PANORAMA on line
Martedì 2 Gennaio 2001
Esclusivo
La testimonianza di un militare italiano reduce dal Kosovo, a cui è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkins
http://www.mondadori.com/panorama/ultime/uranio.html

La morte di tre soldati riapre il caso: le truppe nei Balcani furono esposte a radiazioni?

La guerra in Kosovo è finita da un anno e mezzo, ma ritorna il fantasma delle armi usate nei bombardamenti Nato sulla Serbia.

Durante la guerra, infatti, numerosi caccia americani usarono munizioni all'uranio impoverito per distruggere i mezzi blindati di Slobodan Milosevic.

Si tratta di armi che anche a distanza di tempo possono essere nocive per la salute a causa degli effetti prolungati della radioattività. Ora la morte per leucemia di tre soldati italiani impegnati in una passata missione in Bosnia riapre qualche dubbio: i militari utilizzati nei Balcani furono esposti a radiazioni pericolose? E sarebbe stato possibile evitarle?  Lo stato maggiore della Difesa assicura a Panorama Online: «I casi di cui siamo venuti a conoscenza finora (tre soldati della brigata Sassari morti di leucemia, ndr) non sono di soldati che hanno operato nelle zone bombardate con uranio impoverito».

Eppure, ogni giorno vengono rivelati nuovi presunti casi di contaminazione con militari gravemente ammalati. Nel dibattito interviene anche la commissione Affari esteri del Senato: «Occorre compiere un salto di qualità per la sicurezza della popolazioni colpite, dei militari coinvolti nelle operazioni di bonifica, in ultima analisi per la messa al bando di tali micidiali ordigni, che uccidono a distanza di tempo», si legge in un comunicato.  «Le contromisure, a circa un anno e mezzo del conflitto» sottolineano i senatori «a questo punto riguardano essenzialmente protocolli di cura e prevenzione dell’insorgenza di tumori e leucemie».

Ma la commissione Esteri persegue anche un altro obiettivo: il divieto di impiegare armi all’uranio impoverito in possibili operazioni militari congiunte in ambito Nato visto che molti paesi del patto Atlantico, tra cui l’Italia, non dispongono di simili armi. «Ne consegue» conlude la nota della commissione Affari esteri «che nel passato in Somalia, nel Golfo, in Bosnia e ora in Kosovo, militari italiani e di altri paesi hanno corso enormi rischi - e probabilmente hanno contratto malattie specifiche - senza avere né background né know-how appropriati per il trattamento di tali sostanze».

Il ministro della Difesa Sergio Mattarella si è finora limitato a chiedere tutta la documentazione disponibile sui presunti casi di militari contaminati. Domenica sera a Modena, però, ha ammesso che anche in alcune zone della Bosnia (ma non a Sarajevo) sono stati utilizzati proiettili all’uranio impoverito e ha annunciato che interverrà giovedì prossimo alla Camera per riferire sulla situazione sanitaria dei soldati italiani nei Balcani.

Un necessario sforzo di trasparenza, dopo le altalenanti dichiarazioni dei mesi passati. Sin dall’inizio l’Esercito tranquillizzò: «Non c'è pericolo».

Ma Panorama a gennaio del 2000 scoprì un documento del 22 novembre '99 in cui si sosteneva il contrario. E chi lo aveva preparato? L'Esercito. Gli italiani inviati fin dal giugno 1999 nell'ex Jugoslavia non vennero messi al corrente del rischio.

Il documento dell’Esercito aveva questo titolo: "Oggetto. Uranio impoverito. Informazioni ed istruzioni". Seguiva una serie di capitoli: perché è pericoloso, chi lo ha usato durante i bombardamenti sulla ex Jugoslavia e, soprattutto, come devono comportarsi i soldati per evitare gli effetti delle terribili contaminazioni radioattive.

Quindici pagine, su carta intestata del nucleo Nbc (Nucleare, biologico, chimico), diffuso dalla Mnb-W (Multinational Brigade West), il comando militare italiano che (con spagnoli, portoghesi e argentini) opera nel Kosovo occidentale.

Il tenente colonnello Osvaldo Bizzari, che firmò il documento, scrisse: "È importante la diffusione a tutti i livelli" tra i reggimenti che formano la Mnb-W.

Sarebbe potuto essere solo un gesto di eccessiva cautela. Una nota informativa a scopo preventivo. Se non fosse stata datata "Pec, 22 novembre 1999". La "prevenzione", dunque, arrivava in ritardo. E tra gli effetti potrebbero esserci i casi di leucemia denunciati all’opinione pubblica in questi giorni.

Ecco perché: «L'inalazione di particelle insolubili di uranio impoverito» si leggeva ancora nel documento «è associata con effetti di lungo termine sulla salute, che includono tumori e disfunzioni nei neonati». Gli addetti ai lavori sanno bene che cosa sia l'uranio impoverito (in inglese depleted uranium, sigla Du). E che gli americani lo usano per rendere più efficaci i proiettili anticarro lanciati dai caccia A10.

C'è chi ha puntato il dito contro queste armi sostenendo che fossero all'origine della cosiddetta sindrome del Golfo che ha colpito i soldati americani nella guerra contro l'Iraq. Tanto che alcune stime indicano in uno su quattro i soldati reduci americani che hanno contratto tumori dopo la spedizione in Kuwaut del '90/'91.

Il Kosovo, secondo le prime ispezioni della stessa Nato, non avrebbe subìto il temuto inquinamento radioattivo da uranio impoverito. A Panorama lo assicurarono scienziati ed esperti non solo italiani, ma anche di numerosi organismi internazionali interpellati. La Balkan task force dell'Onu lavorò a lungo e non rilevò questo genere di inquinamento. Neanche l'Istituto di salute pubblica di Belgrado riscontrò livelli di radioattività superiori a quelli che si trovano in natura. Medici senza frontiere, l'organizzazione vincitrice del Nobel per la pace, controllò se ci fosse inquinamento da uranio impoverito e concluse che non era necessario alcun intervento medico specifico. E ancora, i risultati dell'indagine della Cric: l'ong italiana ha esaminato i campioni prelevati in nove località del Kosovo che presumibilmente erano state bombardate con uranio impoverito. Risultato: nessun aumento della radioattività.

Tutto tranquillo, dunque? Difficile dirlo, visto che la Nato ha indicato solo con molti mesi di ritardo i luoghi esatti in cui esplosero i proiettili all’uranio impoverito.  Grazie anche alle pressioni dell’Unep (l’agenzia per l’ambiente dell’Onu) e di una commissione nata in seno al ministero dell’Ambiente italiano nel marzo 2000.

Lo scorso 19 ottobre sono state finalmente diffuse le prime mappe dettagliate: la Nato ha indicato 112 siti presi di mira da oltre 30 mila micidiali proiettili in Kosovo, per un totale di circa 9 tonnellate di uranio impoverito rilasciato nella regione. Almeno 40 di questi siti si trovano nella zona di competenza del contingente italiano.

In ogni sito, secondo il sottosegretario all’Ambiente Valerio Calzolaio, «sono stati sparati mediamente 300 proiettili, ma secondo le informazioni ricevute dalla Nato in alcune zone si arriva a 900».

Lo stesso segretario riporta però anche notizie confortanti: «I picchi di contaminazione sono pochi e il quadro non è allarmante. Ma occorre un atteggiamento di grande cautela anche perché i tempi di latenza di eventuali danni causati dalla contaminazione da proiettili all’uranio impoverito non sono brevi, ma si vedranno solo tra qualche anno».

Anni di timori e ansia non solo per i soldati italiani che hanno partecipato e partecipano alle missioni di pace, ma anche per i volontari, il personale delle ong e soprattutto le popolazioni civili dei Balcani.

Antonio ha 23 anni, è sardo, è un reduce dai Balcani, precisamente da Skopje in Macedonia, zona di confine rispetto alle aree colpite dai bombardamenti con proiettili all’uranio impoverito. Da poco più di un anno gli hanno diagnosticato un linfoma di Hodgkins. Per rispetto della privacy di una persona malata, che chiede di rimanere anonima, il nome è di fantasia (quello vero è comunque noto all’autore di questo articolo). La sua storia è drammatica.

Panorama Online la racconta perché è una testimonianza dei timori sorti fra militari italiani che furono impiegati nei Balcani, o sono tuttora nell’area, dopo le notizie e le polemiche sull’impiego di proiettili all’uranio durante la guerra contro la Serbia di Slobodan Milosevic. Del resto, dopo l’allarme lanciato dall’Osservatorio per la tutela della Forze armate e l’istituzione di una commissione scientifica d’inchiesta, nominata dal ministro della Difesa Sergio Mattarella, i dubbi continuano a essere più delle certezze.

Ecco la testimonianza di Antonio.

Quando si è accorto della malattia?

Ero da pochi mesi rientrato in Italia dopo la missione nei Balcani, cui avevo preso parte come volontario. Avevo appena finito il corso per diventare effettivo ed ero stato assegnato a una caserma del Nord. Un lavoro che mi piaceva, ma che è durato poco: presto mi sono accorto di non stare bene.

Quindi?

È iniziato il calvario in ospedale, fino alla diagnosi, e la trafila burocratica fra la caserma e il distretto militare, solo per mandare i documenti necessari ad attestare la malattia.

Vuol dire che nessuno, da parte delle autorità militari, si è interessato al suo caso in tutto questo tempo?

Ho affrontato da solo la malattia e le cure. E solo adesso vengo a sapere che forse proprio in quella che doveva essere una missione di pace potrei essere stato contaminato.

Ma sapevate dei bombardamenti con uranio impoverito?

Sono stato in Macedonia tre mesi, fino a giugno del ‘99, allora non ne sapevamo nulla. Eravamo lì per approntare una base da cui raggiungere il Kosovo. Ci siamo trovati invece a fronteggiare i profughi: una vera emergenza umanitaria. Avevano bisogno di tutto, i bambini anche semplicemente di giocare. Noi lo facevamo.

Avevate equipaggiamento adatto per allarmi chimici-biologici?

Avevamo speciali guanti, tute e stivali Nbc. Ma non li usavamo: non c’era allarme.

Rimpianti?

Che un’esperienza umanamente bella e importante si stia trasformando in un incubo. Mi sento abbandonato a me stesso. E poi mi rimane un dubbio.

Quale?

Se sapevano di un possibile pericolo per la salute, perché al rientro in Italia non ci hanno fatto fare subito analisi e controlli adeguati?