24 dicembre
Corriere della Sera
Prima Pagina
Pensando agli 8500 soldati italiani all’estero
MISSIONI DI PACE SENZA RETICENZE
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di SERGIO ROMANO

     Il Natale delle forze di pace italiane all’estero (oltre 8.500 uomini in una dozzina di Paesi) rischia di essere turbato e guastato dal dibattito sugli effetti dell’uranio impoverito con cui sono stati costruiti molti dei proiettili americani utilizzati in Bosnia e in Kosovo. Il primo e maggiore problema, naturalmente, è la sicurezza della popolazione civile e del personale militare, su cui il governo ha il dovere di fare chiarezza. Il secondo è la legittimità popolare di un impegno a cui maggioranza e opposizione hanno attribuito in questi anni grande importanza. Se sapremo, alla fine dell’inchiesta, che il rischio esiste e che gli americani hanno dato prova di reticenza o leggerezza, le operazioni di pace, soprattutto nell’ambito della Nato, diverranno impopolari e politicamente difficili. E’ sperabile e possibile che i timori degli scorsi giorni siano ingiustificati. Ma esiste in questa vicenda un problema americano su cui è utile riflettere. Quando terminò la guerra del Vietnam i reduci più intelligenti (quelli che negli anni Ottanta e Novanta avrebbero assunto il comando delle forze armate americane) capirono che il conflitto aveva avuto sul Paese effetti traumatici e che la pubblica opinione non avrebbe più permesso al governo di condurre una guerra con quei metodi e in quelle condizioni. Cominciò così una sorta di perestrojka militare che coincide, grosso modo, con la presidenza Reagan. I soldati divennero professionisti della guerra e ogni arma, vecchia o nuova, venne concepita e progettata con le tecnologie più avanzate: computer, laser, materiali ed esplosivi speciali. L’obiettivo di queste sperimentazioni e innovazioni era una guerra in cui i soldati americani avrebbero combattuto in condizioni di relativa sicurezza, di cui sarebbe stato possibile dare alla pubblica opinione, in corso d’opera, notizie scarse, e in cui sarebbe morto, sperabilmente, soltanto il nemico: esattamente il contrario, in altre parole, di ciò che era accaduto in Vietnam. La prima di queste nuove guerre fu combattuta nel Golfo dieci anni fa, la seconda in Bosnia nel 1995, la terza in Kosovo nella primavera dell’anno scorso. Ciascuna di esse presenta le stesse caratteristiche: gli americani rischiano infinitamente meno dei loro avversari, il margine degli errori è abbastanza elevato, i giornalisti vedono e descrivono (con qualche coraggiosa eccezione) soltanto ciò che i portavoce hanno la bontà di comunicare ai mezzi d’informazione. Le tre maggiori operazioni militari degli anni Novanta sono state caratterizzate da un alto tasso di reticenza e, a mio personale avviso, da risultati politici fortemente discutibili. E’ possibile che questo nuovo stile bellico abbia permesso alla direzione militare americana di sottovalutare i rischi di certe sperimentazioni e, in particolare, gli effetti dell’uranio impoverito? Lo sapremo, ripeto, soltanto alla fine dell’indagine. Ma sin d’ora è possibile osservare che la reticenza e la segretezza sono difficilmente compatibili con le operazioni per il mantenimento della pace. Sappiamo che le guerre non si fanno a carte scoperte e che il segreto è un’arma necessaria alla vittoria. Ma la pubblica opinione può tollerarne le conseguenze soltanto quando è convinta che dall’esito del conflitto dipenda il destino della nazione.

Un’operazione umanitaria non richiede soltanto efficienza. Richiede anche simpatia, consenso e un forte grado di pubblico sostegno. Nel loro stesso interesse è bene che gli americani, nei prossimi giorni, diano qualche franca risposta alle preoccupazioni dell’opinione europea.