La Stampa, Domenica 31 Dicembre 2000
«Ecco perché assolvo le bombe della Nato»
http://www.lastampa.it/LST/ULTIMA/LST/NAZIONALE/CRONACHE/TESSANDORI.htm
inviato a PISA

COME alla lettura di una sentenza. Sguardo sospeso, breve sospiro, silenzio perché le parole devono spazzar via ombre, dubbi, sospetti e paure. Non è una cosa da poco. Casa di uno scienziato, interno giorno. «Non colpevole», dice lui, la voce tranquilla. C’è da aspettarsi che a conclusioni simili arriverà pure la commissione di sei esperti nominata venerdì 22 dal ministro della Difesa per indagare sulle cause delle leucemie che hanno aggredito numerosi soldati, non soltanto italiani, reduci da Bosnia e Kosovo. L’uranio impoverito è «non colpevole», per queste tragedie. E, come tutte le sentenze, anche questa sembra sorretta da motivazioni che lasciano ben pochi spazi, almeno in apparenza e, come si dice, fino a prova contraria. Colpevole sarebbe l’inquinamento ambientale, tanto grave da risultare tossico. E così nessuno sarebbe «penalmente responsabile» di questa lunga tragedia.

Vittorio Sabbatini, 62 anni, romano, laurea in fisica, è il direttore dell’ufficio nucleare del Cisam (Centro interforze e studi applicazioni militari). Membro della commissione ministeriale, alla ricerca dei misfatti attribuiti alle munizioni «Du» («Depleted uranium»), ha compiuto quattro campagne di una settimana ciascuna in Kosovo e una in Bosnia. «Eravamo preoccupati per la quantità di uranio distribuito sul terreno, in realtà ne abbiamo trovato concentrazioni trascurabili, con eccezioni». Mentre parla si balocca con un «dardo» simile a uno di quei proiettili finiti sotto processo, solo che la punta di questo non è di uranio ma di acciaio, precisa. Esiste un’«unità di base dell’attività di qualsiasi radioisotopo: il bequerel, o Bq» precisa. E ricorda come la radioattività sia diffusa ovunque. «Qui a Pisa è di 20 Bq per chilogrammo di terreno, nel Viterbese sono 200. In Kosovo siamo sui 20 e si sale a 100-150 nelle immediate vicinanze di una zona raggiunta dai proiettili».

Il lavoro di ricerca finora compiuto, lui lo giudica «esauriente»: come dire che certi punti sono fermi e, forse, anche i timori non appaiono giustificati. Ma questa nuova peste esiste e si trascina dietro morti e malati. Perché? «Il momento più a rischio è quando un proiettile colpisce e provoca vaporizzazione: se uno respira quella nuvola che per deporsi impiega tre ore, corre un pericolo reale. E’ un po’ quello che accadde in Kuwait ai soldati americani che spesso arrivavano a ridosso dei bombardamenti. E poi laggiù c’era stato il caso di un missile Scud che aveva centrato un deposito di quelle munizioni. Per quanto riguarda la Bosnia e il Kosovo, questa situazione non si è verificata: i militari della Nato, quindi anche i nostri, sono arrivati giorni se non settimane più tardi».

D’accordo, il Golfo, ma altrove? «Nel Kosovo gli Usa hanno dichiarato 31 mila "dardi", se si tien conto che ognuno porta 300 grammi di uranio si arriva a circa 9 tonnellate. In Kuwait furono 300». Vero, ma purtroppo anche gli scempi sono risultati di proporzioni maggiori, nella guerra del Golfo. «Abbiamo raccolto campioni di terra, in Kosovo e in Bosnia, abbiamo analizzato tutto. E non sono emersi dati in qualche modo preoccupanti. In ogni modo, in gennaio faremo un’altra campagna».  Perché al tirar delle somme una cosa sono le convinzioni scientifiche, un’altra essere tranquilli. Non tutti i problemi sono risolti, ammette Sabbatini. «Rimane quello del nostro personale militare. Intendo: se qualcuno si è preso un dardo? Questo aspetto in Kosovo è stato curato tantissimo: informazioni, lezioni, circolari. Francamente non penso che possa esserci qualche ragazzo che ha raccolto, portato via e tenuto in mano o addosso un pezzo d’uranio. Se così fosse, avrebbe anche dovuto sapere che è il mezzo più concreto per una contaminazione».

Ma se in Kosovo l’esercito ha «fatto e detto tutto il possibile» per mettere sull’avviso i militari, in Bosnia si sa è andata in un’altra maniera. «Mi sento meno tranquillo, anche se dalle ricerche fatte pure in un ospedale bombardato di Sarajevo, non sono emerse tracce significative di contaminazione». Dunque, grandi sicurezze? «Mica tanto. La Serbia ha denunciato 10 mila casi di contagio e anche se questo pare un numero "balcanico" rimane il nodo delle persone che spesso hanno assistito agli attacchi dei jet della Nato e sono state costrette a respirare il pulviscolo provocato dagli scoppi dei proiettili. Alcuni siti interessati dagli attacchi sono vicini alle città, non è da escludere che la gente possa avere dei danni, in futuro. Sì, onestamente, è una cosa difficile da dire».

Va bene, dottor Sabbatini, ma rimane il fatto che i soldati morti o ammalati erano tutti tornati dai Balcani: come lo spiega? «Non lo spiego. Lasciamo che lo faccia la commissione». Ma non è rimasto sorpreso? «Sì, soprattutto quando mi vengono a parlare di Kosovo». Perché? «Quando siamo arrivati laggiù ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: "Ci hanno mandati a cercar l’uranio, ma qui la situazione è ben diversa"». Cioè? «Era ad alto rischio sanitario perché bruciava di tutto, dai reparti di medicina nucleare degli ospedali alle fabbriche di materiale plastico, ai depositi di pneumatici. Ha idea di quanto sia cancerogeno il fumo di una gomma di autocarro?». Ma davvero, questo, spiega chi sia il colpevole?