Pesantissime responsabilità di Ciampi nell'ambrocrack (4 settembre)
Nota: nello stesso periodo Dini era direttore di Bankitalia
http://web.tin.it/tedeschi/ambro7.htm

Da: Ambrosiano: il controprocesso (Serarcangeli, 1988)
http://web.tin.it/tedeschi/ambros.htm

Vedi anche: Quando BandItalia e IOR ordinarono e comprarono azioni false

"LE DUE VOLPI"

   Il 19 gennaio 1988, mentre in tutta Italia (con l’eccezione di Gianni Agnelli, rivelatasi poi molto accorta) risuonava la grancassa degli applausi a Carlo De Benedetti per il suo colpo di mano sulla Société Générale belga, da Milano giungeva una notizia d’agenzia: i pubblici ministeri Pier Luigi Dell’Osso e Alfonso Marra, incaricati dell’indagine sul dissesto del Banco Ambrosiano, avevano deciso di insistere nella richiesta di un mandato di comparizione nei confronti dell’industriale di Ivrea per il reato di estorsione, in relazione al suo "blitz" nel Banco di Roberto Calvi tra la fine dell’81 e l’inizio dell’82. Tale richiesta era già stata presentata nel maggio 1987 ai giudici istruttori Antonio Pizzi e Renato Bricchetti (proseguiva la notizia d’agenzia) ma costoro, dopo alcuni mesi di indagine e l’interrogatorio di vari testi, fra cui il Governatore della Banca d’Italia, avevano deciso di respingerla. Decisione non condivisa dalla Procura, che aveva, invece, rinnovato la sua richiesta.

   Nel gran clamore suscitato dallo scontro fra Carlo De Benedetti e il mondo finanziario belga, la notizia passò quasi inosservata. Si aggiunga che il quotidiano di Eugenio Scalfari, in quelle giornate, non mancava di attaccare chiunque si mostrasse anche solamente tiepido nei confronti de "l’Ingegnere" (questo il nomignolo usato per indicare De Benedetti), come se ogni forma di critica, o di pur larvato dissenso, dovesse essere considerata alla stregua di un reato di lesa Patria. E così, fatta eccezione per l’autore di queste pagine, che ne scrisse su il Borghese, nessuno commentò in modo adeguato l’accaduto, né pose in risalto gli interessanti risvolti della intera faccenda. Che è altamente istruttiva, come si vedrà, e che ancora una volta chiama in causa la Banca d’Italia, per l’olimpica indifferenza dimostrata dinanzi ad episodi che avrebbero dovuto imporre un intervento immediato delle Autorità monetarie.

   Tutto incomincia la mattina del 19 novembre 1981, quando il quotidiano La Repubblica, con un titolo a piena pagina, annuncia: "Grande accordo De Benedetti-Calvi". Nella stessa pagina si informa che "la Borsa, euforica, ha guadagnato il 4%". Carlo De Benedetti, intervistato, elogia Roberto Calvi (che a quella data è già stato condannato, è già stato in carcere, ha già tentato il suicidio, è già stato fatto oggetto di ripetute interrogazioni parlamentari per la sua disinvolta attività all’estero, è già stato messo sotto accusa per i rapporti con Gelli e con la "P2") in questi termini: "E’ certamente un gran lavoratore. Ha saputo condurre egregiamente il suo gruppo e i dati finanziari ed economici lo dimostrano. Gli investimenti che ha fatto nel corso del tempo, la Toro, la Banca Cattolica del Veneto, il Credito Varesino, si sono rivelati estremamente validi. Per quanto riguarda la persona, non è compito mio esprimere giudizi".

   Il giorno dopo, 20 novembre, altro titolo a piena pagina su la Repubblica: "Calvi e De Benedetti due volpi per un impero". Nel testo, la decisione di De Benedetti viene spiegata in questi termini: "De Benedetti capisce che arrivare all’Ambrosiano significa sedersi in uno dei crocicchi nei quali sono passati non solo molti affari, ma anche molti giochi di potere. Sa che l’Ambrosiano, nei prossimi anni, sarò decisivo. Nelle sue casseforti c’è tanta parte della storia non scritta (e, forse, non scrivibile) di questo Paese. E sa anche che nella Centrale, controllata dall’Ambrosiano, c’è il 40 per cento della Rizzoli e il diritto di prelazione sul resto della Società editoriale. La Banca d’Italia ha imposto di vendere quel 40 per cento. Ma intanto il pacco di azioni sta lì. E, in ogni caso, è meglio starci seduto sopra che girarci intorno a vuoto. E non si tratta solo di questo: la finanza italiana è da tempo un po’ assonnata, le grandi Banche fanno solo le Banche, Cuccia di Mediobanca (che ha concepito tutti i grandi disegni di rinnovamento di questo dopoguerra) ha ormai 74 anni. Come non vedere nella poltrona di Vicepresidente del Banco Ambrosiano anche un’occasione per fare e disfare, per spingere e per rallentare, per guidare, insomma, l’industria italiana?"

   L’ingresso di De Benedetti nel Banco apre a Roberto Calvi le porte dei manipolatori d’opinione del fronte laico. Il 6 dicembre 1981 l’Espresso pubblica una lunga intervista con il banchiere, intitolata: "Perché ho sposato De Benedetti". Anche qui, le lodi a Calvi si sprecano: "E l’uomo-cassaforte d’Italia. Sia per i miliardi che per i segreti, che ai miliardi sempre si accompagnano. Ha una predisposizione naturale per l’ombra, ma da molti mesi è costretto a stare sotto la luce dei riflettori. Il 1981 è stato un anno clou per lui: fatto di grandezze e di miserie. Ha conosciuto il carcere, è stato condannato a quattro anni, gli si è scaricato addosso il tornado della P2. Ma ha anche aumentato il capitale dell’Ambrosiano, sta per aumentare quello della Centrale, si è comprato il Corriere e ha appena celebrato il brillante matrimonio con Carlo De Benedetti..."

   Ma evidentemente l’industriale aveva sbagliato, quando aveva pensato di poter entrare nel Banco Ambrosiano per "fare e disfare". E allora, ecco muoversi nuovamente il quotidiano domestico (per i motivi che poi si vedranno) ed annunciare, in data 2 gennaio 1982, con titolo a piena pagina: "L’Ambrosiano sotto accusa. ‘Ormai non abita più qui si è trasferito all’estero’". L’articolo de la Repubblica ricalca (toh, chi si rivede!) la relazione ispettiva del 1978. Infatti, l’"occhiello" del titolo recita "Da un’indagine della Banca d’Italia l’ipotesi di gravissimi reati"; nel testo, poi, si elencano le molte operazioni prese in esame dagli ispettori della Vigilanza e si conclude: "Il rapporto della Banca d’Italia segue questa miriade di transazioni, ne rivela le particolarità e le singolarità, e arriva infine alla conclusione che, dietro il proprietario estero della Suprafin, non c’è in realtà altri che lo stesso Ambrosiano. Deduzione confermata dal fatto che gli amministratori della Suprafin sono Luigi Landa, ex dirigente del Banco, e Livio Cadeluppi, fratello del ragioniere generale dell’Ambrosiano. In conclusione, il Banco contro ogni norma di legge ha comprato il controllo di se stesso e l’ha collocato all’estero. Questa è la realtà che emerge esplicitamente dal rapporto della Vigilanza che sta da mesi sul tavolo della Procura della Repubblica di Milano".

   E che stava da anni, aggiungiamo noi, sul tavolo del Governatore della Banca d’Italia.

   L’articolo de la Repubblica è la dichiarazione di guerra. Cominciano a trapelare le notizie degli scontri fra "le due volpi". Carlo De Benedetti accusa Roberto Calvi di averlo minacciato parlandogli di "un dossier sul suo conto preparato dalla P2". Roberto Calvi smentisce. Bruno Tassan Din fa giungere ai magistrati alcune bobine, relative ai retroscena della "operazione Rizzoli". Tutto ruota intorno alla contesa per la proprietà del Corriere della Sera, sin quando si giunge alla lite. Il 10 gennaio, con titolo a sei colonne il Messaggero annuncia: "E durata solo due mesi l’intesa Calvi-De Benedetti".

   La rottura finale, con le dimissioni di De Benedetti dall’Ambrosiano, arriva però soltanto il 22 gennaio. Il 23 il quotidiano confindustriale Il Sole-24 Ore, con il titolo "Un ‘benservito’ che vale 80 miliardi", rivela: "Definire i termini finanziari della clamorosa rottura non è difficile poiché ricalcano, a grandi linee, quelli che caratterizzarono, nel novembre dello scorso anno, l’accordo. Il riserbo degli interessati, naturalmente, è assoluto, ma le poche indiscrezioni trapelate fanno ascendere a circa 80 miliardi, tutto compreso, il costo del ‘benservito’ a De Benedetti..."

   L’industriale lascia passare qualche settimana; poi, in data 1 marzo 1982, pubblica su Panorama una lunga intervista intitolata "I miei 65 giorni con Calvi". Spiega di aver puntato alla successione del banchiere: "In fondo, l’ipotesi era per me quella di una breve permanenza con Calvi e di una lunga permanenza nell’Ambrosiano". Rivela di essere entrato nell’Ambrosiano con la benedizione di Ciampi, di Andreatta, di Spadolini, di Visentini e dei banchieri "laicissimi" Cingano e Cuccia. Fa sapere di avere condotto indagini per suo conto sulla situazione delle consociate estere del Banco Ambrosiano, accertando fatti "talmente atipici da richiamare la più sollecita attenzione da parte degli organi di vigilanza italiani sulle partecipazioni estere delle Banche nazionali". Ricorda di aver posto in evidenza una esposizione dello IOR (peraltro integralmente poi chiusa notiamo noi); di aver protestato contro le discriminazioni effettuate nei confronti dei soci con l’aiuto della "clausola di gradimento"; di aver richiesto che il Consiglio d’amministrazione si occupasse davvero delle questioni di funzionamento.

   L’intervista provoca interrogazioni parlamentari, tese a sollecitare un intervento della Banca d’Italia e del Tesoro. Come abbiamo già documentato in altro capitolo, il Tesoro risponderà a queste interrogazioni a mezzo del sottosegretario Pisanu, amico di Roberto Calvi, soltanto in data 8 giugno, quando il banchiere sta facendo la valigia per dileguarsi da Roma.

   A quella fuga seguono il commissariamento del Banco, la liquidazione, la nascita del Nuovo Banco Ambrosiano. Fin quando i liquidatori dell’Ambrosiano di Calvi, a cinque anni dal fallimento ed a pochi giorni dalla prescrizione per azioni di questo genere, decidono di presentare istanza di revocatoria per quello che il giornale della Confindustria aveva definito "un benservito miliardario". Il 9 giugno 1987 il Corriere della Sera annuncia, con titolo a quattro colonne: "Clamorosa richiesta dei tre liquidatori del vecchio Banco Ambrosiano - Vogliono 80 miliardi da De Benedetti". Dall’articolo si apprende che "l’Ingegnere" è denunciato anche per oltraggio a pubblico ufficiale, per avere indirizzato ai liquidatori una lettera "carica di osservazioni e controindicazioni giuridiche ed anche ‘farcita’ di invettive, vivaci e spregiudicate..."

   I giudici istruttori milanesi vengono colti in contropiede. Nella emissione di mandati di cattura contro gli amministratori dello IOR e gli amministratori del vecchio Ambrosiano, Carlo De Benedetti era stato lasciato indisturbato. Esisteva, è vero, un’imputazione per estorsione nei confronti di Roberto Calvi, ma anche questa era avviata a morire dolcemente. La richiesta dei liquidatori, benché tardiva, imponeva una riconsiderazione di tutta la vicenda, con allarmanti possibilità di sviluppi verso le responsabilità, sempre ignorate, della Banca d’Italia. E con la necessità di far luce su tutta una vicenda che era incominciata molto tempo addietro e che merita d’essere ricordata.

   Il primo tempo della storia risale alla primavera del 1981 e si svolge a Milano, in via Clerici. Roberto Calvi e il Gruppo Ambrosiano-Centrale sono da tempo "nel mirino" dei giornali di Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari, editori del Gruppo l’Espresso-la Repubblica. In particolare, quei giornali fanno carico al banchiere della sua amicizia con Licio Gelli, anche se nessuno finora è riuscito a spiegare in modo convincente come fu che un accordo fra Caracciolo e Scalfari da un lato, Rizzoli e Tassan Din dall’altro, per la spartizione del mercato editoriale, venne ritrovato fra le carte del "Venerabile" della "P2". Anche in questo caso, Licio Gelli aveva assunto le funzioni di "notaio" e "garante" dei patti? Nessuno sa dirlo.

   Come nessuno è in grado a tutt’oggi di spiegare perché la Federazione della Stampa, dopo aver protestato a suo tempo contro l’accordo fra Caracciolo-Scalfari e Rizzoli-Tassan Din, definendolo un attentato alla libertà e pluralità dell’informazione, ed avere annunciato una richiesta ufficiale di spiegazioni, sia rimasta zitta.

   Nel marzo-aprile del 1981, gli attacchi dell’Espresso e de la Repubblica contro Roberto Calvi sono continui e pesantissimi. Il "crescendo" si sviluppa di pari passo con le notizie provenienti dal Tribunale di Milano, circa l’istruttoria a carico di Calvi ed altri banchieri, per infrazione delle norme valutarie.

   Ma Caracciolo e Scalfari, pur facendo i moralisti, hanno bisogno di denaro. E allora, a dispetto degli attacchi giornalistici, Carlo Caracciolo si fa combinare un incontro con Roberto Calvi e "batte cassa". La risposta è negativa. Tuttavia il banchiere, per non assumersi la responsabilità intera del "no", smista la palla al Direttore Generale, Roberto Rosone, nel cui studio, al numero 2 di via Clerici, si affaccia alla metà di aprile il dottor Alessandrini, inviato dalla Editoriale l’Espresso spa.

   Su mandato e per conto di Caracciolo e Scalfari, l’Alessandrini presenta un progetto che prevede l’erogazione di 10 miliardi da parte del Gruppo Ambrosiano-Centrale alla Società pubblicitaria Manzoni spa, per una imprecisata ristrutturazione. Per le modalità previste nella proposta, si tratta in realtà di un vero e proprio finanziamento, senza che sussistano adeguate garanzie. Il "no" di Calvi, pertanto, viene ribadito da Rosone.

   Pochi giorni dopo, la mattina del 20maggio 1981, i Carabinieri si presentano in via Frua numero 8, a casa di Roberto Calvi, e arrestano il banchiere. I giornali di Caracciolo e di Scalfari esultano, presentando Calvi come il peggiore dei malfattori. Si tratta dello stesso Calvi al quale, soltanto venti giorni prima, essi chiedevano 10 miliardi.

   Il secondo tempo della storia si svolge fra la Sardegna, Milano e Roma e incomincia in agosto, quando Roberto Calvi, uscito di prigione il 20 luglio, sta trascorrendo nell’Isola un periodo di riposo insieme alla famiglia. Calvi, che ha sempre avuto un sistema nervoso assai fragile, ha subito, con la carcerazione, un colpo dal quale non si rimetterà più. Inoltre, la dura prova degli interrogatori in "notturna", seguiti dal tentato suicidio dell’8 luglio, ha lasciato il segno.

   Un giorno d’agosto, Roberto Calvi è in gita sullo yacht del suo consulente Francesco Pazienza, quando sotto bordo accosta l’imbarcazione di Flavio Carboni, imprenditore sardo, socio di Carlo Caracciolo (editore de l’Espresso e de la Repubblica) nel giornale di Sassari, la Nuova Sardegna. Carboni è in compagnia del Sottosegretario al Tesoro, Beppe Pisanu. Può vantare amicizie importanti nel mondo del "nuovo potere", fatto per due terzi di "laici" e per l’altro terzo di dc di sinistra. E intimo dell’ex Presidente della Regione, il repubblicano Armando Corona, che, forte dell’amicizia di Giovanni Spadolini, ha "fatto fuori" Gelli e si prepara a conquistare la suprema carica della Massoneria italiana. E intimo di Angelo Roich, dc di sinistra, destinato di lì a poco a diventare a sua volta Presidente della Regione sarda. È intimo di tanti altri. A Roberto Calvi, il quale è sempre vittima della sua "dietrologia" ed è convinto che per avere successo occorra essere legati al "potere parallelo" che agisce nell’ombra, questo Carboni sembra proprio l’uomo adatto per risalire la china, dopo l’infausta amicizia con Licio Gelli.

   Per sua disgrazia, Roberto Calvi ignora che Flavio Carboni è in contatto anche con altri personaggi: come ad esempio il gangster Domenico Balducci, ucciso a Roma nel 1981 mentre era ricercato dalla Polizia per sequestri di persona e traffici di droga, legato al Carboni per la gestione in Sardegna di un villaggio turistico; o come il gangster Diotallevi, anche lui socio del Carboni in affari edilizi e al tempo stesso legato al bandito Danilo Abbruciati, ucciso a Milano il 27 aprile 1982 dopo aver ferito, in un attentato, Roberto Rosone e il suo autista.

   Né va dimenticato, per inquadrare bene personaggi e situazioni, che proprio grazie ad alcuni atti molto discussi della Regione sarda a proposito del "caso SIR", Caracciolo prima e Carboni poi sono riusciti ad entrare in possesso del giornale la Nuova Sardegna, favoriti da Armando Corona. E non va sottaciuto che di tutti gli aspetti del "caso SIR", l’ex Governatore Paolo Baffi e l’ex Direttore di Bankitalia, Mario Sarcinelli, a suo tempo trattennero nei loro cassetti proprio il capitolo relativo alle elargizioni del Credito Industriale Sardo e per questo vennero incriminati (il secondo fu addirittura arrestato); furono poi assolti, ma soltanto perché si stabilì che, in base alla legge bancaria fascista, la decisione di informare o no la Magistratura era rimessa alloro arbitrio.

   Insomma, ce n’è abbastanza per allettare un uomo come Calvi, che ormai rincorre tutti coloro i quali si dicono pronti a vendergli "sicurezza" e "protezione" in cambio dei miliardi dell’Ambrosiano. E Carboni non è certamente tipo da perdere l’"occasione".

   Anzi, visto che il Gruppo Editoriale l’Espresso-la Repubblica continua ad avere bisogno di soldi, Flavio Carboni organizza cene alle quali invita Roberto Calvi ed il suo socio ed estimatore Carlo Caracciolo. Ma questa volta si punta grosso. Nel quadro delle nuove amicizie "laiche" prospettate a Roberto Calvi, infatti, già spunta all’orizzonte un nuovo astro, quello di Carlo De Benedetti. Ha inizio il più grande "salasso" che Roberto Calvi abbia subito.

   Preparato ben bene il terreno da Flavio Carboni, Carlo De Benedetti si presenta nell’ottobre ‘81 alla villa di Calvi in quel di Drezzo. Le trattative sono rapide, durano appena tre settimane. Il 19 novembre, viene annunciato ufficialmente l’ingresso di De Benedetti nel Banco Ambrosiano e la sua nomina a Vicepresidente. Il mondo finanziario esprime stupore. Ma la Repubblica di Scalfari, come abbiamo visto, giustifica l’operazione e il Governatore della Banca d’Italia dà il suo assenso, con soddisfazione. Sembra quasi che De Benedetti, "laico", con la sua sola presenza debba rendere immacolato Roberto Calvi, fino al giorno prima simbolo d’ogni nefandezza.

   Per entrare nel Banco, De Benedetti ha comprato circa il 2 per cento delle azioni, spendendo 50 miliardi di lire. L’acquisto dei titoli è stato compiuto a mezzo delle due Finanziarie di De Benedetti, la Finco e la Cir. Ma dietro l’operazione c’è un complicato intreccio d’affari tra De Benedetti e l’immobiliarista Giuseppe Cabassi. La Cir, che sulla carta sborsa 44 miliardi, in realtà non ha una lira; così la Finanziaria si fa dare da Cabassi 17 miliardi in cambio d’un paio d’aziende "un po’ asfittiche". Inoltre, Carlo De Benedetti possiede alcuni terreni, guarda caso, in Sardegna: pensa bene perciò di proporli alla Brioschi (di Cabassi) in cambio di un mucchietto di azioni di questa Società. Cabassi da parte sua, in margine all’affare, rilascia a De Benedetti una fidejussione, grazie alla quale il Credito Commerciale sborsa al nuovo socio di Calvi 27 miliardi. E il gioco è fatto, senza una lira, o quasi.

   Il 22 gennaio 1982, poco più di due mesi più tardi, quando il sodalizio fra De Benedetti e Calvi si romperà e il primo dichiarerà a mezza stampa italiana che ha abbandonato l’Ambrosiano perché non gli era stato consentito di veder chiaro nell’azienda né di esercitare i suoi poteri-doveri di Vicepresidente, Roberto Calvi pagherà caro questo "strano interludio". Ecco il conteggio del "benservito da 80 miliardi" fatto dal quotidiano della Confindustria:

   "Innanzitutto il milione di azioni del Banco. Il prezzo di cessione è molto simile a quello di acquisto, ossia di circa 50 mila lire per singolo titolo: nel complesso, quindi, 50 miliardi che il Banco Ambrosiano sborsa attraverso una ‘Società indicata’ che, a quanto risulta, avrebbe già collocato il pacco azionario presso non ben precisati soci bresciani.

   "A questi 50 miliardi debbono aggiungersi circa 4 miliardi di ‘interessi’ che i legali di De Benedetti hanno reclamato per l’immobilizzo della somma versata a suo tempo dalla Cir e dalla Finco.

   "Il Banco Ambrosiano, inoltre, liquida cash la partecipazione nella Brioschi che De Benedetti aveva affidato alla Centrale, affinché fosse classata sul mercato, al momento dell’accordo. La cessione frutta a De Benedetti una somma di quasi 25 miliardi.

   "Ma quanti di questi 80 miliardi resteranno nelle mani di De Benedetti? Probabilmente una somma vicina a 45 miliardi poiché 35 dovrà restituirli al Credito Commerciale che, a suo tempo, si era offerto di ‘scontare’ una fidejussione che Giuseppe Cabassi rilasciò ai margini dell’affare Brioschi, a favore di De Benedetti. Quest’ultimo, tuttavia, non potrà più disporre delle obbligazioni convertibili Olivetti che aveva ceduto al Banco a ‘integrazione’ della somma versata in occasione dell’acquisto del 2 per cento dell’Istituto. Questo pacco viene stimato attorno ai 25 miliardi e rientra, pertanto, nei 50 miliardi indicati".

   Investire 50 miliardi per ritrovarsi, dopo due mesi e quattro giorni, con 80 miliardi, è un buon affare, diciamolo pure; e l’affare, in realtà, fu addirittura favoloso.

   Il terzo tempo della storia si svolge a Roma, tra la seconda metà del 1981 e l’inizio del 1982, nella sede della Editoriale l’Espresso spa. Le faccende vanno decisamente male, al punto che il 30 settembre, convocata una assemblea straordinaria, Carlo Caracciolo, Presidente, sottolinea la necessità di provvedere subito ad un aumento di capitale, da un miliardo e mezzo a quattro miliardi. Sembra davvero che per Caracciolo, Scalfari e soci sia arrivato il momento di mettere le mani in tasca. In proprio.

   Sennonché, fra il settembre e il dicembre si verifica qualcosa di imprevisto, tanto che il 14 dicembre 1981 Carlo Caracciolo, convocata una nuova assemblea straordinaria, informa che "ragioni di opportunità rendono necessario l’annullamento della delibera del 30 settembre relativa all’aumento di capitale". Vero è che la Società continua ad aver bisogno di soldi; ma a questo si è provveduto grazie ad "un accordo di finanziamento concluso con la Riunione Generale Italiana di Mobilizzazione spa, Rigim" che "emetterà Fedi di Investimento emesse dalla stessa Società e convertibili in azioni della Editoriale l’Espresso sino ad un massimo di 4.320 milioni, con conversione dall’1.1.’83 al 31.12.’85". L’operazione prevede la conversione di 16 Fedi da nominali lire mille in una azione della Editoriale l’Espresso da lire mille.

   Che cos’è la Riunione Generale Italiana di Mobilizzazione? È una Fiduciaria, il cui nome si scrive Rigim, ma si legge Carlo De Benedetti, che infatti fa parte del Consiglio d’amministrazione. Caracciolo e Scalfari non debbono far altro che portare il capitale da 1.500 a 1.770 milioni, per adeguarsi. Uno scherzo.

   I particolari dell’intervento di Carlo De Benedetti emergono ancor più chiari alla conclusione del bilancio del 1981.

   La situazione della Editoriale l’Espresso a fine d’anno è sempre grave: 10 miliardi e 450 milioni di debiti con le Banche, contro i 3 miliardi e 450 milioni del 1980; 5 miliardi e 232 milioni di debiti verso i fornitori; 3 miliardi e 179 milioni di oneri finanziari, contro 1 miliardo e 263 milioni del 1980. Ciò nonostante, gli amministratori possono lietamente annunciare che sin dal 2 febbraio 1982 sono affluiti nelle casse della Editoriale l’Espresso "i 4.230 milioni della operazione Rigim spa". Inoltre, possono annunciare l’avvenuta vendita del 50 per cento della Manzoni, in questi termini:

   "1) La Editoriale l’Espresso vende alla Società SAPE il 50 per cento del pacchetto azionario della Manzoni spa per un importo di L.3.000 milioni; 2) la SAPE e la Editoriale l’Espresso partecipano pariteticamente ad un aumento di capitale della Manzoni da 2.900 a 9.000 milioni".

   Ed ecco l’annotazione rivelatrice: "La SAPE è una Società finanziaria di proprietà della Mondadori, la quale cederà il 50 per cento del capitale di questa Società alla Ing. Olivetti spa di Ivrea". Ancora una volta, dunque, spunta Carlo De Benedetti, il quale si conferma in tal modo come il vero "padrone" della Editoriale di Caracciolo e Scalfari (con appendice, ‘all’epoca’, di Carboni).

   Ora, si ricordi quanto abbiamo scritto poco sopra, circa il fatto che Carlo De Benedetti entrò nel Banco Ambrosiano quasi senza una lira e ne usci con un "benservito" da 80 miliardi. Si consideri l’aiuto obiettivamente fornito a De Benedetti dai giornali di Caracciolo e Scalfari che, aggredendo tutti i giorni Roberto Calvi, resero evidentemente più facile quel giuoco di entrata-uscita-guadagno. E si ponga mente alle date.

   Il 30 settembre 1981, quando De Benedetti non ha ancora iniziato le trattative con Roberto Calvi, Caracciolo e Scalfari sono costretti a pensare ad un aumento di capitale che li obbligherà, questa volta, a tirar fuori dalle loro tasche almeno 2.500 milioni. Ma il 19 novembre De Benedetti entra nell’Ambrosiano, dove comincia subito a litigare con Roberto Calvi, tenendo informata degli sviluppi del litigio, oltre ai giornali, anche la Commissione d’inchiesta sulla "P2". In questo quadro, il 14 dicembre dell’81 Caracciolo e Scalfari convocano un’altra assemblea straordinaria, annullano la delibera dell’aumento di capitale e annunciano di avere felicemente risolto tutti i problemi grazie alle Fedi di Investimento della Società in cui De Benedetti è consigliere. De Benedetti, arrivato al 22 gennaio 1982, esce dall’Ambrosiano con il bottino che s’è detto. Il 2 febbraio 1982 i 4.230 milioni della "operazione Rigim" sono affluiti nelle casse della Editoriale l’Espresso.

   Pura coincidenza? Ammettiamolo pure. È certo però che i giornali di Caracciolo e di Scalfari, in altri casi, su molto meno hanno costruito atti d’accusa chilometrici. E soprattutto è certo che, se la cosa avesse interessato altri, quei giornali non avrebbero ignorato la vicenda della "liquidazione miliardaria".

   Il quotidiano della Confindustria, da parte sua, pur rivelando l’entità del "benservito", sorvolò su due punti: Carlo De Benedetti, quando acquistò il 2 per cento delle azioni dell’Ambrosiano e diventò Vicepresidente del Banco sborsando "poco meno di 52 miliardi", pagò forse in contanti?; e quando uscì dal Banco Ambrosiano, sessantacinque giorni più tardi, Carlo De Benedetti che fece? Rivendette le sue azioni; ma come? a che prezzo?

   A queste domande, poste a suo tempo su il Borghese dal sottoscritto, rispose il 7 novembre l’Espresso, giornale di cui l’Amministratore delegato della Olivetti era ed è in tutto o in parte (a seconda delle voci) il patron. Fonte ineccepibile, dunque; e proprio questa fonte fornì la conferma ufficiale del fatto che Carlo De Benedetti, quando si associò a Roberto Calvi acquistando il 2 per cento delle azioni dell’Ambrosiano, non pagò in contanti, bensì con un mazzetto di obbligazioni, così composto: "19,5 miliardi di obbligazioni Olivetti, poco meno di 6 miliardi di obbligazioni Cir e 27 miliardi sotto forma di obbligazioni emesse dalla Temsa (controllata al 10 per cento dalla Cir) a fronte di un’operazione con Cabassi". Questa operazione con Cabassi era una sorta di giuoco di bussolotti: "De Benedetti vende Sella e Fusac (due aziende che vuole cedere) a Cabassi e riceve da lui terreni in Sardegna, che poi cede alla Brioschi in cambio del 20 per cento delle azioni che la ‘perla’ di Cabassi andrà ad emettere non appena avrà ricevuto la necessaria autorizzazione. Valore della operazione: 32 miliardi".

   In pratica, avvenne questo: al momento di entrare nell’Ambrosiano, De Benedetti (è sempre l’Espresso a raccontare, confermando alla virgola quanto noi avevamo rivelato) dice a Cabassi: "A fronte dei 32 miliardi di azioni Brioschi che mi devi, fammi emettere tratte su una tua Società. Tu me le avalli, così io le posso far scontare da una Banca e ottenere i soldi che mi necessitano per chiudere con Calvi".

   La proposta viene accettata, con opportune "correzioni". Cabassi fa gestire l’affare da una sua Società a responsabilità limitata, la Sogea, con appena 20 milioni di capitale (!). La Temsa di De Benedetti (altra "scatola cinese") emette tratte per 32 miliardi; la Sogea le avalla; il Credito Commerciale di Milano, sollecitato anche da Calvi, le accetta e dà a De Benedetti 27 miliardi (32 miliardi scontati di 5 per l’interesse).

   È in questo modo che Carlo De Benedetti entra nel Banco Ambrosiano: pagando con obbligazioni (titoli a lungo termine, di cui ormai tutte le Banche sono strapiene) e con denari presi a prestito mediante tratte emesse a fronte di una ipotetica emissione azionaria.

   Correttezza avrebbe voluto che, sessantacinque giorni dopo, al momento di andarsene, De Benedetti si limitasse a riprendersi i suoi titoli e le sue tratte, facendosi calcolare gli interessi. E invece no: entrato con i "pezzi di carta", De Benedetti esce mettendosi in tasca denaro contante.

   La storia non è finita. Sempre secondo l’Espresso (che, sia detto senza offesa per i colleghi della redazione, rappresenta un po’ la voce del padrone) al momento in cui De Benedetti decide di lasciare il Banco Ambrosiano, la Cofircont ("Fiduciaria nell’orbita dell’Ambrosiano") ritira il pacchetto azionario del Nostro "per 52 miliardi più interessi maturati nel frattempo". Dopo di che, in data 21 gennaio 1982, "Calvi, in qualità di Presidente de La Centrale, scrive alla Sogea di Cabassi impegnandosi per le Brioschi. Sarà l’Ambrosiano a fornire alla Sogea i 32 miliardi necessari per riscattare le tratte. De Benedetti esce quindi di scena e la partita Brioschi si gioca tra Cabassi e La Centrale".

   E qui viene il bello. Infatti, quando il debito arriva in scadenza si scopre che i famosi terreni in Sardegna sono stati sopravvalutati e che le famose azioni Brioschi per 32 miliardi "ne valgono si e no 22". La Centrale, perciò, non ritira i titoli; ma Cabassi, che attraverso la Sogea ha avallato le tratte della Temsa di De Benedetti, non è affatto disposto a subire un salasso. Non resta perciò che una possibilità: che l’Ambrosiano "si rivalga sulla Temsa, richiamando così in causa De Benedetti" (citiamo sempre da l’Espresso). Ma questo, ovviamente non avviene.

   Nella storia che stiamo raccontando c’è anche un quarto tempo; si svolge fra Roma e Milano ed ha luogo dopo la morte di Roberto Calvi. Il Banco Ambrosiano è stato messo sotto gestione commissariale; indagini sono aperte sulle operazioni compiute da Calvi, sia in passato, sia in articulo mortis. Il giorno 8 luglio 1982, i magistrati Fenizia, Marra e Dell’Osso interrogano, al Palazzo di Giustizia, Carlo De Benedetti. All’uscita, il patron della Olivetti dichiara: "Sono stato sentito in relazione al periodo in cui sono stato Vicepresidente del Banco Ambrosiano. Credo di avere fornito tutti i chiarimenti possibili. Tuttavia, se i magistrati dovessero ritenere di risentirmi, sono a loro completa disposizione".

   In realtà, a giudicare dai fatti, sembra che i tre magistrati, quando hanno interrogato De Benedetti, non fossero a conoscenza dei suoi interventi a favore della Editoriale l’Espresso, concretati, sia attraverso la Rigim, sia attraverso l’acquisizione di metà della Manzoni. Sembra inoltre che i magistrati non fossero nemmeno informati del fatto che quella conclusa da Caracciolo-Scalfari-De Benedetti era in realtà una operazione triangolare, poiché le Fedi di pegno furono cedute alla Comit, dove il Gruppo de l’Espresso-la Repubblica ("sponsorizzato", a quanto sembra, da Pietro Rastelli) ebbe due miliardi di scoperto. Operazione letteralmente incredibile, in pratica un prestito su pegno del pegno: e tutto questo a vantaggio di gente che, dai suoi giornali, pretendeva (e ancor più pretende) di dettar lezione di morale bancaria all’Italia intera.

   Né si può ignorare, ai fini di una tutela del mercato editoriale, che attraverso la Manzoni e la SAPE si stabilì un collegamento di fatto tra l’Espresso e Panorama; che il pacchetto delle azioni Mondadori già di proprietà della Centrale fu acquistato nel febbraio 1982 per 17 miliardi da un consorzio di Banche guidato proprio dalla Comit; che la Comit è poi la stessa dove l’Espresso trovò i due miliardi con il sistema di pegno su pegno.

   Un’ultima annotazione, che riguarda ancora la Banca d’Italia. Nel 1982, per difendersi dalle critiche di Cesare Merzagora (De Benedetti, disse l’ex Presidente del Senato a proposito del "benservito da 80 miliardi", "ha certamente un problema morale con se stesso e verso i terzi, di difficile soluzione") e nostre, "l’Ingegnere" fece alcune confidenze all’Europeo. E questo settimanale, per dimostrare la buonafede de "l’Ingegnere" rivelò che il 22 gennaio 1982, "giorno delle improvvise e clamorose dimissioni dalla carica di Vicepresidente del Banco Ambrosiano" il Nostro aveva scritto una lettera al Governatore della Banca d’Italia.

   Questa lettera (spedita "in termini sostanzialmente uguali anche al Ministro del Tesoro Andreatta e al Presidente della Consob Guido Rossi") doveva dimostrare:

   1) che Carlo De Benedetti era entrato nel Banco Ambrosiano unicamente per portare a termine una operazione finanziaria che gli sembrava legittima e valida;

   2) che Carlo De Benedetti, nei 65 giorni di permanenza all’Ambrosiano, non era riuscito a sapere nulla sulla gestione del Banco;

   3) che, infine, la sua decisione di uscire dall’Ambrosiano era stata motivata proprio con la impossibilità di sapere, messa a verbale in una seduta del Comitato Finanza del 12 gennaio, e che "successivamente, in data 16 gennaio, egli ricevette offerta di riacquisto delle azioni..."

   Di qui l’atto di accusa di Carlo De Benedetti contro Ciampi, Andreatta e Rossi. Se è vero, infatti, che De Benedetti fino dal 22 gennaio aveva portato a conoscenza di Ciampi, di Andreatta e di Rossi la situazione da lui rilevata all’interno del Banco Ambrosiano ed aveva fornito addirittura la documentazione al riguardo, allegandola alla famosa lettera, non si comprende perché il Governatore, il Ministro del Tesoro e il Presidente della Consob non siano intervenuti immediatamente. È da rilevare anzi che il Ministro del Tesoro continuò a far finta di nulla, almeno all’esterno, tanto che a soli due giorni dalla fuga di Roberto Calvi, il sottosegretario Pisanu, rispondendo alla Camera ai deputati Minervini e Spaventa, dichiarava, a nome di Andreatta, che la situazione dell’Ambrosiano era sotto controllo.

   In pratica, giova ripeterlo ancora una volta, se Roberto Calvi, per motivi tuttora incomprensibili, non si fosse allontanato da Roma per andare a morire sotto il ponte di Londra, quella lettera, che Carlo De Benedetti rese pubblica il 25 ottobre 1982, sarebbe rimasta ben chiusa nei cassetti della Banca d’Italia e del Tesoro.

   Caso lampante di omissione d’atti d’ufficio. E non è il solo: perché tutta la "Ambrosiano story" è fatta di queste omissioni, sconfinate sovente nella complicità.

                          * * *

   Questi i retroscena della nota d’agenzia del 19 gennaio 1988 ricordata all’inizio del capitolo e degli articoli apparsi su vari quotidiani del 20 per annunciare che la Procura della Repubblica milanese insisteva nella richiesta di incriminazione di Carlo De Benedetti. "La tesi accusatoria della procura, non condivisa però a quanto sembra dall’Ufficio Istruzione", scriveva in data 20 il Corriere della Sera, "è che De Benedetti (il quale aveva avuto modo di rendersi conto degli imbrogli attuati da Calvi e dai suoi complici per prosciugare le casse dell’Ambrosiano) al momento di andarsene sbattendo la porta avrebbe non solo ottenuto la restituzione dei 52 miliardi sborsati [teoricamente, come abbiamo visto, N.d.R.] all’atto del suo ingresso nella Banca, ma avrebbe in pratica, costretto Calvi ad acquistare il pacchetto di azioni Brioschi [che azioni non erano, N.d.R.] a un prezzo rivelatosi di gran lunga superiore, si tratterebbe di alcune decine di miliardi, al valore effettivo dei titoli. Un acquisto che Calvi avrebbe subìto pur di mettere a tacere l’uomo che, se avesse rivelato quanto sapeva, avrebbe potuto rovinarlo definitivamente". Nell’articolo il Corriere della Sera sottolineava come il contrasto sul "caso De Benedetti" avesse determinato fra la Procura e l’Ufficio Istruzione "una lacerazione piuttosto clamorosa, che i vertici del Tribunale e della Procura sembra stiano tentando di ricucire, come si vedrà probabilmente solo quando l’intera istruttoria sul Banco Ambrosiano arriverà alla conclusione".

   Tale rinvio ha sottolineato ancora una volta le singolari differenze emerse nel trattamento riservate dalla Magistratura milanese ai personaggi coinvolti nella vicenda del Banco Ambrosiano; trattamento differenziato, che ha creato tre diverse categorie, in cui i soggetti "socialmente pericolosi" da perseguire con la massima rudezza sono risultati i dirigenti dello IOR, che erano estranei alla amministrazione del Banco; i soggetti "colpevoli a metà", da perseguire con indulgenza, sono risultati gli amministratori del Banco; il soggetto da risparmiare è risultato infine colui che del Banco fu Vicepresidente e fu anche il solo a guadagnarci, lucrando più di trenta miliardi in 65 giorni. E scusate se è poco.

   A parte ciò, non v’è bisogno di attendere la conclusione dell’istruttoria per sottolineare le responsabilità della Banca d’Italia, che non soltanto sponsorizzò Carlo De Benedetti ma, attraverso di lui, tutto seppe. E in effetti, "l’Ingegnere" non nascose mai di aver deciso di entrare nel Banco Ambrosiano d’intesa con il Governatore della Banca d’Italia. È lecito pensare, perciò, che quando alla fine del 1981 De Benedetti incaricò il rappresentante della Olivetti in Venezuela, Paolo Venturini, di eseguire un’indagine sul Banco Andino, e scoprì che non si trattava affatto di una Banca fiorente ma soltanto di una Finanziaria autorizzata a trattare esclusivamente operazioni estere, e il cui portafogli prestiti aveva registrato una progressione di 800 milioni di dollari negli ultimi dodici mesi, abbia informato la Banca d’Italia. E se non lo fece allora lo fece sicuramente poco dopo, il 22 gennaio, quando, in seguito alla rottura con Calvi, scrisse al Governatore la famosa lettera in cui dava la sua versione dei fatti.

   Mancavano, allora, cinque mesi al naufragio del Banco Ambrosiano e la Banca d’Italia, per affermazione concorde del dottor Ciampi e del senatore Andreatta, non era ancora riuscita a penetrare nel "muro del segreto" innalzato da Roberto Calvi e dai suoi fiduciari intorno all’attività estera del Banco. Come mai a Carlo De Benedetti fu sufficiente spedire un telex con la richiesta di notizie al fiduciario della Olivetti in Venezuela per sapere, nel giro di pochi giorni, quello che gli Ispettori della Banca d’Italia (stando alla versione ufficiale) avrebbero appreso soltanto alla fine di maggio? Ammettiamo pure che questi Ispettori, dipinti come fulmini di guerra d’una Vigilanza accortissima ed inflessibile, si siano rivelati, all’atto pratico, decisamente inferiori, come livello, al semplice agente commerciale della Olivetti; ma come si spiega, allora, il fatto che il Governatore sia rimasto inerte anche dopo aver ricevuto la lettera che Carlo De Benedetti gli scrisse, per spiegare i motivi del suo divorzio da Roberto Calvi?; come si spiega l’ostinato silenzio, protratto per mesi, dinanzi alle interrogazioni sull’uscita di De Benedetti dall’Ambrosiano?

   E infine un ultimo interrogativo: perché "l’Ingegnere" sentì il bisogno di spiegare il suo comportamento alla Banca d’Italia? Forse per precostituirsi una linea difensiva contro chi l’avrebbe accusato di avere abbandonato la nave cinque mesi prima del naufragio senza dir niente a tutto il resto dell’equipaggio (cioè gli amministratori) ed ai passeggeri (cioè i risparmiatori) e, anzi, guadagnandoci sopra una trentina di miliardi? Rupert Cornwell, autore del libro Roberto Calvi, il banchiere di Dio, avanza l’ipotesi suggestiva (e da molti condivisa) che in realtà la Banca d’Italia intendesse sponsorizzare Carlo De Benedetti nella "scalata" all’Ambrosiano (è noto che le "scalate" sono la specialità del Nostro). "Ciampi riteneva che la Banca milanese fosse fondamentalmente solida", ha scritto Cornwell, in un libro che sulla linea generale ricalca tesi gradite alla Banca d’Italia e alle Sinistre, "e il successo dell’operazione di aumento di capitale di 240 miliardi di lire sembrava confermare tale opinione. Se De Benedetti voleva crearsi un impero, non sarebbe stata certo la Banca centrale ad impedirglielo".

   Ipotesi più che verosimile: l’accordo del 18 novembre fra Roberto Calvi e Carlo De Benedetti fece incontrare, non già "due volpi" come scrisse il quotidiano di Scalfari, ma una faina e un’anatra zoppa. La conclusione era inevitabile, prevista, desiderata, di chi tirava (e tira) i fili del mondo del credito in Italia.