La Nuova Sardegna
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domenica 11 marzo 2001, S. Costantino
Infiltrato dietro la cortina di ferro
«Seguivamo i brigatisti rossi fino ai campi di Carlovy Vary»

2 - fine

ROMA. Nel 1986 ci hanno cancellato: qualcuno aveva deciso che di noi non doveva restare alcuna traccia. Ricordo che, quando mi accorsi che le cose stavano cambiando, andai a Roma, da Labruna, l'ufficiale che mi aveva reclutato in Gladio. «Sparisci Franz - mi disse -, dimenticati di tutto quello che sai e di tutto quello che è successo. Pensa solo a te stesso e salvati». E io seguii il suo consiglio.

Così mi inabissai in una vita anonima e tranquilla. Se si può dire, regolare. Ma dimenticare non è stato facile. Perché, anche se non lo vuoi, ti porti dentro ricordi ed esperienze che ti segnano per sempre. Non capisco le oscure dinamiche della politica, ma non posso accettare che vengano negati fatti per i quali ho anche rischiato la pelle. Questo no. Ora sento l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga dire che quello delle Brigate Rosse è stato un fenomeno tutto italiano. Ma io dico: come si fa a dire questo! Dove sono finiti tutti i nostri rapporti, i documenti che abbiamo trafugato da Praga e quelle fotografie che provavano i viaggi dei brigatisti rossi in Cecoslovacchia nei campi di addestramento di Carlovy Vary e di Brno? Ho letto sui giornali che stanno processando a Roma alcuni alti ufficiali dei servizi segreti per la distruzione di documenti riservati. C'erano forse anche quelli che io e altri gladiatori abbiamo portato dalla Cecoslovacchia?

Il nostro lavoro non era semplice. Non è come nei film, dove tutto appare semplice, supertecnologico, avventuroso. Almeno a quei tempi, la realtà era molto diversa. Si lavorava senza rete e con pochi supporti. Ti dicevano: «Vai, la missione è questa. Fatti onore». E tu allora dovevi ingegnarti, arrangiarti. Le nostre vere armi erano la nostra fantasia e la nostra capacità di improvvisazione e di adattamento. Sempre sul filo del rasoio. Avevamo due punti di riferimento per conoscere i viaggi in Cecoslovacchia dei brigatisti rossi: l'ambasciata ceka a Roma e il confine tra Italia e Austria. Lì, infatti, i terroristi chiedevano il visto d'ingresso e noi ci mettevamo in movimento. Organizzavamo così un servizio di pedinamento e di sorveglianza, molto complicato per non farci notare. Era come una staffetta. Gli agenti dovevano seguire i brigatisti per un tragitto determinato, poi li lasciavano, affidandoli al controllo di altri agenti. Ma il programma poteva anche variare se si aveva la sensazione di essere stati notati. La loro strategia di mimetizzazione era abbastanza semplice: quasi sempre fingevano infatti di essere dei turisti. Una volta abbiamo seguito due brigatisti che viaggivano su una Ferrari targata Catania. Sembra incredibile, vero? Ma chi avrebbe mai pensato che non si trattava di due turisti danarosi, ma di due terroristi? Io li seguivo spesso oltre i confini ceki, cioé in quella che era la mia zona di operazioni. Sono così arrivato fino ai cancelli e alle reti di recinzione dei campi di addestramento, che ufficialmente venivano indicati dai cartelli come centri termali. Solo che là non c'erano turisti. C'erano invece terroristi che arrivavano da mezzo mondo: tedeschi della Raf (Rote armee fraktion), brigatisti rossi, libici e palestinesi. La regia, manco a dirlo, era tutta del Kgb. La polizia segreta ceka era infatti soltanto una sigla: tutto era in mano ai russi. E devo ammettere che loro erano i migliori, i più preparati, i più abili. All interno del nostro servizio segreto non avevamo una grande considerazione degli americani, tutto dollari e muscoli. I russi, invece, erano diabolici, capaci di strategie raffinatissime. All'interno del servizio segreto chiamavamo infatti la Lubjanka l'«Università».

Comunque noi, nel nostro piccolo, non eravamo da buttare via. Per esempio, questi movimenti dei brigatisti siamo riusciti a scoprirli e a documentarli. Anche se oggi, stranamente, non si trova traccia del nostro lavoro. Tutto era cominciato con l'arresto di Alberto Franceschini nel 1974. Si scoprì infatti che sul suo passaporto c'era il visto d'ingresso per la Cecoslovacchia. Lui, naturalmente, disse di non saperne niente. Ovviamente il Sid cominciò a indagare sui possibili rapporti tra le Brigate Rosse e la Cecoslovacchia e noi di Gladio trovammo presto la conferma. Non solo: riuscimmo anche a documentare questo rapporto e a monitorare gli spostamenti dei terroristi rossi.

Vede, uno dei motivi per i quali preferisco mantenere l'anonimato è che le Br esistono ancora. Per me non sono mai morte. Temo quindi qualche ritorsione. Ripeto: non ho paura per me, ma per la mia famiglia che, con tutte queste storie, non c'entra proprio niente.

Se avevo paura? Certo, e tanta. Non era mica uno scherzo entrare e uscire da quella frontiera. Non è come oggi. Allora c'erano sbarre, reti elettrificate e cavalli di frisia. Al momento dei controlli finivi in una sorta di gabbia, chiuso tra due sbarre e con gli uffici della polizia di frontiera e della polizia segreta da una parte e dall'altra. Quei momenti duravano un'eternità. Non sapevi mai, infatti, se riuscivi a farla franca o finivi nella loro rete con l'accusa di spionaggio. E il rischio era davvero alto: il plotone di esecuzione...

Una volta ho temuto davvero che finisse male. Ricordo che avevo ricevuto l'ordine di far espatriare immediatamente due dissidenti. «Ma come faccio - dissi - ho bisogno di tempo, devo procurarmi i passaporti falsi». «Usa i tuoi documenti» fu l'unica risposta. Non avevo scelta. Allora rubai il passaporto a un mio amico che portavo spesso con me a Praga come copertura. Lui, poverino, non sapeva nulla di me. Li contraffacemmo e li passammo ai due dissidenti che vennero presi in carico da altri gladiatori a Ceske Budejovice, vicino al confine austriaco. Io mi presentai alla polizia di quella città e denunciai il furto dei due passaporti. «Qui non ci sono ladri» mi rispose gelido un ufficiale, che seppi dopo essere dei loro servizi segreti. Senza molta diplomazia mi fece capire che non mi credeva.

Ci fermarono. Rimanemmo in una caserma per 24 ore. Loro cercarono di farci saltare i nervi in tutti i modi e il mio amico, poveretto, era convinto che finisse male. «Dio mio - mi diceva - questi non ci credono». E io, che non potevo dirgli niente, lo rassicuravo: «Ma no, vedrai, sono sempre molto sospettosi». Alla fine ci lasciarono andare, ma mai come quella volta ho temuto di essere scoperto.

A Praga mi appoggiavo a un veterinario. Era un dissidente e collaborava con noi. Mi fece installare nel suo ambulatorio una sedia da dentista dove curavo la gente. Il "dottore italiano" diventò così per molti una sorta di amico e di confidente. Quell'ambulatorio divenne la mia centrale operativa. Era un'ottima copertura per il mio lavoro di agente segreto. Fu per me un'esperienza importante anche perché cementò le mie convinzioni: vedevo un popolo schiacciato dalla paura, con il ricordo ancora molto vivo dei carri armati russi che avevano spazzato via la primavera di Praga di Dubcek. E quando entravo nei loro negozi spogli e tristi pensavo: «Non voglio che miei figli vivano in un mondo come questo».

Poi c'era lei. La donna della quale mi ero innamorato. Come ho già detto, era la figlia di un ufficiale della Stasi, i servizi segreti della Germania dell'Est. Divenne mia complice e mi aiutò moltissimo a recuperare informazioni preziose per il servizio. Lei lavorava in una specie di organizzazione per lo sport popolare. Alla fine, però, la scoprirono. Le ritirarono il passaporto e la rispedirono in Germania, nella sua città vicino a Brema. Non la rividi più. Cercai in tutti i modi di sentirla, di raggiungerla e di portarla via, in Italia. Ma non ci riuscii. Di lei non so più nulla, non so neppure se è ancora viva. Qualche anno fa sono stato in Germania, nella sua città. Addirittura davanti a casa sua, ma non ho avuto il coraggio di suonare il campanello. Ho preferito che restasse un dolce ricordo. (p.m.)

A fianco, Cossiga e Andreotti; a destra, in basso, il leader libico Gheddafi