La Nuova Sardegna
sabato 10 marzo 2001, S. Simplicio
Reclutato dal capitano Labruna
L'amore travagliato per la figlia di un ufficiale della Stasi
Una struttura occulta che operava all'estero su direttiva della Nato

continua

ROMA. Franz non è un nome inventato ora, uno pseudonimo per nascondere la mia vera identità ai giornalisti. Era proprio il mio nome in codice nella struttura Gladio. Perché sono entrato nel servizio segreto? Per tanti motivi. Un po' per caso, un po' per risolvere una situazione economica familiare non facile e poi perché credevo in quello che facevo. Se devo essere sincero, anche un po' per amore. Ero e sono convinto che fosse una scelta giusta. In quegli anni si combatteva infatti una guerra e io ho fatto la mia parte. Chiamiamola come volete: guerra fredda, guerra a bassa intensità o guerra non ortodossa.

Ma era una guerra vera, con due eserciti che si combattevano silenziosamente. E carpire un segreto al nemico era una battaglia vinta, come era una vittoria l'arginare o destrutturare certe strategie occulte che miravano ad allargare la zona d'influenza dei paesi comunisti. Morti? Sì ci sono stati anche molti morti. Come in tutte le guerre.

Voglio tornare alle origini della mia scelta. Mi sembra però necessaria una premessa. Dunque, sono nato in un paese del Sassarese ed ero il primogenito in una famiglia numerosa. Mio padre faceva il commerciante. Morì quando avevo solo 17 anni. Quando se ne andò, io lo tenevo tra le mie braccia e nel nostro ultimo sguardo ci fu un'intesa senza parole. Dovevo assumermi le sue responsabilità, sostituirlo e aiutare mia madre e miei fratelli. Finito il liceo scientifico, mi iscrissi a Medicina. Il mio sogno era fare il dentista. All'università ero quello che viene comunemente definito uno "studente modello", tutto 28 e 30. Ma dovevo anche lavorare per mantenere me stesso e aiutare la mia famiglia. Così periodicamente mi imbarcavo. Era dura, molto dura, ma riuscivo a portare a casa quel milione e duecentomila lire che, nei primi anni Settanta, era una cifra. Mi avanzava anche quanto bastava per soddisfare una mia innata passione: viaggiare. Fu in uno di questi viaggi che finii a Praga, in Cecoslovacchia.

Un paese bellissimo, gente straordinaria, civile. E poi, il costo della vita era bassissimo. Andavo all'ambasciata ceka, a Roma, in via dei Colli della Farnesina e chiedevo il visto turistico: venti giorni che amavo vivere alla grande. Mi piaceva andare nei migliori ristoranti, invitare sconosciuti e lasciare mance che equivalevano a un mese dei loro stipendi. Guasconate? Certo. Ma era come una sorta di rivalsa: provare la sensazione di essere ricco proprio io che vivevo una situazione di grande difficioltà.

E lì, in uno di questi viaggi, accadde qualcosa che poi influenzò le mie scelte future: conobbi una ragazza tedesca. Ci innamorammo. Lo so, può sembrare la premessa di una spy-story hollywoodiana, ma è la verità. Solo più tardi scoprii che era la figlia di un colonnello della Stasi, il servizio segreto della Ddr.

Bene, da quel giorno cercai di tornare sempre più spesso a Praga per vederla. Lei mi scriveva interminabili lettere d'amore, nelle quali mi diceva che avrebbe voluto scappare in Italia e vivere con me. Così, ogni due mesi, io mi presentavo all'ambasciata cecoslovacca per chiedere il visto. Poi, una volta a Praga, riuscivo a prolungare la mia permanenza, allungando qualche banconota sottobanco.

Fu allora che venni avvicinato. Accadde qui a Roma. Erano in due. Si presentarono e mi invitarono in un bar per scambiare qualche parola. Uno di loro era il capitano Antonio Labruna, responsabile del Nucleo Operativo Diretto (Nod) del Sid, il servizio segreto militare; l'altro, un ufficiale dei carabinieri del quale non ricordo il nome. Sapevano tutto di me, proprio tutto: chi ero, chi frequentavo, dove vivevo e cosa facevo per mantenermi agli studi e per campare. Mi proposero di lavorare per il servizio segreto militare. Il mio compito sarebbe stato quello di aiutare dissidenti dell'est a fuggire in occidente, procurare documenti riservati e seguire i movimenti dei brigatisti rossi che andavano ad addestrarsi in Cecoslovacchia. Lo stipendio era mica male per quei tempi: un milione al mese. Per anni sono andato a ritirarlo nella sede dell'Ufficio X, in via XX settembre 8. Poi mi assicurarono che, alla fine, avrei avuto la mia laurea in medicina e avrei così potuto fare il dentista. Mantennero solo in parte le loro promesse.

Confesso che rimasi scosso da quell'incontro e chiesi una settimana di tempo per decidere. Poi accettai. Incontrai di nuovo Labruna e gli parlai anche di quella ragazza tedesca. Lui sapeva già tutto. "La farò scappare in Italia", gli dissi. Ma il destino, a volte, ha un'ironia crudele. Sono infatti riuscito a far fuggire in occidente tantissime persone. Lei no: è stata l'unica che non sono riuscito ad aiutare.

Lei, invece, mi aiutò tantissimo. Rischiò anche molto. Mi aiutava infatti a procurarmi documenti riservati che io poi consegnavo ad altri gladiatori che facevano da collegamento con la centrale di Roma. Quasi sempre si trattava di militari che, ovviamente, si muovevano sotto copertura. Alla fine, lei fu scoperta e la rispedirono nella Germania dell'Est. Da allora non l'ho più sentita nè vista. Ho cercato disperatamente di ristabilire un contatto. Tutto inutile. Un giorno, dopo tanti anni, venni a sapere che aveva telefonato al mio vecchio numero. Confesso che, alcuni anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino, sono andato in Germania. Nella sua città, vicino a Brema. Volevo rivederla. Sono arrivato davanti a casa sua, ma non ho avuto il coraggio di suonare alla porta. Ormai mi ero sposato, volevo bene a mia moglie e avevo due figli. Sì, forse ho avuto paura di perdere tutto, incontrando un fantasma del passato. E' andata così.

Il mio addestramento è avvenuto a Poglina, nella base di Gladio vicino ad Alghero. No, non arrivavo a Fertilia su un aereo con i vetri oscurati. Cioé Argo-16. Ricevevo invece a casa una telefonata in codice da Roma, dal mio superiore dell'Ufficio X. Io richiamavo da un telefono pubblico e davo il mio codice identificativo e mi venivano impartite le istruzioni. Andavo a Poglina con i miei mezzi. Certo, non è che ci andassi tranquillamente: c'era infatti da rispettare un protocollo molto rigoroso di cautele.

Fu lì che imparai le lingue. Ne conosco cinque perfettamente: inglese, francese, tedesco, olandese e spagnolo. Ricordo che per il tedesco il corso fu durissimo: 40 giorni in full-immersion. In qualche modo sarebbe dovuta diventare la mia seconda lingua, visto che in Cecoslovacchia tutti parlano il tedesco. No, non conoscevo gli altri agenti che seguivano i corsi a Poglina. O meglio, ci conoscevamo tutti per nome in codice. Io ero il "Doctor Franz". E poi, anche se li conoscessi, non farei mai i loro nomi. A Capo Marragiu non c'è mai stata alcuna base. Si fa un grande equivoco, e non so fino a che punto è un equivoco voluto. Perché dagli Stati Uniti, dalla Cia, è arrivato un fiume di soldi per finanziare le strutture per la guerra non ortodossa e, quindi, Gladio. Non voglio accusare nessuno. Ma tra noi, che ci definiamo reduci di quella guerra mai dichiarata e che si è conclusa senza una firma di pace, c'è il sospetto che qualche soldo sia anche finito nelle tasche di qualche politico o di qualche generale. In quei costoni tra Alghero e Bosa si addestravano ai corsi di sopravvivenza i gladiatori militari. Come i miei amici Nino Arconte e Tano Giacomina della Centuria dei Lupi. Lo so, ora sta pensando che sono stato reclutato perché ero politicamente uno di destra. Non è proprio così. Mio padre era socialdemocratico e io, è vero, avevo vaghe simpatie per la destra. Ma la politica è sempre stata per me qualcosa di molto lontano. Più che altro seguivo dei principi che ritenevo moralmente giusti. La differenza stava nel fatto che, quando i miei colleghi all'università sfilavano in eskimo inneggiando al comunismo, io invece pensavo solo a studiare e a lavorare. Per mantenere me e aiutare miei fratelli. Ecco, questo è l'inizio della mia storia.