Liberazione, 31 dicembre
Uranio, un carabiniere accusa: «In Kosovo, allo sbaraglio»
«Mai visite mediche per noi che tornavamo da Pristina»
http://www.liberazione.it/giornale/31-12dom/SOCIETA/SOC-1/uranio.htm

«No, non è prevista alcuna visita medica per voi che tornate dal Kosovo». Così si è sentito rispondere un carabiniere al suo rientro al reparto dopo più di sei mesi di permanenza a Pristina. Chiede di restare anonimo ma accetta di raccontare a Liberazione la sua storia e l’angoscia per le notizie che si stanno diffondendo sugli effetti dell’esposizione all’uranio impoverito. «Nessuna visita - conferma il militare - anzi ci hanno chiesto di compilare e firmare un questionario con alcune domande generiche sul nostro stato di salute». Così, ai primi del 2000 l’anonimo interlocutore è rientrato al lavoro con una “idoneità autocertificata”. Il “nostro” carabiniere è un veterano delle missioni all’estero, negli ultimi anni ha prestato servizio in vari angoli del mondo. Grazie a questa esperienza, fin dalla partenza, le procedure sanitarie del contingente italiano della Kfor gli erano sembrate “strane”. «Normalmente - dice - il Cnsr, centro di selezione e reclutamento nazionale dei Carabinieri (che si trova in una caserma di Roma a Tor di Quinto) sottopone a visite specialistiche molto qualificate il personale che parte e che torna dall’estero. Per la campagna del Kosovo, invece, siamo affluiti tutti per un periodo di affiatamento e addestramento nella sede del battaglione Laives di Bolzano: lì la visita è durata 10 secondi poi il medico mi ha detto “sei idoneo, divertiti”». Al rientro dalle zone di guerra i carabinieri credevano di poter essere sottoposti a visita almeno nell’ospedale militare di competenza ma sono tutti stati dirottati nelle infermerie di reparto. «Questo perché all’interno dell’arma si tende a “lavare i panni sporchi in famiglia” - spiega - mentre in ospedale sarebbero più propensi ad assegnare convalescenze o a riconoscere cause di servizio». Il nostro interlocutore è giunto a Pristina nel giugno del ’99 ed era lì alla fine di novembre quando, con cinque mesi di ritardo, uscì la prima blanda circolare sulle precauzioni da usare a proposito di uranio impoverito. «Le posso garantire che mi interesso molto di queste cose ma non ho mai letto le istruzioni di cui stiamo parlando. Si andava in pattuglia senza neanche la mascherina…». Rischia grosso il nostro interlocutore: se fosse individuato andrebbe sicuramente incontro allo stillicidio di punizioni e di mobbing destinato, nella quarta forza armata, a tutti coloro che mettono in dubbio la verità ufficiale. Ma il racconto prosegue: «Il nostro quartier generale era circondato, a meno di un chilometro in linea d’aria, dalle macerie di vari comandi di battaglione dell’esercito serbo, tutte strutture rase al suolo dalle “bombe intelligenti”. Per raggiungere il quartier generale della Kfor dovevamo passare su strade e contrade devastate dai raid». Come fa ad essere certo che si trattasse di ordigni all’uranio visto che ufficialmente nessuno vi ha mai messo al corrente, chiedo interrompendo i suoi ricordi. «Ci siamo sempre chiesti che cosa veniva usato per provocare quei crateri - risponde - anche se i nostri ufficiali non ne hanno mai fatto menzione». «L’uranio impoverito fonde le lamiere, e le carni, del bersaglio - precisa - non le squarcia come invece fanno i proiettili convenzionali. Anche ora, i miei colleghi a Pec sono alloggiati in una ex caserma della polizia serba bombardata dagli A/10 Usa e l’asfalto della strada per Pristina è lastricato di fori profondi mezzo metro e larghi cinque centimetri provocati dai proiettili perforanti calibro 20». E’ questo lo scenario in cui sono costrette a vivere le popolazioni locali e in cui operano i soldati italiani. Si tratta di personale impegnato nel controllo del territorio: rastrellamenti, vigilanza, posti di blocco a pochi passi dai crateri scavati dai terribili armamenti alleati. «Sono sicuro di essere stato sottoposto a radiazioni», dice il carabiniere che si è sottoposto da poco a costose visite private di fronte al muro di gomma opposto dall’amministrazione della difesa. «Stiamo per fare la fine dei veterani statunitensi vittime ignare dell’“agente arancione” in Vietnam e questo non deve accadere». Ma, fino ad oggi, nessuno dei componenti del contingente italiano della Kfor è stato convocato per accertamenti sanitari: «Eppure abbiamo avuto a che fare con fosse comuni o persone malate di tubercolosi, c’è tra noi chi ha avuto piattole o pidocchi». A poco a poco, grazie al tam-tam incessante di associazioni e al coraggio di singoli, il muro di omertà sull’uranio sembra incrinarsi. «Noi - conclude il militare, già pronto a partire per una nuova missione e ancora orgoglioso del suo mestiere - chiediamo solo di essere messi in condizione di rischiare il meno possibile, di essere informati e, ora che c’è questo allarme, di poter essere sottoposti a visite specialistiche con tutte le garanzie di legge per il riconoscimento eventuale delle cause di servizio. Così ci sentiamo dimenticati, abbandonati dallo Stato».

Checchino Antonini