La Stampa di Torino
Martedì 19 Dicembre 2000
«Vostro figlio è solo un malato immaginario» I genitori di due soldati morti: così ci risposero i medici
http://www.lastampa.it/LST/ULTIMA/LST/NAZIONALE/CRONACHE/APRE.htm
Vincenzo Tessandori

inviato a NUXIS (Cagliari) Quando si comincia a fare i conti è già troppo tardi. Uno, due, quattro morti di leucemia; altrettanti malati e l’ultimo caso è stato raccontato ieri pomeriggio, qui a Cagliari, da un ragazzo di 23 anni che abita in un paese dei dintorni. Fra maggio e giugno ‘99, ha detto, era primo caporalmaggiore in Macedonia, accompagnato dai sogni e dalla soddisfazione di fare qualcosa di importante. Poi, a dicembre, dopo settimane d’inferno e di paura, quella che ha il gusto amaro di una condanna: la diagnosi parla di «morbo di Hodgkin», un femore straziato, un ciclo di cobalto. E il domani fosco. Militari, tutti, anzi il fior fiore dei soldati, giovanotti dal fisico atletico e con una voglia disperata di vivere. Ma poi vedi la foto di un volto scavato, le occhiaie profonde, la disperazione negli occhi. La stessa che c’è, ora, in quelli di suo padre, il maresciallo dei carabinieri Vacca Giuseppe, per 15 anni comandante della stazione di Nuxis, silenzioso paese del Sulcis, ordinato, dove i cartelli stradali indicano il cimitero, la banca, il centro. Lui, il maresciallo, aveva giurato di essere «fedele nei secoli»: ma ora dà l’impressione di non sapere più che cosa pensare. Salvatore, suo figlio, è stato portato via dalla malattia, il 9 settembre ‘99. Aveva sempre preso la vita di petto, col sorriso sulle labbra. «Lo trovi da sé», mi dice sua madre, Peppina Secci, indicando una foto di gruppo: sono 36, ordinati come le grandi squadre di calcio, su un prato, ed è in Albania: il solo che sorrida è lui, un metro e 78 centimetri, 74 chili, la passione per il calcio, un diploma da geometra e la certezza di aver trovato nell’esercito quello che ti promettono quando metti la firma: un futuro certo fra gente perbene. Era stato fra i migliori, nel corso, per diventare effettivo. Ma i colori sono cambiati, all’improvviso, non più il rosa della speranza e neppure il grigioverde, ma il grigio tenebra.

Con pudore, fra mille imbarazzi, ti raccontano la storia di questo loro ragazzo che ha lasciato un vuoto che vedi con i tuoi occhi. C’è la camera, ancora come quando c’era lui, linda, ordinata, le foto alle pareti, i due letti affiancati e in uno, quasi nascosta con la trapunta di scozzese azzurro, dorme Giulia, che ha un anno e mezzo ed è la sua nipotina. La casa è grande, moderna: doveva essere per tutti, e ora sembra vuota, senza quel giovanotto. Ti parlano di un calvario durato mesi, di quel giorno che lui, ormai febbricitante, sarebbe dovuto tornare in Bosnia, ma quando arrivò alla caserma Monfenera di Cagliari gli dissero che l’aereo era già partito e così, con altri sei commilitoni, rimase tutto il giorno in attesa di ordini. Ma, forse, l’ordine era quello di non farlo tornare in «zona di guerra». Perché ormai si erano resi conto della malattia, dice sua madre, e lo dice la sorella, che ha 26 anni. E lo dice anche suo padre, che non crede più a certe cose. «Ci raccontavano che era un malato immaginario», sospira Claudia. Così, per mesi, con la convinzione di curare un simulatore. «Noi, i parenti, eravamo considerati "stressati". Un giorno mi hanno detto: "Signorina, vuole lei il camice?". E noi eravamo disperati». Poi, il 7 luglio, quel ragazzone ormai scheletrito è crollato a terra, il 18 agosto è stata decisa finalmente un’analisi del sangue. «E si sono accorti che i globuli bianchi erano diventati un oceano», sospira la madre. «Un giorno gli avevano domandato se si fosse esposto a radiazioni e lui non lo sapeva, così ne ha parlato con il medico. Che mi ha detto: "Oggi suo figlio mi ha sparato un’altra cazzata". Lo sa che ci vogliono trent’anni perché si sviluppi la leucemia?». Ma ormai non c’era più tempo, lui era diventato quasi invisibile, quand’è morto. «E ora dicono di essere stati vicini al ragazzo, alla famiglia: ma non è vero», dice il maresciallo Vacca. E sul tavolo appoggia due attestati che il suo ragazzo si era guadagnato, come si dice, sul campo: un apprezzamento per la partecipazione all’operazione «Deliberate Force», e l’altro, con medaglia, per «il servizio reso nella ex Jugoslavia». E ora, che cosa rimane? Una causa legale e l’ostilità di quello che si potrebbe chiamare «sistema», in divisa, stavolta.

Anche Giuseppe Pintus era un atleta e l’avevano messo nei bersaglieri, militare di leva, racconta il fratello Gianni: «Quando scoppiò la guerra del Golfo fu mandato a Capo Teulada perché, dissero, si temeva un colpo di mano degli iracheni. Lui aveva in dotazione la tuta Nbc (Nucleare, batteriologico, chimico), quella con la maschera. E lui, quella maschera, l’aveva sempre addosso. Si ammalò, quando finalmente fecero la diagnosi avevano appena scoperto che i globuli bianchi erano in un numero sterminato. Era diventato verdastro, nessuno venne a trovarlo. Lui era convinto che i proiettili a carica cava, che pure il suo reparto aveva in dotazione, contenessero l’uranio impoverito. Era diventata la sua ossessione, quella. Quando capì che non sarebbe guarito, inoltrò una domanda nella quale spiegava di aver contratto la leucemia per cause di servizio. Venne respinta. Avrebbe dovuto essere congedato nell’ottobre del ‘91, lo fu nel settembre ‘93, quando la malattia era in fase terminale». Anche questa storia si è fermata all’unico approdo che pare possibile: una causa davanti al Tar. «I militari smentiscono - aggiunge Gianni Pintus - la presenza dell’uranio. Il fatto è che mio fratello nel maggio ‘91 donò il sangue ed era tutto nella norma, in agosto crollò in mensa, la diagnosi che arrivò dall’ospedale oncologico fu di "leucemia acuta linfoblastica". Possibile che in tre mesi sia successo tutto quello che è successo? Abbiamo chiesto i suoi vestiti per farli analizzare: non ce li hanno dati. Ma con chi dobbiamo combattere?».