Liberazione, 14 giugno
Caro Mandelli, ritira la relazione sull’uranio

Gent. mo Prof. Mandelli, ho avuto modo di analizzare in dettaglio la Sua seconda relazione sull’uranio impoverito. Mantengo e confermo tutte le perplessità e preoccupazioni per le conclusioni già manifesateLe a proposito della prima relazione. Quando Le posi la questione dei dati necessari per il lavoro della commissione, Lei mi rispose che questi glieli avrebbe forniti il ministro della Difesa. Ma dalle relazioni risulta che questi dati essenziali non le sono stati forniti. Infatti, in particolare per quanto riguarda la Bosnia, non risultano i dati spazio/temporali circa gli obiettivi colpiti con le armi all’uranio ed ancora meno le posizioni dei militari relativamente a questi obiettivi, mentre è evidente che la pericolosità di un’arma all’uranio per l’uomo dipende dalle distanze a cui l’uomo si è trovato dai luoghi d’impatto. E se non si conoscono le posizioni relative non ci si può fare neppure un’idea del pericolo a cui è esposto. La distanza non è certo l’unico fattore da prendere in considerazione, ma naturalmente è fondamentale. Le norme di sicurezza adottate dalla Forza Multilaterale ovest nei Balcani, stabiliscono in 500 metri la distanza di sicurezza per un obiettivo costituito da un carro armato distrutto. Avvicinarsi a una distanza inferiore rappresenta chiaramente un rischio. Comunque viene fornito un ordine di grandezza nel senso che il rischio per una distanza più ravvicinata rispetto ai 500 metri (ad esempio: 50 metri o 5 metri) e certamente superiore: mentre per una distanza più grande (5mila metri o 50mila metri) è certamente inferiore. Occorre stabilire quando la distanza è da considerarsi tale per cui il rischio diventa irrilevante. E questo deve essere chiaramente stabilito e motivato. Certamente solo una parte dei 40mila militari che hanno prestato servizio in Kossovo e in Bosnia si sono trovati a distanze comprese nei limiti entro i quali si ritiene che la possibilità di contaminazione sia irrilevante. A meno che, naturalmente, non si ammetta che non esistono limiti alla distanza alla quale l’uranio impoverito può presentare pericoli. Ma se accettiamo questa concezione (alcune particelle di uranio potrebbero in effetti essere trasportate dal vento per ogni dove) allora ad esempio anche 50 milioni di italiani hanno la possibilità di essere contaminati sul suolo patrio. In altre parole non si capisce in base a quale criterio si assumono come “potenziali contaminabili” dal rischio tutti i 40mila militari ipotizzati come presenti nell’area. Nelle relazioni non si fa alcun cenno sulle posizioni geografiche degli obiettivi colpiti in Bosnia eppure, come ebbi a precisarLe, questi obiettivi sono noti perché i raid aerei effettuati sulla Bosnia sono partiti, per la quasi totalità, dalla base di Aviano (al comando di un colonnello dell’Aeronautica italiana). E per ogni raid il pilota, nel suo rapporto di operazione, deve specificare quali obiettivi ha eventualmente colpito, le coordinate geografiche di questi obiettivi, i colpi impiegati (all’uranio e non). Ma nelle relazioni mancano sia i dati relativi alle posizioni degli obiettivi, sia quelli relativi alle posizioni dei militari rispetto a questi obiettivi. In queste condizioni che senso ha fare dei calcoli di pericolosità? Non è possibile esprimere alcuna seria valutazione. Ma come posso stabilire questo numero dei “potenziali esposti” se non si conoscono, quantomeno, le posizioni relative in cui si sono venuti a trovare i singoli militari, durante le esplosioni e dopo le esplosioni? La base dei dati per costruire gli studi doveva contemplare, obiettivo per obiettivo, analisi di questo tipo, pena la insignificanza dei risultati. Ma tutto ciò non risulta minimamente dalle relazioni. E’ inoltre completamente mancata una sperimentazione in “corpore vili”, una sperimentazione che doveva e poteva essere eseguita nei poligoni di tiro colpendo con armi all’uranio vari obiettivi (carri armati, edifici, ecc.) e sperimentando i possibili effetti di nocività prodotti dalle polveri di uranio, cioè dall’ossido di uranio. Non si capisce perché questo aspetto essenziale del metodo scientifico non sia stato neppure preso in considerazione. Mi fermo qui. Desidero peraltro aggiungere una considerazione di ordine generale relativa alla questione della incompletezza dei dati che condiziona negativamente le relazioni, cioè il “depauperamento” circa la base di riferimento. Mi auspico che questo non sia dovuto al fatto che trattando materiale “impoverito” sia stato ritenuto giustificato un “impoverimento” dei dati che lo riguardano! Sarò ben lieto di fornirLe ogni altra precisazione se queste mie osservazioni non sono risultate sufficienti a chiarire la problematica. Le mie vive preoccupazioni riguardano il fatto che sono state tratte dalle conclusioni, a mio avviso, non sufficientemente avallate da metodologie appropriate. Se posso permettermi di darLe un suggerimento sarei a chiderLe di ritirare le relazioni in attesa che possano essere riformulate su una base di dati che il ministero della Difesa deve fornirLe e che non lasci spazio ai gravissimi dubbi che possono sorgere sulle conclusioni. Quanto sopra limitandomi a valutare il piano formale-strutturale senza entrare nel merito della discussione sui contenuti che, come si sa, vede schieramenti di scienziati su posizioni nettamente contrapposte e certamente non concordi nell’affermare la nullità di rischi nell’uso dell’uranio impoverito.

Falco Accame