15 settembre 2001
Una task force di analisti per affrontare la crisi
di Marco Saba

I recentissimi e tragici fatti accaduti a New York impongono un momento di riflessione. Mentre tutti si chiedono "chi è stato", si trascura un'altra domanda più urgente: "perché è stato fatto?". La notizia diffusa dalla CNN secondo la quale sarebbero stati licenziati gli interpreti dall'arabo che scrutinano i messaggi provenienti dall'area islamica è semplicemente inquietante. Ma non basta da sola per spiegare il fallimento dal punto di vista della prevenzione del terrorismo da parte delle numerose agenzie americane. Oltre a raccogliere notizie ed informazioni, occorre una raffinata capacità di analisi - di intelligence - e un adeguato bagaglio culturale per capire il senso di quanto analizzato. Per interpretarlo dal punto di vista di chi genera le informazioni - e non da quello, talvolta molto lontano, di chi tali analisi commissiona.

E' un vecchio problema: si cerca più o meno involontariamente di compiacere il committente dell'intelligence e la sua linea politica (Ministero degli Esteri, Casa Bianca, Presidente, etc.) perdendo di vista l'oggettività su quanto accade. Il rischio è di sprecare ingenti risorse in studi ed analisi inutili che possono addirittura influire negativamente su una politica estera - quella della più grande superpotenza - che finisce per condizionare la vita di tutti gli abitanti del pianeta. Allo stesso tempo una task force di analisti internazionali, ancorché in grado di effettuare bene il suo lavoro, serve a poco se i messaggi che genera non vengono presi nella dovuta considerazione, cioè se non vanno a far parte del bagaglio attraverso il quale vengono impostate le politiche e prese le decisioni (politica estera, politica finanziaria, diplomazia, etc.) da parte dei committenti.

Solo conciliando questi due fattori:
1) potenziamento culturale della capacità di analisi
2) volontà di utilizzare i risultati di intelligence ottenuti
si può a mio avviso riuscire ad operare nel senso della prevenzione della violenza e del terrorismo.

La violenza genera violenza, lo sappiamo, ed è proprio per questo che al cittadino della strada pare irrazionale sentire in televisione la minaccia di una nuova guerra - come se dalla fine della seconda guerra mondiale ce ne fossero state poche - una ennesima occasione per rinfocolare l'astio tra l'occidente e il mondo islamico. Se 55 terroristi hanno deciso di suicidarsi per compiere un attacco al cuore finanziario del sistema occidentale - le due torri gemelle di Manhattan - certamente esiste una volontà forte di combattere, attraverso un simbolo, un intero modo di fare politica estera.

Da Vespa abbiamo sentito le parole di Padre Benjamin - ex funzionario delle Nazioni Unite che da anni si occupa della vicenda irachena. Cosa diceva? Che in questi ultimi anni aveva messo in guardia ministri e deputati su come il conflitto iracheno veniva sentito dall'anima del mondo islamico. Lo scandalo vergognoso delle armi all'uranio impoverito che stanno avvelenando la popolazione irachena (ad oggi si parla di due milioni di morti), ma guarda caso anche quella di altri stati a maggioranza mussulmana - Bosnia, Kossovo e chissà quali altri. Penso ad esempio al Pakistan che ha una fabbrica di proiettili all'uranio ed alla popolazione civile che vi vive attorno, oppure all'Arabia Saudita dove armi e carrarmati all'uranio vennero venduti in quantità. Non a caso il medico ex-responsabile del programma uranio impoverito del Pentagono - Asaf Durakovic - adesso opera nel reparto oncologia dell'Ospedale di Riad. E come riassume Benjamin il risultato del suo lavoro? "Hanno fatto tutti orecchie da mercante".

Ma se l'Italia e gli USA sono veramente alleati, non sarebbe stato nostro preciso compito avvertire il nostro alleato anche magari dicendogli qualcosa che non gli piaceva sentire? E invece ci appiattiamo sempre sulle posizioni ufficiali degli USA, col timore di non essere bene accetti, e rinunciamo ad un prezioso contributo critico che chissà, se ascoltato in tempo, magari avrebbe potuto impedire questa escalation di violenza.

La condizione della religione islamica è particolare, i suoi adepti si considerano cittadini di una nazione universale chiamata ISLAM, qualcosa che travalica gli stessi confini geopolitici locali. Attaccare uno stato islamico è un po' come attaccare tutto l'Islam. Per questo preoccupa terribilmente l'ipotesi di un conflitto in Afganistan, un conflitto probabilmente pensato per rincuorare il desiderio a caldo di vendetta del popolo USA ma che minaccia di innescare una spirale imprevedibile di violenza che non avrebbe virtualmente più confini.

Una proposta alternativa potrebbe consistere nel destinare le risorse che si vorrebbero impiegare in questa guerra per cercare di gettare acqua sul fuoco e avviare importanti iniziative diplomatiche per trovare un terreno d'intesa con l'Islam. Per avviare verso la pace il perenne conflitto Israele-Palestina, per trovare delle alternative al conflitto in Sudan ed al decennale bombardamento dell'Iraq.

Non si tratta di capitolare sotto la minaccia del terrorismo, si tratta di reinventare una politica estera SOSTENIBILE che non porti ritualmente il mondo a spaccarsi in due - prima USA contro URSS, ora USA contro ISLAM - solo per favorire l'industria degli armamenti e per depredare i nostri vicini di casa. Gli USA li vorremmo vedere uniti non dal desiderio di vendetta - vengono in mente i linciaggi del tempo del Far West - ma da una consapevolezza che "globalizzazione" vuol dire trovare terreni comuni d'intesa tra i popoli. L'esercizio della forza e del dominio da soli non bastano. Non è continuando ad esasperare gli animi che possiamo immaginare un futuro migliore in un mondo dove la realtà reale arriva via Internet alla velocità della luce.

marcosaba@rusitalia.com