Il Manifesto, 21 gennaio
Nonsolouranio
http://www.ilmanifesto.it/oggi/art25.htm
LORIS CAMPETTI - INVIATO A BELGRADO

 L'uranio impoverito, sotto questo ponte, sembra lontano mille miglia. E non perché gli abitanti della discarica di Belgrado siano immuni dagli effetti sulla salute della radioattività: dei duemila e duecento rom che vivono nel luogo più infernale della capitale serba, duemila sono profughi del Kosovo, scacciati durante i 78 giorni di guerra umanitaria più che dalle bombe, dalla pulizia etnica pianificata dall'Uck. Delle leucemie di questa povera gente, l'ultimo anello della scala sociale, sapremo tra qualche anno, o più probabilmente non sapremo mai. Molti moriranno prima di fame e di lectospirosi o saltando su una bomba inesplosa tra gli sterpi della riva destra del Danubio. Chi sopravviverà agli stenti, ai morsi delle pantegane e alle cluster bomb non entrerà mai in alcuna statistica, e difficilmente incontrerà un medico nella sua vita. Questi duemila dannati non esistono per il nuovo governo di Belgrado, come non esistevano per quello vecchio. Siamo arrivati nell'ultimo girone dell'inferno regalato a questo paese dall'intervento umanitario della Nato dopo aver sentito racconti raccapriccianti sulle condizioni sanitarie della più povera comunità zingara di tutta la ex Jugoslavia. Qui due neonati sono stati letteralmente divorati da topi di fogna più grandi di loro, come ci conferma la responsabile della "Società per lo sviluppo della comunità rom", che insieme all'ingegner Vojin Kicia Marcovic sta costruendo un progetto per aiutare queste duemila invisibili vittime. Ora gli uomini della comunità hanno stabilito un sistema di turni notturni per difendere le baracche di cartone e di latta dall'assalto dei topi. "Prima delle elezioni Milosevic aveva mandato qui una sola volta una squadra di disinfestazione: avevano messo il topicida sopra i tetti delle baracche e appeso un cartello che raccomandava ai bambini di fare attenzione al veleno. Ma i bambini non sanno leggere, molti hanno mangiato il topicida e si sono ammalati", ci racconta Marcovic accompagnandoci attraverso il campo. Per fortuna uno spesso strato di ghiaccio ricopre il fango e si riesce a camminare senza sprofondare. Nelle tre uniche bocche d'acqua che servono l'intero accampamento le donne, circondate da nugoli di bambini, riempiono secchi e bidoni. A dieci metri alcuni camion arrivati attraverso l'unica strada sterrata che unisce questo luogo alla città scaricano immondizia, tanto per la burocrazia non ci vive nessuno, e altri due lavano le cisterne. A fare gli onori di casa è Mjloiko Recep, il "sindaco" del campo. Ha 48 anni, una moglie, quattro figli e sei nipoti, è stato eletto nel consiglio della municipalità e presiede la commissione incaricata di occuparsi dei rom. Mjloiko è uno dei 125 rom storici, abita qui da molto prima dei bombardamenti, mi mostra con orgoglio il telefonino che gli ha regalato la municipalità dopo l'elezione. "Vedi, quella là è la raffineria, ho ancora negli occhi le bombe che cadevano e subito dopo le fiamme alte fino al cielo. E quello è il petrolchimico di Pancevo, arrivavano gli aerei, sganciavano, una nuvola nera si levava e il vento la portava qui sopra. Poi sono arrivati questi poveracci da Pristina, da Prizna, da Kosovo Polje, da tutto il Kosovo. Da 125 siamo diventati più di duemila, guarda come viviamo". Mute di cani, chi zoppo chi malato, ci seguono nella nostra visita, insieme a frotte di bambini piccolissimi ricoperti solo da una maglietta e un paio di pantaloni. Hanno lo stesso sguardo, cani e bambini, la stessa fame. Nell'aria la puzza di immondizia è coperta solo dall'odore acre dei pezzi di carbone grezzo bruciato nelle stufe e negli spiazzi. "Ieri abbiamo dato a tutti un po' di cavolo, oggi abbiamo iniziato a riparare i tetti. Parlare di costruire prefabbricati - ci dice Markovic - è fantascienza, dati i costi. Ci vorrebbero 15 milioni di marchi. Al massimo possiamo provare a far sopravvivere i bambini durante l'inverno. Medici e infermieri non sono mai entrati qui, questo campo per le autorità non esiste". Il progetto, fatto con due ong rom e finanziato con 500 milioni di lire dal Consiglio d'Europa, prevede la canalizzazione dell'acqua per distribuirla nel campo, un po' di assistenza alimentare e la formazione sanitaria di un certo numero di membri della comunità: "La settimana scorsa si è insegnato a un po' di donne a spidocchiare i bambini". Il 40-50% della comunità è costituita da bambini e ragazzi, dei 500 in età scolare solo 20 vanno a scuola: "Mio figlio non ha tempo, deve lavorare". Il figlio di Mehmed ha 13 anni, va a raccogliere cartoni nella spazzatura e li rivende. Invece Marko, sei anni, a scuola non va perché si vergogna: "Ci prendono in giro per come siamo vestiti". "La scuola è lontana - spiega il sindaco - e nessuno ha i soldi per i libri e i quaderni". Arriviamo al confine del campo, a pochi metri dal Danubio, dove c'è una casetta di legno in costruzione: "Qui faremo una specie di asilo per i più piccoli". Con Mjloiko entriamo in una baracca, due metri per tre dove vivono venti persone. Pareti e soffitto di latta, consunti tappeti sistemati sopra il fango e il ghiaccio per pavimento. Per me fanno un'eccezione e non mi chiedono di togliere le scarpe entrando. In un lato c'è una stufa, nel resto della stanza tappeti e un divano. Ci ricevono in dodici, Zukla dà un urlo ai bambini e in sei saltano giù dal divano per lasciarmi sedere. Zukla sta preparando con l'aiuto delle figlie più grandicelle una specie di pizza con le cipolle e qualche fagiolo. Una bambina di sei anni tiene in braccio una biondina di cinque mesi, Sonita. Zukla la prende, me la mostra, mi fa vedere una ferita al collo: "E' stata morsicata da un topo la scorsa settimana, l'abbiamo portata in ospedale perché non respirava e le hanno fatto un'iniezione. Ora dovrei curarla come mi hanno detto i dottori, ma dove li  trovo i sold i per le medicine?". Questa famiglia viene da Kosovo Polje: "Non siamo mai stati ricchi, ma almeno in Kosovo avevamo una casa con quattro stanze. Gli uomini lavoravano, chi in un'impresa di pulizie, chi in un'azienda di ferramenta. Siamo scappati a giugno del '99, quando quelli dell'Uck ci hanno bruciato la casa. Qui mi manca tutto, guarda come siamo ridotti. Mi piacerebbe tornare, ma ormai non ci spero più: ci ammazzerebbero tutti quanti, a quanti di noi è già successo...". Mjloiko distribuisce un dolcetto a ogni bambino. Ci avviamo verso altre baracche, tutte uguali a quella di Zukla: stesse storie, stessi ricordi dal Kosovo, terra negata e sognata. In ogni baracca la stessa puzza di carbone e immondizia. La baracca di Mehmed invece non puzza, la stufa è rotta: "Amico, me la fai avere una stufa?". La luce non c'è: "Non so se spendere i soldi raccolti da mio figlio vendendo cartoni per curare me e mio marito epilettico o per dare da mangiare a questi quattro bambini. Guarda questo qua - mi dice sollevando il bambino più piccolo, un anno e mezzo - è pieno di croste e non ho neppure l'acqua per lavarlo. Nel mio villaggio in Kosovo, vicino a Urosevac, avevamo una casa e mio marito lavorava. Poi sono arrivati quelli dell'Uck... Ma una stufa me la fai avere?". Lo scopo del progetto, finanziato dal Consiglio europeo, è di creare una comunità autogestita e sopperire alle esigenze fondamentali: "Per intervenire sulla situazione sanitaria, invece, non ci sono i soldi. Cerchiamo un finanziatore", dice l'ingegnere. Finiti i dolcetti - ce li aveva preparati una famiglia operaia di Kragujevac che dopo il bombardamento della Zastava vive, anzi non riesce a vivere, con 13 marchi al mese - che Mjloiko ha distribuito con parsimonia in tutte le case visitate, ci avviamo verso l'automobile, circondata da bambini e cani. Mjloiko ci stringe la mano, ha uno sguardo dolce: "Ti aspetto alla festa di santa Bibia, la santa zingara. Torna a trovarci". Qui, sotto il ponte che unisce Belgrado a Pancevo non si parla di uranio, la guerra uccide prima delle sue stesse radiazioni. Con l'amica serba che mi accompagna restiamo a lungo in silenzio. Rabbia e dolore strozzano le parole, riusciamo solo a elaborare un progetto: altro che tribunale dell'Aja, basterebbe portare qui i leader della Nato, magari in compagnia di Milosevic, e costringerli a viverci.