Liberazione, 28 dicembre
In Kosovo, «lo sapevano anche i bambini» ma in Serbia i civili erano all’oscuro dei rischi di contaminazione. L’Ics chiede al governo di bonificare le zone colpite
Uranio, allarme dei cooperanti
http://www.liberazione.it/giornale/28-12giov/SOCIETA/SOC-1+/APRE.htm

I marines lo sapevano tutti ma i civili no: «Resta lontano da carri o altri mezzi bruciati e dagli edifici colpiti da missili da crociera», diceva tra l’altro l’opuscolo distribuito ai soldati statunitensi in Bosnia e poi in Kosovo. Per mesi e anni, migliaia di altre persone sono vissute e hanno lavorato ignare del pericolo costituito dall’uranio impoverito Du. Si tratta in primo luogo proprio delle popolazioni in nome delle quali il braccio armato della comunità internazionale ha lanciato tonnellate di Du sotto forma di proiettili sparati dagli A/10 o sotto forma di missili Tomahawk. Accanto alle genti di Sarajevo, Pec, Mitrovica - città che conosciamo spesso solo grazie ai bombardamenti - c’erano e ci sono i cooperanti delle organizzazioni non governative, i funzionari civili dell’Unione europea o del ministero degli esteri, addetti alle dogane, alla cooperazione, al vettovagliamento, all’accoglienza dei profughi. Difficile fare una stima: funzionari, volontari e cooperanti si sono avvicendati con turni variabili da pochi giorni a due-tre anni per volta. La notizia dell’uso anche in Bosnia delle micidiali armi ha lasciato di stucco centinaia di loro che intorno a Sarajevo si sono “sporcati le mani” per portare aiuti. Voci, per ora senza conferma ufficiale, parlano di almeno un caso di un civile italiano che accusa «gli stessi sintomi dei soldati» e del timore che la “sindrome del Golfo” possa segnare anche loro destino. «Sono stato tre anni in Bosnia, a Mostar, e non ci avevo mai pensato - dice Andrea Barzocchi dell’Ics - lì i bombardamenti sono durati molto meno che in Kosovo: sembrava quasi che fosse un rito accettato anche da Milosevic per andare a firmare gli accordi di Dayton». Conferma Mario Boccia, fotoreporter che fa la spola coi Balcani dal ’91: «Nessuno ci ha mai messo in guardia, nessuno è mai stato informato di questi pericoli. Solo da pochi mesi a Mitrovica, una delle zone più inquinate, è stato aperto un laboratorio per consentire analisi gratuite ai cooperanti». Se in Kosovo «era evidente, lo sapevano anche i bambini» dell’uso a tappeto di ordigni contaminanti, «sulla questione della Bosnia siamo rimasti stupiti», dice anche Paolo Tamiazzo che, per il consorzio italiano di solidarietà si è occupato prima di Serbia e ora di Medio Oriente. Le zone più a rischio le ricorda proprio l’Ics in un comunicato diffuso nella serata di ieri: si tratta - in Bosnia - della “zona di esclusione”, la fascia di 20 Km intorno a Sarajevo bombardata nell’estate del ’94 e del ’95 e - in Kosovo - della strada Pec-Djakovica-Prizren, zona di competenza del contingente italiano. Quantità presumibilmente superiori sono piovute durante i raid aerei sulla Serbia, sempre nel 1999. «Le armi all’uranio impoverito, sviluppate per la prima volta durante gli anni '60 dagli Usa in piena guerra fredda, costituiscono una “comoda destinazione” per materiale di scarto, radioattivo e “ingombrante”», ricorda l’Ics che lanciò l’allarme di uno scienziato inglese durante la guerra del Kosovo: «Entro un anno ci saranno i primi casi di leucemia». Puntuale, il pronostico s’è avverato abbattendosi tra gli aggrediti, gli aggressori e tra i cooperanti che, spessissimo, firmano contratti molto più lunghi delle ferme dei militari. Scrive ancora il Consorzio italiano di solidarietà: «Il clamore suscitato in questi giorni dai media nazionali ed internazionali sulle possibili contaminazioni contratte dai militari in missione nell’area balcanica elude drasticamente l’argomento cruciale, l’ingiustizia più grave, il coinvolgimento della popolazione civile che pagherà negli anni a venire un prezzo alto sebbene difficilmente valutabile. Si stima che il rapporto fra i decessi militari e civili causati da contaminazione possa variare dai 100 ai 1000 a 1. Sono le popolazioni civili quindi, per l’ennesima volta, le vittime maggiori delle “guerre moderne” caratteristiche dell’ultimo decennio». La stima della ong può essere confrontata con un dato diffuso in queste ore dal Cocer dell’esercito: «Sappiamo che tra i militari in Bosnia c’è stato un incremento dei casi di malattia pari al 2-400% rispetto a quelli riguardanti i giovani della stessa fascia d’età, per questo chiediamo il riconoscimento della causa di servizio». In ambito militare, negli ultimi anni i casi di leucemia sono almeno 11 e quattro sono già morti. Ics (dal ’92 in Bosnia, a Sarajevo, in Serbia, a Belgrado e a Nis e in Kosovo, nelle aree di Pristina, Pec, Prizren e Mitrovica) chiede che le armi che utilizzano Du vengano messe al bando, in accordo con i trattati e con il diritto internazionale che vieta le armi che causino “sofferenze inutili” o “danni superflui” e domanda al Governo di stanziare un immediato finanziamento per realizzare un piano di monitoraggio e bonifica delle zone contaminate.