario di De Gaulle, ci incontrammo con Ben Bella, gli algerini vennero a Roma per diventare nostri soci... D'un colpo, invece, ma tutto doveva essere già pronto da tempo, Cefis preferisce accordarsi con la Esso, facendo venire il metano dalla Libia con le metaniere. Per gli algerini fu una grande delusione, anzi un tradimento politico. Per l'Italia, non solo la fine di un nuovo ruolo diplomatico, ma anche un danno economico. Perché allora il petrolio costava molto poco, 2 dollari e 20 al barile, le crisi petrolifere degli anni Settanta hanno dimostrato quanto fosse lungimirante la scelta di Mattei.

Il primo attentato? Lo fecero con un cacciavite
Erano in tanti a volere la morte di Mattei. Ma tra questi non c'era Amintore Fanfani

«Sulla morte di Enrico Mattei ho due idee: fu un incidente oppure è stata la Cia attraverso la mafia»: così commenta Mario Pirani le nuove rivelazioni sulla morte di Enrico Mattei, che accuserebbero Amintore Fanfani. «Devo anche dire, però, che le minacce di morte più preoccupanti, in quel periodo, ci venivano dall'Oas, organizzazione segreta dell'esercito francese che, con il terrorismo, cercava di cambiare il corso della storia, impedendo l'indipendenza dell'Algeria. Anzi, mi ricordo che Jacques Soustelle, uno dei capi dell'Oas, venne in Italia proprio per cercare alleanze nella destra cattolica. Dai resoconti del colonnello Renzo Rocca, del Sifar, e dai rapporti del servizio segreto dell'Eni, fatto tutto di partigiani democristiani al comando di Mattei durante la Resistenza, risulterebbe che Soustelle prese contatti con Gianni Baget Bozzo, allora direttore della rivista Lo Stato, e con il deputato della destra dc Erminio Pennacchini. A quel tempo risale il famoso 'attentato del cacciavite'. Io aspettavo Mattei a Casablanca. Inutilmente. Non partì perché nel motore dell'areo dell'Eni era stato trovato proprio un cacciavite». Dice Nico Perrone, professore di storia americana, autore di una biografia di Mattei che sarà in libreria il 9 febbraio (nella collana Identità Italiana del Mulino, 187 pagine lire 22 mila): «Attribuire il complotto per la morte di Mattei ad Amintore Fanfani mi sembra una trovata per fare reclame all'inchiesta del procuratore Calia. È vero il contrario: gli americani erano molto preoccupati del fatto che la politica di Mattei attraverso Fanfani, suo principale referente, fosse arrivata al potere nella Dc e nel governo».

Il giudizio di Perrone, che su Mattei ha già scritto altri tre libri, si fonda su un'ampia documentazione storica spesso inedita, lascia aperta la soluzione del caso. Ciò che conta infatti non è capire come morì, ma come trasformò il modo di concepire la politica in Italia. Cyrus L. Sulzberger, editorialista del New York Times, così lo descrisse commentandone la morte: «La sua influenza spaziava nella politica italiana, nell'equilibrio della guerra fredda fra Oriente e Occidente, nei rapporti diplomatici di un'importante potenza della Nato con il blocco comunista e i neutrali afroasiatici».

Qualche anno prima, in una riunione segreta su Mattei, fra il Pentagono e la Casa Bianca, Arthur Schlesinger, special assistant di John Kennedy, lo descrisse con poche parole: «Enrico Mattei è il simbolo del nazionalismo economico dell'Italia».