Liberazione, 14 giugno
La denuncia del padre: abbandonati dallo Stato
Linfoma, il calvario del soldato Rino

Il padre di fronte al Municipio. E’ incatenato sotto un sole cocente nella piazza di Trapani. E’ stretto con le catene ai polsi per il figlio Crispino o Rino come lui preferisce essere chiamato. E’ disposto a tutto pur di ottenere una giustizia che stenta ad arrivare. A fianco la moglie che ieri notte è tornata a dormire accanto al marito. Chiedono una cosa: assistenza per il figlio malato che ha contratto il “linfoma non Hodking a grandi cellule B” ovvero tumore alle ghiandole linfatiche durante il periodo di servizio di leva. Rino era a bordo della Perseo quando ha cominciato a sentire i primi malori. «Aveva giurato fedeltà allo Stato questo mio figlio», continua Giuseppe, ed era partito in missione per l’Albania. Dieci giorni a bordo della fregata insieme a francesi, tedeschi, americani, inglesi, a caricare i lanciamissili e a sparare di notte nel vuoto. «E’ andato a servire lo Stato - continua -. Questo stesso Stato che me lo ha riconsegnato malato e che ora non mi dà modo di curarlo perché io lavoro solo quattro mesi l’anno e mia moglie è disoccupata. Io voglio che Rino abbia una vita normale come tutti. Voglio che gli venga riconosciuta subito la causa di servizio e non tra cinque o venti anni. Voglio che il suo dolore sia lenito dalla speranza di una vita migliore». E’ stanco e affranto Giuseppe, ma quella rabbia che nasce dal dolore non l’ha persa. E la storia di Rino ha il sapore amaro e forte della vita, di chi non ha più nulla da perdere. «Dopo il ritorno a Taranto - ricorda lui stesso - avevo mal di testa e vomitavo continuamente. Per tutta risposta i sanitari dell’ospedale militare mi dicono che ho la gastrite e che non voglio fare il servizio militare. Così mi rispediscono per qualche giorno a casa e poi mi trasferiscono a Messina. Sto male, sempre più male, il mio male non mi dà tregua. Così mi fanno altri accertamenti e mi dichiarano idoneo. Mi rispediscono da Messina a Pantelleria presso il centro Mariradar, era un posto bellissimo dal quale vedevo un panorama che sogno anche oggi». «Me lo mandano su una torre alta 50 metri, mio figlio - ricorda il padre - a controllare gli apparecchi radar. Una torre maledetta dove ci sono impianti e antenne paraboliche, apparati per le telecomunicazioni», insomma un posticino suggestivo, un pullulare di radiazioni elettromagnetiche. «Lo fanno stare lì giornate intere. Montava la mattina alle 9 e smontava alle 16 e trenta del giorno dopo», e la rabbia monta, non dà tregua. «E’ tornato malato». Il congedo Rino lo consegue il 23 aprile 2000. A Pasqua, durante una gita con amici al luna park, urta il ginocchio destro contro un pezzo di ferro e il dolore non lo abbandona più. Basta un’analisi per confermare i risultati: tumore. E da allora comincia un calvario che non è ancora terminato. Rino ha venti anni. Tra non molto sarà riconosciuto invalido civile al 100% ed è iniziata quella lunga e penosa richiesta per il riconoscimento della causa di servizio che non si è ancora conclusa. E mentre Rino è in casa, con le sue stampelle, in preda ai suoi mal di testa, al vomito e alla febbre, circondato dall’affetto dei suoi cari, suo padre è lì incatenato in piazza a chiedere e pretendere una giustizia che si spera arrivi. «Mio figlio ha bisogno di affrontare la speranza di una vita migliore - dice la mamma Vincenza - e noi non gliela possiamo garantire perché non abbiamo soldi per farlo. Non possiamo più aspettare che lo Stato si decida a risarcirlo. Di soldi abbiamo bisogno subito e non tra venti anni. Io sono disoccupata. Mio marito lavora solo 4 mesi l’anno. Non vogliamo carità. Chiediamo solo che lo Stato garantisca i diritti di tutti, che pensi ai suoi figli, soprattutto a quelli più deboli che hanno più bisogno di altri», e le lacrime smorzano il discorso.

Castalda Musacchio