Italia
GIUSTIZIA SOMMARIA / ENIMONT, PROCESSO AL PROCESSO
http://www.mondadori.com/Panorama/mag/news/news3497/italia/italia_ol.shtml

Misteri. Silenzi. Stranezze. Per quattro anni il vaso di Pandora dell’Enimont ha resistito. Non ci fosse stata l’indagine perugina, quella che ha appena scoperto i 39 miliardi «dimenticati» della maxitangente, forse nessuno avrebbe mai tolto il coperchio infilato sull’inchiesta più discussa e oscura di Tangentopoli.

Antonio Di Pietro aveva detto che quello sui maneggi tangentizi della joint-venture chimica era «il padre di tutti i processi». Oggi invece c’è chi pensa sia stato la madre di questa Seconda repubblica: una specie di terreno Giudizio universale, che ha deliberatamente dannato alcuni e salvato altri. Qualcuno lo dice a voce alta. In giugno, all’apertura dell’appello a Milano, Giuseppe Garofano, ex presidente della Montedison e uno dei principali imputati, ha ironizzato: «La verità sull’Enimont? No, non direi proprio che sia emersa tutta. Qualcuno deve ancora spiegarmi perché l’Eni volle comprare a tutti i costi...».

Eppure, il costruttore romano Domenico Bonifaci, arrestato a Perugia alla fine di maggio con l’accusa di aver costituito la provvista dei 39 miliardi, davanti al pm Fausto Cardella ha messo a verbale: «Tutto quello che avevo da dire sull’Enimont l’ho già riferito a Di Pietro. Io gli ho portato i documenti che hanno fatto decollare l’inchiesta». Se dice il vero, c’è da chiedersi perché quelle informazioni alla procura milanese non abbiano prodotto nulla.

Strana inchiesta davvero, quella sull’Enimont. E strani i processi che ne sono derivati, da quello al finanziere Sergio Cusani fino alle «appendici» in corso, l’Enimont 2 e l’Eni-Montedison. Diventa inevitabile domandarsi se davvero sia stata raccontata tutta la verità su un affare andato male e costato almeno 7 mila miliardi all’erario.

Luigi Grillo, senatore di Forza Italia e buon conoscitore della materia, ha proposto una commissione parlamentare d’inchiesta sull’Eni e sulle vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’ente: sta raccogliendo pareri favorevoli, da An a Rifondazione, finora con l’esclusione del Pds (lui dice: «Mi meraviglio, dove è finita la questione morale che agitava i sonni dei pidiessini?»). Su che cosa dovrebbe indagare, questa commissione? Grillo vuole «lanciare un fascio di luce su nomine e poteri all’interno dell’ente». Vuole sapere che cosa c’è dietro alla guerra tra le procure che hanno indagato sull’affare Enimont. Insomma, vorrebbe ripercorrere la vera storia dell’Eni e della corruttela che per tanti anni ha avvolto l’ente. Non è un impegno da poco: i punti oscuri si sprecano. Panorama ha individuato i principali.

Certo, Pacini non è quello che si definisce un teste particolarmente attendibile. Però non è il solo a essere convinto del coinvolgimento di Bernabè, peraltro mai indagato dal Pool, nel pasticciaccio dell’Enimont. Proprio in questi giorni la querelle è al calor bianco. L’amministratore delegato dell’Eni ha citato in giudizio per una decina di miliardi (ma non ha querelato) Il Giornale e il deputato di Forza Italia Tiziana Parenti, che hanno ipotizzato un suo coinvolgimento nell’affaire e nella maxitangente. Nel silenzio generalizzato del resto della stampa, il quotidiano di Vittorio Feltri ha ricordato che Bernabè fece parte del comitato che nel novembre 1990 procedette alla cosiddetta supervalutazione della quota Montedison dentro l’Enimont, fissata in 2.805 miliardi e fonte delle mazzette pagate ai partiti politici. Aggiungendo che nessuno dei quattro membri di quel comitato (con Bernabè: Giuseppe Muscarella, Dario Cifoni ed Enrico Ferranti) ha mai dovuto rispondere di un calcolo tanto generoso. Bernabè, nell’atto di citazione, sostiene che il gruppo di valutazione si limitò a proporre all’Eni i limiti minimi e massimi delle valutazioni fatte da banche d’affari e periti. Chi ha ragione, Il Giornale o Bernabè?

Va aggiunto che nel 1987, quando il presidente dell’Eni Franco Reviglio decise di dare il via alla joint-venture con la Montedison, affidò il progetto a Lorenzo Necci, allora presidente dell’Enichem, e ancora una volta a Bernabè. Furono loro, nel 1988, sotto il governo di Ciriaco De Mita, a far parte del comitato che valutò gli impianti Eni da conferire all’Enimont. «Anche allora gli impianti di Montedison furono sopravvalutati» sostiene Grillo. Perché non si è analizzato a fondo nemmeno quel versante dell’affare Enimont?

In un verbale della Guardia di finanza datato 24 novembre 1994 e indirizzato a Di Pietro (verbale svanito per oltre due anni e poi ricomparso agli atti del nuovo processo Eni-Montedison aperto tre mesi fa a Milano) si concludeva che Bernabè «per le cariche ricoperte e per le funzioni effettivamente svolte ai vertici dell’Eni non potesse non conoscere la natura dei fondi neri che venivano riportati nella voce di bilancio “Oneri per prestazioni diverse”». Si sarebbe dovuto indagare, approfondire. Le Fiamme gialle premettevano alla loro denuncia a Di Pietro (19 pagine zeppe di cifre e di intrecci societari) una frase inusuale nei rapporti di polizia giudiziaria: «Salvo diverso avviso della Signoria Vostra...». Il magistrato, per l’appunto, fu di diverso avviso. E non indagò su Bernabè.

Nei confronti di altri bastò molto meno. Ma anche nel corso del processo Cusani a nulla servirono le numerose chiamate in correo da parte dei manager dell’Eni trascinati in aula come imputati. Sergio Cragnotti, ex amministratore delegato dell’Enimont, disse (11 novembre 1993) di essersi stupito non poco per l’altissima offerta fatta per la quota della Montedison dal gruppo di valutazione dell’Eni di cui faceva parte Bernabè. Alberto Grotti, l’ex vicepresidente dell’Eni condannato a 4 anni, colpì ancora più duro: in aula (2 dicembre 1993) confermò che Necci, presidente dell’Enimont, gli aveva riferito di una tangente di 30 miliardi per Cagliari e di 7 per Bernabè. Necci smentì. Ma perché Di Pietro non ha mai approfondito? Una nebbia impenetrabile avvolge poi un aspetto apparentemente marginale ma in realtà centrale della questione: l’Eni, attraverso lo studio legale del professor Federico Stella (in cui ha lavorato l’avvocato Massimo Dinoia, amico e difensore di Di Pietro) ha offerto una sorta di gratuito patrocinio a molti dei manager dell’Eni indagati nei vari procedimenti Enimont. Numerose interrogazioni parlamentari hanno ipotizzato parcelle miliardarie per lo studio Stella, ma né Bernabè né il governo Prodi hanno mai risposto. Perché?

Il presidente Necci. Lorenzo Necci era il presidente dell’Enimont, e di cose doveva saperne. Infatti il pm Francesco Greco, nel marzo 1993, lo aveva indagato nella prima fase dell’inchiesta. Poi Cragnotti, che della joint-venture era l’amministratore delegato, disse (22 novembre 1993, tre giorni dopo il suo arresto) di avere spartito cinque miliardi di tangenti per lavori all’impianto Enichem di Brindisi con Necci e con Gardini e di averle versate su un conto cifrato della Karfinco di Pacini Battaglia.

Cragnotti, difeso dall’attuale ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, parlò anche dei soldi in nero girati sui noli armatoriali dell’Enimont, fece nomi e cognomi. Ma a interrogarlo fu il futuro ministro dei Lavori pubblici Di Pietro, e non gli credette: non collegò le accuse di Cragnotti al processo Enimont, non organizzò nemmeno un confronto tra lui e Necci, bastò che Pacini negasse. Poi, nell’autunno 1996, fu la procura di La Spezia ad accertare che i legami tra Pacini e Necci erano assai più stretti.

La guerra tra le procure. Roma, Milano, Brescia, La Spezia, Perugia: i magistrati che hanno messo il naso nell’affare Enimont sono un esercito. E quasi sempre hanno litigato. Il 25 febbraio 1993 il procuratore aggiunto di Roma Ettore Torri aveva disposto una perizia tecnica sulla supervalutazione della quota Montedison, un «regalo» a Raul Gardini che Luigi Cappugi, ex consigliere dell’Eni, aveva valutato a verbale in circa 600-800 miliardi.

Il sospetto del magistrato era che la cifra potesse essere anche superiore. Ma quel giorno, improvvisamente, arrivò da Milano, via fax, la richiesta di trasmissione degli atti da parte dei colleghi del Pool: «Non conteneva nessuna motivazione» ricorda Torri. Ma la procura di Roma si spogliò ugualmente dell’inchiesta: il procuratore capo Vittorio Mele convocò i sostituti e disse che «era meglio così». A Milano, però, la perizia che avrebbe potuto mettere nei guai anche Bernabè non fu disposta. E non si indagò mai sulla «supervalutazione». Perché?

Pasqua Neglie è la suocera di Sergio Melpignano, l’avvocato tributarista arrestato a Perugia nella nuova inchiesta sulla maxitangente. Oggi i pm scoprono che le erano stati intestati conti, società, libretti al portatore, che sarebbero stati utilizzati per operazioni illecite. Ma il nome della Neglie non era nuovo alle cronache giudiziarie: nel 1992 era già comparso, insieme con quello della segretaria di Melpignano, Anna Maria Amoretti, indagata a Perugia, nel processo di primo grado per l’Enimont. Entrambe erano state individuate come «teste di legno» in una delle operazioni immobiliari fittizie eseguite dal costruttore Domenico Bonifaci, quella sulla Edilcomp, che fruttò una provvista di circa venti miliardi. Cinque anni fa l’occhiuta procura di Milano si accontentò della versione di Bonifaci: «La società è solo mia» disse il costruttore «loro non c’entrano nulla». Perché non furono eseguiti controlli sulle due donne, lasciando nel limbo un ricco filone della maxitangente?

Quelli che si sono salvati. Quando Alessandro Patelli, tesoriere della Lega, venne arrestato per i 200 milioni versati da Carlo Sama, venne indagato e poi condannato anche il suo segretario Umberto Bossi: non poteva non sapere, si disse. Marcello Pagani, ex coordinatore della sinistra dc (e oggi consigliere del Ppi), ha patteggiato un anno di reclusione per un finanziamento illecito di 310 milioni ottenuti dalla Montedison. Nella richiesta di rinvio a giudizio di Pagani si legge che aveva ricevuto quei soldi «per conto dell’on. Guido Bodrato e degli altri parlamentari della sinistra dc». Ma né Bodrato né Ciriaco De Mita né altri sono mai stati sfiorati dal Pool. Come mai?

Cusani è stato condannato anche per finanziamento illecito del Pci-Pds. Ma il partito si è salvato: Di Pietro stabilì che era impossibile risalire a chi avesse percepito il famoso miliardo trasportato a Roma in aereo da Carlo Sama. Eppure, nell’agenda di Gardini, alla data del 20 ottobre 1989, c’era scritto: «Ringraziare Pci e M. S.». Il ringraziamento riguardava, con tutta probabilità, il disegno di legge presentato proprio quello stesso giorno dal Pci, nel quale si accoglieva la proposta di defiscalizzare la joint-venture chimica: un altro regalo di circa mille miliardi a Gardini. All’epoca «M. S.» venne individuato in tale Massimo Serafini, un oscuro deputato ravennate. E se invece si fosse trattato di Marcello Stefanini, il deceduto segretario amministrativo prima del Pci e poi del Pds? E perché nessun esponente del partito venne mai interrogato?

Anche il costruttore Bonifaci, oggi in prigione a Perugia, nel 1996 ha dato tre miliardi al Pds. Un finanziamento? Il partito ha negato: «È solo un prestito». Ma da dove arrivano quei soldi, se è vero che Bonifaci da tempo navigava in cattive acque? Sono forse parte della maxitangente Enimont dimenticata?



Commento: la sagra di mani pulite servì essenzialmente a coprire lo scandalo mai rivelato delle tangenti del petrolio riciclate dalla Banca Nazionale del Lavoro ad Atlanta e Chicago. Quando la pista delle indagini si è orientata verso l'ENI, il processo finì. Cusani sa benissimo come stanno le cose. Ma anche Colombo e il suo conoscente, il prof. Superti Furga, massimo esperto della contabilità off-shore dell'ENI, nonché amico dei vari Bankenstein di casa nostra.