Corriere della Sera, 31 dicembre
INTERVISTA/ Il colonnello giudica inevitabile la globalizzazione e condanna come
strumento superato il terrorismo internazionale
Gheddafi: «Italia, rapporto speciale»
Per il leader libico l’intera Africa dovrebbe unirsi seguendo il modello dell’Unione Europea
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  In questa intervista, concessa sotto una tenda piazzata al centro della caserma di Bab el Aziz a Tripoli, il leader libico Muhammar Gheddafi, «guida della rivoluzione» da quando nel 1966 rovesciò re Idris, parla della globalizzazione, della strada sbagliata percorsa dal terrorismo e del suo senso per gli affari. L’intervista è stata realizzata dal direttore di Tagesspiegel Giovanni Di Lorenzo, italiano, che ha compiuto tutta la sua carriera di giornalista in Germania.

Lei si adopera in particolar modo per i problemi dell’Africa. Cosa potrebbe apprendere l’Europa dall’Africa?

«Credo sia più probabile che l’Africa possa apprendere qualche cosa dall’Europa».(Ride)

Che cosa?

«La mia speranza è che l’Africa diventi come l’Europa, che anche in Africa si arrivi a un’unione dei Paesi».

Lei preme per l’unione tra gli Stati della zona del Sahara. Come dobbiamo immaginarla?

«Il deserto del Sahara divide i Paesi al Nord da quelli al Centro e al Sud dell’Africa. Per tale motivo abbiamo deciso di superare questo ostacolo naturale. Tra i Paesi al di là e al di qua del Sahara vogliamo realizzare dei collegamenti stradali e aerei e rendere così possibili rapporti d’affari».

Precedentemente lei si è cimentato con l’unione degli Stati arabi. Come mai questa unione non è riuscita?

«Veda, un’unione africana è più facilmente realizzabile anche se il continente è molto più grande. L’unità dei Paesi arabi si trova al punto in cui si trovava la Germania prima dell’unificazione. Non intendo però la Germania di oggi, ma quella di Bismarck. Oppure l’Italia prima dell’unità realizzata con Garibaldi».

Qui si parla del XIX secolo ...

«Con questo voglio dire che ci sono state grandi difficoltà per raggiungere l’unità, ma nonostante tutto è stata raggiunta».

Come si immagina i futuri rapporti con l’Unione Europea?

«Saranno molto fruttuosi, se sarà realizzata l’Unione africana. Ci sarà un collegamento con i Paesi al di là del Mediterraneo che potrebbe inoltre costituire un nuovo asse strategico. Dobbiamo tornare al piano 5»5»( ndr. : nella prima metà degli anni ’90 gli Stati del Maghreb - Marocco, Algeria, Tunisia, Mauritania, Libia da una parte - e i Paesi europei del bacino mediterraneo - Spagna, Francia, Italia, Portogallo e Malta dall’altra - miravano a una collaborazione politico-economica. Dal 1995 l’Unione Europea sta cercando - con il cosiddetto «Processo di Barcellona» - di allacciare, con l’appoggio di tutti i 15 Paesi membri, un rapporto più stretto con circa una dozzina di Paesi dell’Africa e del Vicino Oriente che si affacciano sul Mediterraneo).

Quale sarebbe il vantaggio del «piano 5»5» rispetto all’attuale «Processo di Barcellona»?

«Dopo il vertice europeo di Marsiglia ( ndr : lo scorso novembre), Barcellona è defunta. Il "processo" non ha più alcun fondamento, è uno strumento di oppressione».

Chi viene oppresso?

«Barcellona non si basa su considerazioni economiche, ma unicamente su quelle politiche. Si vuole mescolare tutto, gli israeliani con gli arabi, la Turchia con l’Europa. Si tratta di un modo trasversale per far entrare la Turchia nell’Unione Europea. Ma se l’Unione Europea vuole la Turchia, allora deve farla entrare direttamente. Giordania, Palestina, Israele, Siria, Libano e Turchia sono Paesi asiatici. Ma esiste già una cooperazione euro-asiatica. Ed esiste una cooperazione euro-africana che promette bene, come ha dimostrato il vertice del Cairo ( ndr : tenutosi lo scorso aprile). Che senso ha allora il "Processo di Barcellona" se non quello di separare una parte dell’Africa per l’Europa e di dividere in tre il mondo arabo: una parte è idonea per l’Europa, una parte resta in Africa e una parte in Asia. Come dovrebbero essere allora i rapporti tra la Mauritania e la Svezia?» .

Che cosa si aspetta ancora dall’Unione Europea?

«Ritengo che Romano Prodi, in qualità di Presidente della Commissione Europea, stia facendo un buon lavoro. Chi ricoprirà la sua carica dopo di lui non riuscirà a imporsi allo stesso modo. Mi dispiace dover vedere come gli vengano messi i bastoni tra le ruote. Non è un bene per la Comunità Europea».

Che cosa lo ostacola?

«Gli interessi nazionali, soprattutto quelli della Gran Bretagna».

Farebbe una visita alla Commissione Europea a Bruxelles?

«Dopo i vertici del Cairo e di Marsiglia non vedo più alcuna difficoltà».

Quali sono i Paesi europei per lei più interessanti dal punto di vista economico?

«Per quanto concerne l’amicizia e la fedeltà, esiste un rapporto speciale con l’Italia. Dal punto di vista economico, la collaborazione con la Germania sarebbe importante e proficua. La Francia si sta adoperando molto in questo campo, ma è sfortunata: indipendentemente dalle sue intenzioni nascono sempre problemi politici».

Lei ordinerà degli Airbus?

«Adesso la Libia, dopo l’embargo, rinnoverà la propria flotta. Esiste una competizione tra gli offerenti: Airbus, Boeing, British Aerospace e un’impresa russa. Tutti sperano in quest’ordine, ma noi poniamo le nostre condizioni».

Quali?

«Non deve verificarsi ancora una volta quanto già accaduto: che noi acquistiamo per esempio dei Boeing e ci troviamo poi in balia di questa compagnia, perché all’improvviso sorgono problemi politici e ci viene imposto un embargo per le parti di ricambio e la collaborazione tecnica. Durante l’embargo si è verificata una grave sciagura: un aereo è precipitato durante un volo interno tra Tripoli e Bengasi con 150 passeggeri a bordo, perché un pezzo di ricambio di vitale importanza non era stato montato. Queste sono le nostre condizioni: indipendenza da decisioni politiche, e inoltre l’offerente deve istituire una base in Libia e trasferire così la tecnologia nel Paese».

Si parla di una possibile collaborazione tra Libia, Italia e Germania anche per altri progetti, ad esempio la realizzazione di una vasta rete ferroviaria nel suo Paese.

«In effetti esiste un grande progetto, e noi diamo il benvenuto a potenziali partner. Abbiamo rimosso molti ostacoli del passato. L’esperienza ci ha insegnato qualche cosa e la globalizzazione ci costringe a un’apertura. Chi non accetta questi cambiamenti internazionali passerà per reazionario».

Lei conosce le parole di Gorbaciov: «Colui che arriva troppo tardi, sarà punito dalla vita»?

(Ride) «È verissimo».

Un anno fa lei ha detto per la prima volta che l’era del terrorismo è finita. Perché?

«Per il semplice fatto che i motivi per tali azioni sono venuti a mancare. Una volta esistevano i movimenti di liberazione in tutto il mondo, era una fase del confronto armato. In Nicaragua, per esempio, la lotta per il potere doveva essere decisa con le armi, oggi ci sono le elezioni. In Irlanda si è sulla buona strada verso una soluzione politica, l’Ira sta per deporre le armi. Ma ciò nonostante il pericolo del terrorismo non è passato. C’è quello spietato movimento islamico che dissemina terrore in Algeria e in Egitto. La mafia si serve di metodi terroristici, allo stesso modo i trafficanti di droga. E poi esiste la minaccia terroristica da parte dei nuovi gruppi, che per esempio si appellano alle teorie etniche. Questo si è potuto vedere di recente nel Sud delle Filippine».

Allora è stato un errore l’aver armato in tempi precedenti gruppi islamici nelle Filippine?

«All’inizio non si è trattato di un errore, perché ci si trovava in una fase di conflitto armato e la provincia di Mindanao non sarebbe riuscita a ottenere l’autonomia diversamente. Ma adesso vediamo come determinati gruppi probabilmente usano la lotta armata come pretesto per ottenere delle cose completamente diverse, ed è proprio questo che ci preoccupa fortemente».

A quali condizioni lei approverebbe un accordo di pace in Medio Oriente? Quando riconoscerebbe il diritto di Israele a esistere?

«Esiste un esempio, e quello è il Sudafrica. In Israele i palestinesi hanno lo stesso status all’interno della società che i neri avevano una volta in Sudafrica e gli israeliani quello dei bianchi. In quel Paese bisogna stringere un’alleanza democratica come in Sudafrica sotto Mandela: il popolo palestinese deve poter tornare nei suoi territori e ci dovranno essere elezioni democratiche sotto il controllo delle Nazioni Unite. Non c’è altra soluzione».

Der Tagesspiegel
Traduzione Claudia Ansalone

Giovanni di Lorenzo