24 dicembre 2000
La Repubblica
Pagina 12
Uranio, l'esercito accusa la Nato
"Gli americani non spiegarono mai i veri rischi"
http://www.repubblica.it/quotidiano/repubblica/20001224/esteri/12urani.html
di STEFANO CITATI

ROMA - Alla Nato non è stato detto tutto quel che si sapeva sui rischi dell'uranio impoverito. Nell'ala più vecchia del grande palazzo dello Stato Maggiore dell'Esercito, dove Umberto II dormì la notte prima di partire in esilio, l'alto generale tiene a precisare che toccava ai vertici dell'Alleanza, in quanto comandanti diretti della missione di pace in Bosnia, chiarire subito e meglio la questione uranio: "Mettiamola così - sorride da dietro la scrivania - gli americani potevano essere un po' più collaborativi". L'ufficiale si china leggermente in avanti, poggia i gomiti sul tavolo e ricomincia a parlare in tono più lento: "Vorrei esser chiaro: per l'intervento in Bosnia nessuno ha ufficialmente sollevato la questione uranio, forse perché chi lo utilizzava lo considerava a rischio minimo".

Infastiditi più che arrabbiati i vertici dello Stato Maggiore dell'Esercito, responsabile degli uomini mandati in missione nei Balcani, dopo le dichiarazioni sulle mancanze dei militari italiani. Poi l'Alleanza Atlantica ha rilasciato un - per lei inusuale - comunicato ufficiale nel quale si confermava che "l'uso di minuzioni DU (Depleted Uranium, uranio impoverito) non ha costituito contrasto tra i paesi membri, perciò non è stato oggetto di dibattito". Perciò sembra che fossero tutti d'accordo. Non è proprio così e lo Stato Maggiore dell'Esercito tiene a farlo sapere: "Per le missioni tipo-Bosnia ogni paese membro mette a disposizione della Nato le sue truppe che da quel momento sono sotto il controllo del comando alleato; però ogni contingente usa gli armamenti che preferisce e di cui è in dotazione: e i proiettili all'uranio impoverito ce li hanno solo americani, britannici e francesi. I cacciabombardieri che nel '95 hanno sparato attorno a Sarajevo (partiti dalla base di Aviano) sono dell'Us Air Force. Agli americani è mancata un po' di giusta iniziativa personale, di capacità di comunicazione per far sapere agli altri che loro avrebbero usato tali dardi".

Comunque la contaminazione prodotta dai 10.800 proiettili DU sparati nella zona di Sarajevo nell'estate del '95 risulterebbe nulla. Un blitz degli esperti del Cisam (Centro Interforze e Studi Applicazioni Militari, che hanno addestrato le squadre di rilevazione nucleare per la missione in Kosovo) ha permesso di analizzare 6-7 zone di Sarajevo dove i soldati italiani sono stati - o sono tuttora - da quando è iniziata l'operazione nel dicembre del '95. Risultato: rischi zero. Esami tutti negativi.

Le ultime analisi non placano però le critiche delle associazioni di tutela del personale militare che moltiplicano le loro denuncie. Una di esse starebbe in queste ore raccogliendo informazioni su un nuovo caso di leucemia che avrebbe colpito un militare della Folgore. E c'è chi mette l'accento - come l'Angesol, l'Associazione nazionale dei genitori dei soldati in servizio di leva, che sollecita "provvedimenti" giudiziari a carico dei responsabili della Difesa e delle Forze armate.

"Non ci si può occupare solo dei militari, chi rischia davvero sono i civili", ha affermato ieri padre Angelo Cavagna, esponente del Gruppo autonomo di volontariato civile in Italia: "Si parla solo dei nostri soldati morti, o statunitensi, o spagnoli, ma non si dice una parola circa la conseguenze deleterie sulla gente che ha subito i bombardamenti". Su questo argomento si è espresso Ugo Intini, sottosegretario agli Esteri, che ha ricordato come in Iraq - dove per la prima volta vennero utilizzati dagli statunitensi proiettili all'uranio impoverito contro le truppe di Saddam - è stato denunciato che "migliaia di bambini sono morti" per la contaminazione radioattiva. Intini calcola dunque "che le morti dei civili, se si dimostrasse la contaminazione, sarebbero di 100 o 1.000 ad uno rispetto a quelle dei militari"; il sottosegretario si riferisce alle decine di migliaia di soldati, soprattutto americani che, una volta tornati in patria, hanno iniziato a manifestare diverse patologie mediche, che i dottori hanno poi riunito sotto la formula: "Sindrome del Golfo".