[Vignetta
su Cossiga di Gavino Sanna, offline]
Natale
al quartiere Prati
Nel
fondo dell'impero
La
Rosa di nebbia
Sogno
dopo il risveglio
Guerra
e dopoguerra
Comincia
il terzo dopoguerra
Babilonia,
Babilonia
Woman
soldier, che vuoi?
Pedde
rationem. Sceicco al 33%
War
games, mister president
Ora
comando io
Al n.77 di Via Ennio Quirino Visconti, nel quartiere Prati a Roma, la signora Peppa Sigurani maledì il giorno in cui suo marito era nato. D'accordo, era il padre dei suoi figli, ma quell'uomo le aveva amareggiato tutta la vita. C'erano voluti trent'anni perché la gente sapesse o sospettasse chi era veramente Cossiga. Bastava scegliere l'aggettivo giusto per catalogarlo. Uno o due dei tanti che, durante quell'anno 1990, gli era stato affibbiato. Testardo, permaloso, chiacchierone, insicuro, fedele, fragile, diabolico, ambiguo, avventato, paranoico, segreto, volpino, pazzoide, ciclotimico, modesto, melanconico, amletico, timido, presuntuoso, delirante, estroverso, spiritoso, stressato,. Appunto, era il rebus dell'anno. Per gli altri: per gli italiani che leggevano i giornali e guardavano la TV. Quanto a lei, però, donna Giuseppina Sigurani [NDR: soprannominata dalle voci malevoli la Cerva d'Italia], non aveva dubbi: erano soltanto due gli aggettivi con cui aveva individuato quell'uomo entrato nella sua vita malfatata. E nulla aveva potuto lei e nulla suo padre che, perduta la speranza di avere giustizia da un tribunale rotale, aveva deciso di archiviare gli ultimissimi anni della sua vita rientrando con disgusto nella confidenza del genero. Nonno Sigurani, cioè , non era riuscito a salvarla con lo scioglimento del vincolo matrimoniale e allora aveva rivendicato un suo posto in quella famiglia per dedicarsi quanto meno ai nipoti che poco o niente sapevano di quel loro celebre padre. Il genitore di donna Giuseppina era morto consegnando persino la sua anima a quello che considerava, forse in maniera esasperata, il suo spietato carnefice. Quella di donna Giuseppina era una vecchia storia che tutti avevano volutamente dimenticato. Il suo ruolo di sepolta viva era inaspettatamente venuto alla luce, tre giorni prima di Natale. Guardando per caso quel giornale aveva scorto, come prima cosa, la foto del suo matrimonio scattata in quel dicembre che marciava verso l'anno 1960. Un maledetto dicembre, il primo di tanti altri tristissimi da quando aveva lasciato la sua città per seguire il marito a Roma. Quest'imbroglio, Giuseppina Sigurani, che gli intimi chiamavano Peppa, se l'aspettava da almeno cinque anni, esattamente dal 5 luglio 1983, giorno in cui suo marito era stato eletto presidente della Repubblica.
Qualche settimana prima che si verificasse questo avvenimento, lei aveva fatto l'ultimo tentativo per liberarsi del suo vincolo di moglie di un uomo così importante. Ma un monsignore del Vaticano le aveva rivelato che il futuro presidente aveva preso le sue contromisure per tenerla legata alla famiglia e rafforzare con questa finzione l'immagine del suo settennato. E che famiglia era la sua, quella in cui andava e veniva: senza ordine, senza orari, come se non fosse marito, pensando soltanto al suo futuro e scegliendo la parta comoda di separato in casa come un ininterrotto privilegio della sua funzione? In quell'anno in cui l'Italia delle televisioni e dei giornali aveva fatto precipitare dal piedistallo suo marito presidente, l'unica cosa che non era ancora stata rivelata era la sua vita privata. Ma eccolo l'imbroglio, il disordine mentale del presidente, quell'andare su e giù ragionando bene e sragionando, diverrtendo con le sue battute così poco protocollari e spaventando con le sue impennate autoritarie, come se fosse un dittatore centroafricano, veniva attribuito a una specie di emarginazione familiare. Alla fine saltava fuori che il presidente era un girovago senza orario. Costretto a chiedere alle mogli degli amici e dei più stretti collaboratori, un piatto di minestra calda. Ebbene la colpa non era la sua, di Giuseppina Sigurani, che per dare una vita regolare ai figli aveva fissato lo svolgimento del pranzo e della cena nell'ora regolamentare in cui la gente comune, in tutto il paese, consumava i pasti. Mentre il marito spesso mancava per giorni e quando c'era confondeva il giorno con la notte, come il comandante lunatico di una guarnigione di frontiera nel deserto.
Ancora una volta il presidente, o qualcuno per lui, metteva le mani avanti. E, tanto per cambiare, era lei a fare ancora le spese della carriera del suo celebre marito. La cosa, però, non sarebbe finita come sempre. Aveva scelto la parte della sepolta viva, o v'era stata costretta per amore del vecchio genitore e dei figli, ma non avrebbe accettato che le imponessero quella dell'aguzzina di un uomo che non era soltanto famoso e importante ma soprattutto malato; malato da far uscire di senno gli altri. Questa volta non avrebbe confidato la sua rabbia all'amico monsignore del Vaticano, ma avrebbe affrontato il problema, chiamando il cugino primo Ceschino che era, a valutar bene le cose, il parente più anziano del presidente.
Paolo
Fois, preside della facoltà di Giurisprudenza dell'università,
pregò l'oratore ufficiale di trattenersi. Ormai i colleghi e gli
amici avevano lasciato l'aula magna. Soltanto un gruppetto di sostenitori
di partito aspettava Mariotto Segni
per
festeggiarlo più intimamente e fargli un resoconto sugli ultimi
avvenimenti del collegio elettorale. Incredibile quanta gente comune aveva
partecipato a quella conferenza sulle riforme istituzionali. I magistrati,
gli avvocati, i docenti e i presenzialisti accaniti frequentatori di tutto-quanto-fa-cultura,
invogliati dall'intervento ormai abituale delle telecamere più che
dall'attualità del tema dibattuto, erano come scomparsi, inghiottiti,
pressati in prima fila e dai lati dai nuovi arrivati. Gente mai vista.
Con la faccia attenta. Ogni tanto guardava l'orologio ma non voleva perdere
una sola parola del dibattito. Cosa stava accadendo? Il prof. Mario Segni,
detto Mariotto, era un personaggio noto. Terzo di tre figli maschi, da
bambino era cresciuto nella casa paterna di Viale Umberto 54. Poi aveva
seguito il padre a Roma e aveva trascorso la giovinezza tra Palazzo Chigi
e il Quirinale. Era pur sempre il figlio del primo sardo divenuto presidente
della Repubblica. Non era uno qualunque. Vezzeggiato da bambino, adulato
da giovanotto, osteggiato da adulto era tornato a Sassari a insegnare nella
stessa università del padre e a gestirne il ricordo, incoraggiato
dal vecchio elettorato degli anni '50 e '60, con un seggio al parlamento,
ormai al terzo mandato. Da oltre quindici anni viveva la sua vicenda politica
come un separato in casa. Gli altri parlamentari sardi lo avevano sempre
circondato di una freddezza pari alla tanta gratitudine che avrebbero dovuto
avere per il padre. In lui vedevano, forse, l'ombra del benefattore e certamente
volevano rimuovere gli incerti iniziali della carriera quando era d'uso,
specie tra la gente che frequentava la chiesa, inginocchiarsi e baciare
le mani in segno di riconoscienza. Ma il vecchio Segni era nato signore,
non pretendeva genuflessioni e viveva a contatto con la gente di campagna
di cui seguiva anche l'ascesa dei figli negli studi. Non aveva smania di
arricchirsi e ciò che non aveva di suo, che poteva provenirgli dal
prestigio delle varie cariche pubbliche, lo lasciava ai nipoti, amministrati
saggiamente dalla moglie donna Laura. I tre fratelli Segni, Celestino,
Paolo e Mariotto, sembravano tre figli adottati, tanto era il riserbo cui
erano stati educati per non dispiacere ai cugini, per piacere alle centinaia
di persone che frequentavano il, Palazzo di Viale Umberto, ma soprattutto
per non peccare di superbia. Tanta umiltà e riservatezza aveva congiurato
per riservare ai primi due Segni una vita ordinata e semplise e al terzo
una carriera accademica e parlamentare vissuta senza grandi clamori provinciali,
priva di enfasi ma segretamente lodata nel confronto con l'arroganza dei
tanti politici e faccendieri che avevano frequentato la sua casa nell'infanzia,
dando così il via a tante carriere spesso pompose e chiacchierate.
Mariotto Segni aveva i suoi estimatori a Roma, nel parlamento, tra le grandi
famiglie della Prima Repubblica che erano sopravvissute al postindustriale,
tra i ranghi della diplomazia, gli alti gradi delle Forze Armate e ora,
da quando aveva deciso di capeggiare i referendum sulle riforme istituzionali,
tra tutta la gente comune che guardava la televisione. La sua notorietà
era cresciuta in un momento incredibile: quando era diventato presidente
della Repubblica, un secondo sardo, Francesco Cossiga: uno che aveva giocato
con i suoi fratelli, aveva fatto il consigliere e il portaborse, si far
per dire, del padre e che era stato protetto da donna Laura come se fosse
un altro figlio adottato, ma più speciale degli altri tre che aveva
felicemente dato alla luce. Il frutto di questa notorietà incredibile
per Mariotto, anche se non immeritata, era l'accorrere di tutta quella
gente comune. Che un tempo sembrava smaniare per il secondo presidente
della Repubblica nato a Sassari. E che ora cercava in Mariotto la sua gloria
di campanile, il desiderio di rivalsa contro una classe politica giudicata
invadente e corrotta: decisa a ristabilire il tradizionale gradimento dei
sardi nella Penisola (nonostante i sequestri di persona di cui venivano
accusati i pastori nuoresi trapiantati in Toscana); brutalmente scossa
da quando l'inquilino del Quirinale in carica aveva dato fuori di matto
insultando tutti: politici, magistrati, gesuiti e persino generali colpevoli
di aver presenziato a un funerale di soldati.
"Hai
visto quanta gente contro la prepotenza dei partiti" osservò pacatamente
Paolo Fois guardando l'amico con un bagliore ammiccante. "La folla di questa
sera è un anticipo sull'esito dei tuoi referendum." "Conosci Sassari
meglio di me" osservò Mariotto. "E' gente volubile, impiccababbo
[NDR: riferimento al detto sardo: ' Tattareddu impicca babbusu ']. Certo
è che tutta questa folla non me l'aspettavo. Davvero impensabile."
"Ho bisogno di parlarti, Mario. Qui siamo tutti frastornati. All'estero
si fanno beffe di noi anche se per loro il capo dello Stato è sempre
il capo dello Stato. La gente del tuo partito non sa da che parte darsi.
I colleghi del PCI sono discreti ma guardinghi. (Sarà perché
hanno i loro guai e per via delle parentele che da noi hanno sempre contato.)
I Berlinguer si stringono nelle spalle. Sergio Berlinguer telefona raramente.
E non si fa trovare al telefono o forse è veramente occupato. Le
poche indiscrezioni le sappiamo dal fratello Franco. Dice che Sergio è
disperato: che gli è ormai impossibile controllare il presidente.
Non riesce più a rassicurarlo. E' costretto a correre da una parte
all'altra. La sua trafila di ambasciatore di carriera, Sergio, la sta consumando
tra il Quirinale e i palazzi romani. Qualcuno è andato in Vaticano
a trovare don Enea Selis.
Il
vecchio monsignore ascolta e tace. Si è sfogato soltanto con mio
fratello Sergio. Gli ha detto che il presidente non è "compos sui".
Proprio così, da prete. Ma è veramente fuori di senno, Francesco
Cossiga? Intendo dire, ormai in maniera irrecuperabile?" Paolo Fois insegnava
diritto internazionale. Era un personaggio raffinato, elitario, viveva
gran parte del suo tempo accademico e privato tra gente di studi, colleghi
delle università straniere. Non fumava, era vegetariano, viveva
fuori dai pettegolezzi e aveva un debole per la musica rock che non dichiarava
per non appannare in pubblico la sua grande competenza nella musica classica
e nei grandi contemporanei che si esibivano a Beyrut o al Metropolitan
di New York. Era un cattolico rigorosissimamente laico. Era cresciuto rispettando
gli amici dell'infanzia e le scelte politiche familiari della giovinezza
ma si era tenuto lontano dalle tentazioni della gente delle due chiese.
Suo fratello Sergio era andato precocissimo a Roma a insegnarvi diritto
costituzionale ed era, ma è proprio il caso di dirlo? ciò
che il prof. Francesco Cossiga non era mai riuscito ad essere: bravo davvero,
senza l'ausilio della politica. Paolo e Sergio erano amici dei Segni sin
da bambini. Avevano frequentato assieme la Fuci, fatte le prime gite in
montagna e assieme si erano comprati i primi cappotti di loden e scelti
i maglioni di cashemire da mettere sulle camicie a quadri. Studi più
o meno paralleli, quelli di Paolo e Mariotto: stesso distacco dalla gente
della politica. Anche se Paolo non aveva avuto in famiglia un presidente
della Repubblica, bensì uno zio colonnello, monarchico dichiarato,
nemico acerrimo della gente di potere vicina a casa Segni, che svillaneggiava
con rotonda arguzia e intelligenza tribunizia. Non si era mai sentito un
parente povero di Francesco Cossiga; aveva il suo orgoglio, le sue certezze
e idee precise sulla sua carriera senza per questo mancare di rispetto
al presidente prima, durante e dopo il suo impazzimento istituzionale.
"Capisco
lo sconcerto della nostra gente" disse l'amico di Mariotto, "ma la verità
è che a farne le spese è la memoria di mio padre. Gli interventi
del presidente stanno avvolgendo il paese di sospettio. D'accordo, sono
le nebbie di storie vecchie. Ma la difesa ad oltranza del piano Solo e
dell'Operazione Gladio, non richiesta e non opportuna, sta dando
corpo a fantasmi che circolarono pochissimo nel passato: giusto quel tanto
che serviva alle carriere di due o tre generali. Te li immagini Togliatti
o Nenni, se avessero creduto ciò in cui fanno finta di credere Ochhetto
e Martelli? Avrebbero sollevato il paese e nessuno, se fosse stata vera
una cosa del genere, sarebbe riuscito a fermarli. Mio padre dovette sopportare
le voci fatte mettere in giro da Saragat per non dispiacere agli americani
della Nato, che invitavano alla prudenza per non offrire pretesti
ai servizi segreti dell'Unione Sovietica e dei paesi dell'Est."
"Tu
escludi, dunque, che il generale dei carabinieri De Lorenzo abbia vagheggiato
un colpo di Stato?" chiese cautamente Paolo. "Tu sai da quanti anni mi
occupo dei servizi di sicurezza. E per una scelta degli altri, non mia.
Ebbene, per quanto segretamente abbia temuto che qualcuno potesse aver
sorpreso la buona fede e l'onestà di mio padre, tutte le voci messe
in giro dal 1964 in poi si sono mostrate infondate. Mio padre ha sofferto
per non poter uscire dai limiti tracciati dalla costituzione, per l'impossibilità
di difendersi. E' persino morto dal dispiacere per queste accuse di golpismo
che sono via via scemate nei sette anni in cui è stato presidente
il socialdemocratico Giuseppe Saragat. Ci voleva proprio Cossiga a richiamare
quelle fantasie da libro giallo, quei pruriti da generali delusi che fecero
ridere persino Togliatti e Nenni. A che scopo?
Per nascondere il suo passato di segreto aspirante al massimo incarico nel Kgb o nella Cia? La fantasia di Cossiga è andata sempre ben oltre la sua apparente cultura di costituzionalista devoto alla Repubblica..."
Il
presidente fece disporre l'uso della Prefettura di Milano per quella sua
sosta riservata. Mancavano tre giorni a Natale. L'Italia sembrava scesa
ufficialmente in guerra contro la sua persona. Ma decise di non perdersi
in analisi, di evitare il bilancio tra i torti e le ragioni, di contare
gli amici rimasti fuori dal crescente esercito dei suoi nemici. Quel che
aveva da fare lo avrebbe fatto da solo. Bastava stringere i denti. Dal
Pentagono erano giunte notizie precise. Scaduta l'ultima tregua, l'America
e quasi tutto il resto del mondo avrebbero aggredito l'Iraq. I suoi gladiatori
sarebbero stati inghiottiti dalla sabbia del deserto assieme ai soldati
di Saddam Hussein. Il presidente aveva sempre avuto una fede cieca nella
guerra: come pratica di purificazione. Il fatto di non averne conosciuto
una e di non aver mai indossato una divisa non ne aveva attenuato il fascino
per uno come lui abituato a far precedere i fatti dalla fantasia e a lasciare
alla Provvidenza che i suoi desideri si tramutassero regolarmente in realtà.
C'era chi voleva convincerlo di non essere un uomo appagato e felice, fortunato
e onnipotente. Ma gli avvenimenti della sua vita dicevano il contrario.
L'eco lontanissimo dell'ultima guerra mondiale l'aveva avvertita in Sardegna,
a Siligo, dove gli anziani genitori erano prudenzialmente sfollati. Da
Sassari aveva trasferito, nella sua bella casa di paese, i libri e i compiti
della seconda liceo,. Quando arrivava il padre, direttore della più
importante cassa agraria dell'Isola, Cossiga aveva smesso da poco di giocare
agli ultimi raggi di un sole estivo, nascondendo dietro il muretto a secco
del cortile l'implacabile fionda con cui uccideva decine e decine di lucertole
che poi esponeva come trofei sotto un bagno di luce che le rendeva lucide
e friabili come polvere d'argento. Aveva la più bella collezione
di lucertole uccise tra i ragazzi del paese.
Un
altro ricordo di guerra era la fame dei compagni di giochi: le merende
della madre gli avevano procurato le prime certezze, il piccolo dominio
sugli amici, il consenso benevolo dei loro genitori. Le attenzioni della
gente di paese erano quelle dovute al padre, ma almeno per ora, Cossiga
non provava invidia o rancore. Lo avrebbe appreso col tempo che il potere
dei vecchi è spregevole e opprimente quando non si dispone per esserti
trasferito.
L'altro
contatto con la guerra (con la gente della guerra, ché quello con
le bombe, con i morti e il corredo degli orrori era terminata vent'anni
prima) lo ebbe in un giorno di luglio del 1964. Il presidente della Repubblica,
presso il quale svolgeva un incarico di consigliere costituzionale, aveva
voluto che fosse presente mentre un generale dei carabinieri, che si interessava
dei servizi segreti, diceva che l'Italia correva il rischio di avere una
guerra civile per colpa delle sinistre. Andò a finire che i membri
del governo, che avevano capito che quel generale parlava per allarmare
il presidente della Repubblica e per garantire gli interessi delle destre,
pregarono il leader socialista presente a quella riunione di entrare in
un gabinetto di centro-sinistra. L'operazione avrebbe lasciato intatte
le cose com'erano (soprattutto avrebbe evitato di trasformare i suoli privati
in suoli pubblici) impedendo alle masse dei lavoratori, che reclamavano
le riforme sociali, di occupare le piazze per ottenere un governo delle
sinistre. Francesco Cossiga, da sei anni deputato a Roma, aveva registrato
quel piccolo capolavoro politico con apparenza gelida, ma con l'intima
certezza che il controllo dei servizi segreti era la chiave più
importante per aprire e chiudere le stanze in cui era custodito il potere
dello Stato. Non era un caso che l'avessero scelto per arruolare una speciale
milizia che in caso di sovversione interna o di occupazione militare da
parte dei paesi dell'Est potesse operare stando indietro, operando nascosta,
per neutralizzare tentativi violenti di colpi di Stato (NDR: o la vittoria
tramite libere elezioni del PCI). L'avevano chiamata Gladio. Erano passati
quarant'anni: nessuno, sino a qualche mese prima, l'aveva mai scoperta
quell'organizzazione di pretoriani, anzi di gladiatori a partecipazione
statale, che era costata come un ente inutile, ma non aveva mai fatto danni,
e gli aveva consentito, andando in soccorso all'opera della Provvidenza,
di diventare presidente della Repubblica. Ma era poi tanto cambiato da
allora?
Il
presidente congedò il suo segretario generale dopo il dettagliato
elenco delle cose richieste. l'ex ambasciatore Sogno lo avrebbe accolto
personalmente alla porta. Il comandante della "Rosa dei venti", che era
il club più esclusivo, meno popolare, dei patrioti che avevano accettato
di farsi arruolare, in caso d'invasione dei paesi del Patto di Varsavia,
aveva commesso la leggerezza di minacciare la classe politica colpevole
di non saper difendere lo Stato dalle Brigate Rosse. Ex comandante partigiano,
era rimasto sempre una testa calda. L'aveva fatta franca dalle tante inchieste
giudiziarie, grazie alle sue conoscenze tra i grandi nomi dell'industria,
gli ambienti della vecchia nobiltà sabauda e l'intellighenzia ancora
legata alla Resistenza: giornalisti, scrittori, editori, gente di Borsa,
immobiliaristi e managers del terziario avanzato. Se avesse rivelato, magari
per vanità senile, di aver trascorso gli ultimi quarant'anni sul
piede di guerra, sempre pronto a intervenire contro i comunisti, non importa
se interni o esterni, questo avrebbe fatto il gioco di quanti lo stavano
accusando di essere pervenuto alla carica di presidente della Repubblica
dopo un praticantato politico fatto di intrighi, di trame segrete e di
omicidi di Stato.
Il
presidente Cossiga aveva conosciuto l'ex ambasciatore Edgardo Sogno quarant'anni
prima. E non per ragioni si servizio, di anticomunismo strategico, ma per
ragioni strettamente familiari. Quel lontano incontro era avvenuto in una
stanza dell'hotel Plaza, a due passi dal Parlamento, occupata quella sera
da Franco Palici di Suni
della Planargia, un patrizio sardo di vaste frequentazioni continentali...
Pedde rationem, sceicco al 33%
L'incontro avvenne in modo riservato, come aveva preteso il presidente, purtroppo ancora indisposto. Li accolse il segretario generale quasi a sottolineare l'importanza notarile della sua presenza che sarebbe durata per quasi tutto il colloquio. Il dottor Pedde introdusse Davide Croff che era uno degli amministratori delegati.
Il dottor Yerome Colafichy arrivò per conto suo, ciondolando gli ex 140 chilogrammi di stazza, afflosciata di una decina di libbre tra le guance e l'addome. Ci furono pochi convenevoli. Il dottor Yerome, che dava del tu a tutti, tagliò corto dicendo:"Introduci tu, Sergio. Oltretutto sei l'esperto delle cose inglesi."
"Lo
faccio da incaricato, non da esperto. Riassumo. In questo momento la banca
pakistana, la BCCI, braccio operativo della CIA, è per il 77% in
mano allo sceicco dell'Abu Dabi, Zayed. Il resto è in mano... ma
dica lei, dottor Croff."
"Intende
dire, ambasciatore, in mano di Saddam Hussein?"
"No.
Intendo dire che quel 33% è garantito, al momento, da 50 deliberati
dall'area finanza della BNL e da un deposito di 20 milioni di dollari rilasciati
da clienti italiani all'Iraq, quindi a Saddam Hussein. Le autorità
britanniche hanno ragione di minacciare."
"Sono
i pasticci di Drogoul" disse Croff all'ambasciatore.
"Ancora Drogoul? E mi spieghi perché quei pasticci Drogoul li faceva sul conto "Oscar Newman", a Londra, anziché ad Atlanta o a New York?" Il segretario generale puntò gli occhi come un laser in direzione del dottor Pedde.
"Ma quel conto" intervenne prontamente l'ex direttore generale della Banca Nazionale del Lavoro "è stato chiuso il 31 luglio 1989."
"Infatti, quel conto è stato chiuso tre giorni prima che l'FBI irrompesse nei vostri uffici della filiale di Atlanta. E tutto il mondo venisse a conoscere, nel giro di poche ore, che la nostra maggiore banca nazionale aveva perduto 4 mila miliardi."
L'ambasciatore riprese fiato e sibilò gelidamente:"Ora intervieni tu, caro dottor Yerome, che sei l'esperto delle cose arabe, pakistane e americane che bollono nelle pentole delle banche inglesi."
"Non nego che la situazione è paradossale" disse cogliendo la palla al volo Yerome Colafichy. "Lo sceicco Zayed ha un socio di minoranza, Saddam Hussein, di cui non può liberarsi per non esporre l'Italia che è un alleato degli americani e degli sceicchi nella guerra del Golfo. E sin qui, capisco la beffa, giustifico le preoccupazioni. Ma per il resto? Sul conto "Oscar Newman" sono stati movimentati appena tre milioni di dollari l'anno. E non è difficile capire perché. Vero Sergio?" L'ambasciatore diede un pugno sul tavolo, perdendo insolitamente il controllo, e prese ad avviarsi. E rivolgendosi all'ex direttore generale della BNL, ordinò perentoriamente:"Dottor Pedde, chiudi tu questa disgustosa partita."
"La chiudo io e con semplicità" s'intromise il dottor Yerome. E spiegò pacatamente:"I soci americani s'impegneranno col Pentagono - prima dell'eventuale intervento delle autorità monetarie britanniche - per attribuire alla SPS, la nostra holding in Sardegna, i lavori di ristrutturazione della base nucleare di Santo Stefano. Basta a risarcirci. Non abbiamo fretta. Non vogliamo soldi. Il presidente si infurierebbe. Vogliamo considerazione. E qualche favore. Vero, dottor Croff?"
"Dice a me? Dovrebbe sapere dall'altro suo conterraneo, il senatore Gianuario Carta, che il mio ruolo nell'affare di Atlanta è stato marginale. Io ho svolto soltanto un lavoro di risanamento, all'indomani dell'accertamento del buco."
Il dottor Pedde si agitò sulla poltrona come se volesse intervenire. Il dottor Yerome incrociò nuovamente lo sguardo con Davide Croff. "Le chiedo una mediazione romana, a livello di marketing. Non soldi, ripeto, fidi, lettere di patronage o diavolerie del genere. Ha idea di quanta acqua berranno nel deserto i soldati dell'esercito schierato contro Saddam Hussein? Ebbene dovranno essere soltanto la Perrier e la Badoit a fornirla? Io le faccio un nome italiano: Giuseppe Ciarrapico."
"Dottor Yerome, questa è una cosa che dovreste sbrigarvi tra conterranei. Mi capisce?"
"Spero che venga capito lei dal protettore del Ciarra, sua Eccellenza il presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Quanto ai conterranei, ha ragione. E' sardo il presidente, il suo segretario generale, lo è il dott. Pedde, lo sono anch'io. Ma ne manca un quinto: il Prof. Savona, quello grazie al quale lei è rimasto al suo posto."
Croff
rispose con un sorriso sprezzante, di sfida. "Ne manca un sesto: il senatore
nuorese Gianuario Carta, presidente della commissione d'indagine sullo
scandalo di Atlanta. Mi autorizzate a rivelargli il tenore del nostro colloquio?"
Il
dott. Pedde non fece in tempo a rimbalzare sulla poltrona. Il dott. Yerome
gli impose ancora il silenzio. E chiese a Croff: "E il nostro recapito
in via Marche? Intendo dire quello della BCCI aperto per gestire le lettere
di credito per gli operatori italiani che lavoravano in Iraq?" Pedde impose
il silenzio a Croff.
"La
filiale romana chiuderà il 31 maggio. Non si è andati mai
oltre una ventina di miliardi all'anno. E' stata offerta all'Ambroveneto
che pare interessata a rilevarne la gestione. L'indirizzo di via Marche
1, può continuare ad essere un vostro recapito. Volendolo potete
utilizzare anche la foresteria. Tutto qui. Caro Yerome. Ricordati, Cossiga
dovrà essere tranquillizzato."